Antonio Celano

Renzo Paris: Pasolini. Ragazzo a vita. Presentazione sabato 30 gennaio 2016 – “Erasmo – La Gaia Scienza” Livorno

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Lara Vanni: La bella e la bestia. Una storia come tante. Presentazione venerdì 15 gennaio 2016 – “La Feltrinelli” Livorno

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La bella e la bestia

 

Un momento della presentazione con l'autrice, la criminologa Lara Vanni

Un momento della presentazione del libro con l’autrice, la criminologa Lara Vanni

 

Con me, a destra di Lara Vanni, l'editore Stefano Mecenate

Qui e nella successiva foto: con me, a destra di Lara Vanni, l’editore Stefano Mecenate

 

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Simona Zecchi: Pasolini. Massacro di un poeta. Presentazione sabato 12 dicembre 2015 – “Erasmo – La Gaia Scienza” Livorno

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Pasolini

 

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Da sx: Carla Benedetti, Simona Zecchi, Antonio Celano

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Simona Zecchi e Antonio Celano in un momento dell’incontro

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Carla Benedetti

 

 

Romana Petri: Le serenate del Ciclone. Presentazione sabato 21 novembre 2015 – “Erasmo – La Gaia Scienza” Livorno

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Il pubblico intervenuto

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Alessia Cespuglio legge alcuni brani dal libro “Le serenate del Ciclone”

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La presentazione da sx: Antonio Celano, Romana Petri, Francesca Duranti

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Cristina Guarducci: Malefica luna d’agosto. Presentazione sabato 5 novembre 2015 – “La Feltrinelli” Livorno

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dicembre 14, 2015 at 8:02 PM

Recensione a: Serena Gaudino, Antigone a Scampìa (Il Primo Amore/Effigie, 2014)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata» lunedì 29 giugno 2015.

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Che suggestivo titolo l’Antigone a Scampìa (Effigie/Il Primo Amore 2014, 128 pp., 12.00 €) di Serena Guadino. Enigmatico, come forse apparve ai suoi lettori il Cristo si è fermato a Eboli di Levi prima di addentrarsi nel suo sangue. Un libro che mai evita, al femminile, di confrontarsi con una tradizione meridionalistica di ricerca e impegno già avviata con quel “Cosa vorremmo tenere e sviluppare, e cosa cambiare nella vita di questa zona?” che, nei primi anni Sessanta, Danilo Dolci pose ai contadini delle sue Conversazioni.

E dunque, cosa ci fa Antigone a Scampìa? E perché la partenopea Serena Gaudino, fin qui musicologa e giornalista, scrittrice di racconti e storie per bambini, l’avrebbe condotta fino al quartiere dell’estrema periferia Nord di Napoli – circa quattro chilometri quadrati, settantamila abitanti, tra registrati e non, che mette accanto classi e etnie della più eterogenea provenienza, lumpen e classi medie, immigrati e “deportati” del dopo terremoto – su cui, più efficacemente di altri, Saviano ha saputo accendere i riflettori sul suo degrado dopo anni di dimenticanza quasi totale?

Scampìa, in napoletano, indica un “incolto improduttivo”, un terreno non coltivato o un ex-campo poi abbandonato. Valutazione topologica oggettiva e priva di ulteriori implicazioni valoriali in un mondo largamente ancora dominato dalla cultura contadina, dove di scampìe ce ne sono sempre state tante in ogni paese. Ma che non ha mancato di segnalare scivolamenti di senso sul piano morale man mano che la periferia metropolitana a nord ne ha inglobato l’area, infine imponendola all’opinione pubblica come luogo del degrado. Un posto fatalisticamente segnato e condannato già nel nome anche da giornalisti impegnati a rivelarne il malaffare di camorra: “Scampìa ha la condanna incardinata nel suo stesso nome. La fotte pure l’etimologia”. Un giudizio tanto persistente quanto avvitato in bizzarre contraddizioni. Se, infatti, quella Scampìa, tra le altre, è stata lottizzata e riempita di palazzi e condomini “grazie alla legge 167 che, fino a che prendesse piede il nome attuale, serviva per indicare il nuovo quartiere a nord della città, accanto a Secondigliano: ’A Cientesissantasette”, si può, poi, concludere con un “be’, viene da rimpiangerlo quel nome che faceva un po’ New York, anche se si andava, nella numerazione, ben oltre Harlem, verso il Bronx”?

Eccola, allora, Scampìa sinonimo di “scampare”, di “scappare”. Mentre dovrebbe essere ribattezzata “Accampìa”, cioè un luogo dove il mutamento storico torna a misurarsi contro ogni presunta invariante antropologica. Scampìa non più soltanto, allora – dice Gaudino –, non luogo di cemento da attraversarsi velocemente in auto come un palombaro con lo scafandro, ma un quartiere restituito agli abitanti, ai suoi attori principali, riconquistato dalle istituzioni e dalle associazioni che operano, dal basso, in quella porzione di territorio. In tal senso, la stessa struttura del volumetto della Gaudino non sembra mai porgere, al lettore, la frantumaglia di un mondo per cui poco può valere mettersi a incollarne i cocci. Le sue pagine, invece, accumulano e dispongono svariati materiali di riflessione (“Alfabeto Scampìa”, ad esempio) solo apparentemente eterogenei ma, al contrario, già capaci di anticipare un’organizzazione di senso ancora non risolta, certo, ma già propositiva e in cammino sul piano degli obbiettivi. Segno di un tempo che cambia.

Dopo un lungo impegno al progetto culturale del “Centro Hurtado”, Serena Gaudino diventa socia di “Dream Team – Donne in rete per la RiVitalizzazione urbana”. L’associazione, fondata da Patrizia Palumbo, propone alle donne del quartiere un progetto educativo alternativo ai normali piccoli interventi di formazione affidati al volontariato. L’idea è quella “di promuovere un percorso che, partendo dal loro vissuto, le invitasse a riflettere sulle loro condizioni di vita” favorendone il cambiamento. La Palumbo apre, così, uno sportello d’ascolto che accoglie le socie, ma offre loro anche tempo per ascoltarne il disagio, le storie, tutto quello che non si potrebbe riferire nemmeno “al confessore e men che meno alle assistenti sociali”. Nel frattempo la Gaudino si è imbattuta in un piccolo libro, il racconto di Antigone che Simone Weil aveva iniziato, con alterne fortune, a scrivere attorno alla metà degli anni Trenta del Novecento; e ha fatto conoscenza con Beatrice Monroy, una cantastorie siciliana interessata alla narrazione dei classici letterari che la incoraggia su questa strada.

Dunque, per un anno intero, tra il 2008 e il 2009, più o meno alla fine della cruenta guerra di camorra che aveva travolto Scampìa, Serena Gaudino ha narrato a un gruppo di una cinquantina di donne la storia di Tebe, di Laio, di Edipo e di Antigone: “perché, come scriveva Simone Weil, solo la grande poesia greca riesce a parlare al cuore delle persone, inducendole a riflettere sulla propria condizione di vita”. In seguito sono iniziati i racconti delle donne che, “immedesimandosi nell’eroina sofoclea e trovando analogie tra la loro lotta e quella di Antigone, hanno iniziato a rileggere la loro vita alla luce del mito e a darne una nuova autentica interpretazione”. Struggenti le pagine della madre che racconta la morte del figlio Tonino, vittima innocente di un agguato di camorra, esposto al fuoco perché i suoi problemi motori non gli consentono di fuggire in tempo. Oppure drammatiche quelle della donna che vuol darsi fuoco perché stretta, lei e il suo giovane figlio, tra le violenze degli spacciatori del quartiere e quelle della polizia, fino a condizionarne pesantemente persino i ritmi di vita.

Serena Gaudino porta, così, Antigone a Scampìa prendendone il testimone da Simone Weil, la grande figura dell’emancipazione sociale e femminile che, per prima, sperimentò un analogo confronto tra la condizione delle operaie inglesi e quella delle donne della tragedia greca. Con l’intenzione di sollecitarne, attraverso il coinvolgimento e l’identificazione, una maggiore presa di coscienza e una più forte convinzione al cambiamento. E tuttavia l’Antigone di Scampìa, più delle altre, trova, nella sua base sofoclea, la tragedia tutta moderna di un più profondo scarto nomologico tra il concetto di giustizia, rettitudine e amore da un lato e di legalità e diritto dall’altro, ponendo così in essere una figura di forte complessità anche tra il binomio individuale “diritto/amore” riflesso in quello collettivo “oppressione/rivendicazione”.

È così che, grazie all’esperienza sul campo con le donne di Scampìa, la Gaudino ci consegna un’interpretazione nuova e originale al mito sofocleo, che fin qui ha spesso letto, troppo nettamente, l’Antigone come beniamina positiva di una giustizia antisistema. Certo Antigone resta una “vittima che rivendica la legge dell’amore” e la “salvezza della memoria, verità e giustizia”, ma nello stesso tempo sa vestire anche i panni del boia e dell’aguzzino, se è capace di coinvolgersi nelle logiche di camorra, rivendicando “la validità del crimine contro chi ha ucciso i loro famigliari”: il Creonte che sorveglia, perseguita e punisce senza riuscire a soccorrere, ma anche custode dell’imparzialità della Legge dello Stato. “Solo chi non conosce la situazione può pensare, troppo ottimisticamente, che le donne di Scampìa si identifichino in Antigone solo contro il Sistema camorristico. Le donne di Scampìa si identificano in Antigone contro tutti i loro nemici, che possono essere sia il Sistema che lo Stato… sono madri che scendono in piazza e mogli che piangono i mariti; madri che difendono i figli ma che alle volte, purtroppo, sono costrette anche a seppellirli; possono essere donne di camorra e contemporaneamente madri, alla ricerca di una voce che traduca in richieste d’aiuto i loro gesti”. Antigone è, dunque, una testimone: la testimone dello scontro, scrive la Gaudino, “tra la coscienza privata e l’interesse pubblico” in un conflitto irrisolvibile “perché entrambi hanno ragione”.

E tuttavia, pur ormai lontani dagli anni in cui compiva il suo esperimento (parliamo del periodo dopo il 1934, quello delle Riflessioni, in Italia raccolte in un libro Adelphi a cura di Giancarlo Gaeta), più di un’eco delle riflessioni della Weil rimane leggibile tra le pagine dedicate dalla Gaudino a Scampìa. Perché, pur riconfermando la fiducia nella rivoluzione, la Weil non ritiene ormai più possibile conciliare quell’ideale, per lei antiautoritario, con il consolidamento di un’élite di rivoluzionari di professione ben presto, a scapito della classe operaia, trasformatasi in una casta burocratica (tanto quanto le tecnoburocrazie occidentali). È possibile che presa del potere e liberazione possano coincidere? E, per contro, è davvero possibile rinunciare all’azione organizzata? E, se in tutti e due i casi la risposta fosse negativa, quale sarebbe allora la via d’uscita? La risposta di Simone Weil, pur provvisoria, è la sua discesa all’esperienza di fabbrica, tra le operaie, la rivendicazione di una centralità negata, schiacciata da un sistema sociale oppressivo impermeabile a ogni teoria sull’ineluttabilità della sua eliminazione per via dell’operare storico delle forze dello sviluppo. Vale invece avere coscienza che ogni progresso nasce, invece, dall’azione responsabile di individui e gruppi che incidono realmente in una realtà sociale chiaramente definita. Saremmo così, allora, non al recupero di un generico e moraleggiante riformismo, ma a una vera e propria “resistenza attiva” tra le smagliature del potere e dell’oppressione sistemica.

Il Quotidiano del Sud – Lunedì 29 giugno 2015

Bianca Garavelli: Le terzine perdute di Dante. Presentazione sabato 20 giugno 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Sotto: la presentazione del libro Le terzine perdute di Dante (Rizzoli, 2015) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli.

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Sotto: Un altro momento della presentazione del libro. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli, Francesco Mencacci.

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Sotto: finita la presentazione, Bianca Garavelli legge il Canto XXVIII del Paradiso affrontando, durante il commento, il tema della cosmologia dantesca.

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Sotto: al termine della serata, foto di gruppo. Da sx: Antonio Celano, Nino “Belforte” Di Paolo, Bianca Garavelli e Francesco Mencacci.

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Renato Barilli: La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil. Presentazione sabato 13 giugno 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Sotto: la presentazione del libro La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil (Mursia, 2014) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. Da sx: Francesco Parasole, Antonio Celano, Renato Barilli, Francesco Mencacci.

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Sotto: Antonio Celano e Renato Barilli.

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Serena Gaudino: Antigone a Scampìa. Presentazione sabato 9 maggio 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Invito alla presentazione di 'Antigone a Scampia' di Serena Gaudino

Sotto: la presentazione del libro Antigone a Scampia (Il Primo Amore/Effigie, 2014) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno.

A leggere alcune pagine del libro è la sua autrice: Serena Gaudino.

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Sotto: alcuni momenti del dibattito. Nelle prime due foto, tutti gli intervenuti. Da sx, Carla Benedetti, Antonio Celano, Serena Gaudino, Francesco Mencacci. (Foto di Landa Grazioli e di Serena Senesi, che ringrazio).

Foto di Landa

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Sotto: qualche momento della presentazione.

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Sotto: Prima della presentazione. Due chiacchiere con Nino, il libraio, attuale proprietario della Belforte 1805; un sorriso di Serena; La Gaudino con Carla Benedetti.

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Antonio Moresco: Gli increati. Presentazione sabato 11 aprile 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Invito alla presentazione Gli increati di Antonio Moresco

Sotto: la presentazione del libro Gli increati (Mondadori, 2015) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. A parlare del libro è il suo autore: Antonio Moresco.

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Sotto: alcuni momenti del dibattito. Nella prima foto, tutti gli intervenuti. Da sx, Carla Benedetti, Antonio Celano, Antonio Moresco, Francesco Mencacci. In quelle seguenti, un paio di momenti del dialogo tra Antonio Celano e Antonio Moresco durante la presentazione.

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Io e Moresco Celano Moresco

Sotto: Nelle foto di Luca Nape D’Alessandro, la folla intervenuta alla presentazione.

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Sotto: la sera stessa l’attore Giovanni Balzaretti recita (con musiche dal vivo di Filippo Conti) La lucina, versione liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Moresco. Anche in questo caso, gli spettatori non mancano.

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Franco Arminio: “Di mestiere faccio il paesologo”. Presentazione domenica 29 marzo 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Sotto: l’intervento di Franco Arminio all’incontro sulla «Paesologia» negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno.

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Sotto: Franco Arminio spiega al pubblico intervenuto che cos’è la «Paesologia».

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Alla fine, per celia, si assumono pose nel mettersi in posa…

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aprile 22, 2015 at 10:26 PM

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Carlo D’Amicis: Quando eravamo prede. Presentazione sabato 14 marzo 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Presentazione Libro Quando eravamo prede

Sabato 14/03 alle ore 17:30

Un momento dell’incontro alla «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno con Carlo D’Amicis per la presentazione di Quando eravamo prede (Minimum Fax, 2014) con (da sx): Antonio Celano, Carlo D’Amicis e Francesco Mencacci.

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Carlo D’Amicis ci saluta con un sorriso al momento della partenza da Livorno…

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aprile 22, 2015 at 9:33 PM

Tiziano Scarpa: Come ho preso lo scolo. Presentazione sabato 24 gennaio 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Presentazione Libro Scarpa

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Un momento dell’incontro alla «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno con (da sx): Carla Benedetti, Antonio Celano, Tiziano Scarpa (Foto di Giulia Pappalardo). Ringrazio la scuola di scrittura «Carver» per l’appoggio alla presentazione.

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gennaio 25, 2015 at 9:19 PM

Premio “Carlo Levi” ad Aliano. Tra calanchi e letteratura

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Tutti

Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», lunedì 1 dicembre 2014.

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Ero ad Aliano, a seguire la riuscita cerimonia di consegna del “XVII Premio letterario Carlo Levi” e, confesso, anche per godermi ancora una volta il paesaggio così assoluto dei calanchi che già mi aveva entusiasmato quest’estate, in occasione del festival di paesologia. Mi è parso di leggere alcune difficoltà durante lo svolgimento del premio che, a questo punto, avrebbe bisogno di poter spiccare un ben più deciso salto di prestigio e autorevolezza. Nulla di irrisolvibile, ovviamente, anzi. Però vorrei ragionarci ora, a bocce ferme.
Intanto la mattina, i vincitori del premio e i loro libri, sono stati presentati dagli ormai mitici Don Pierino Dilenge e Raffaele Nigro alle scolaresche di alcune medie superiori del circondario.
A parte qualche breve lazzo di alcuni studenti nella parte superiore della sala, è accaduto che solo una studentessa abbia posto una domanda a Laura Pariani e solo una docente si sia avventurata a chiedere una curiosità all’ottimo Ettore Catalano. Il resto della truppa è rimasto sprofondato in un diuturno silenzio. Solo colpa della solita scarsa attenzione studentesca – e ce ne laviamo le mani?
Bene ha fatto Nigro, allora, a richiamare un maggiore sforzo organizzativo del Premio in sinergia con le scuole del territorio, perché occorre che la concentrazione e il coinvolgimento a una cerimonia di tal genere sia sollecitata da una lettura e da una riflessione (anche sul contesto) degli studenti, per almeno qualcuna delle opere, che preceda l’incontro. E, del resto, sarebbe più proficuo cercare di rendere istituzionale l’appuntamento con le scuole medie superiori anche attraverso la proposta, ogni anno, di una data più certa e stabile della manifestazione. Così come gioverebbe osare una formula meno “classica” e più interattiva di incontro tra giovani e scrittori che non sia solo quella delle valutazioni e degli spunti provenienti dagli scrittori il giorno della premiazione.
Non lo so, ma presumo che questa sia una questione (sempre dolorosa, e non solo per il “Carlo Levi”) di fondi – l’acquisto dei libri da diffondere nelle aule, il noleggio degli autobus con cui trasferire le scolaresche, il budget comunale ecc. – o, in altri termini, “una croce”, di cui non si può far ulteriormente carico chi si sbatte, e parecchio, per assicurare ogni anno la piena riuscita della manifestazione. E il discorso, mi pare, valga anche per la scuola, sempre alla canna del gas per quanto riguarda budget, fondi, possibilità, così come per i tempi di preparazione specifica da parte di insegnanti e studenti.
Un altro punto. Il pomeriggio, nonostante la formula del premio fosse stata invertita nell’ordine degli interventi, privilegiando, come giusto, prima l’escussione degli scrittori e delle loro fatiche, i politici hanno fatto la loro passerella serale al Premio. Non mi pare uno scandalo, se a loro si debba pure l’accesso ad alcuni fondi o la formulazione di proposte valide. Però mi ha sconcertato non poco che tre uomini di politica– mentre il pubblico sciamava via inesorabile – abbiano complessivamente parlato un tempo superiore a quello che i quattro scrittori e i due conduttori hanno utilizzato per confrontarsi in una sera a loro dedicata. Un tempo tra l’altro, m’è parso, parzialmente sprecato a parlare di cultura con un’idea, a un certo punto, francamente generica, rimbalzando tra tematiche e suggestioni le più disparate. Alla fine anche il pubblico, ormai poco lucido, non so quanto sia riuscito a far propri discorsi che, ad averli resi più sobri e più centrati sulle esigenze del Premio e sulla cultura del libro – quella cui Levi tra gli altri, ha completamente dedicato genio, esistenza e dolori – avrebbero reso certo un miglior servizio alla serata e agli intervenuti. Perché, a ben guardare, in mezzo al fumo un po’ d’arrosto c’era.
Comunque sia, il problema pressante mi pare essere derivante dalla scarsità oggettiva dei fondi per il Premio a seguito della crisi economica (che, però, non mi pare affluissero abbondanti alla cultura nemmeno ai tempi in cui le vacche erano grasse) e di una questione, quella culturale, anche per il governo Renzi inesorabilmente e “tremontianamente” non prioritaria in agenda. Occasione che spinge i politici di ogni risma a trincerarsi dietro un generico “potremo, vedremo, faremo” confidando in un uditorio ormai ipnotizzato da vent’anni e passa di berlusconismo a stare perennemente con le mezze maniche estive invece che con il vecchio maglione di lana di nonno Enrico Berlinguer.
Un altro problema verte, invece, su come meglio veicolare i libri premiati – se nelle scuole magari in accordo con gli editori attraverso particolari sconti, solo per fare un esempio banale.
Sono tra quelli che, pur auspicando più provvidenze di legge (e meno scellerate) a sostegno dell’editoria, vanno da anni ripetendo la formula – diciamo così – “concordataria” riassumibile nella formula: “libera istituzione in libera editoria”. Perché se una Regione si costituisce essa stessa come editrice allo stesso tempo facendosi sostenitrice economica della locale editoria, va da sé che la scelta abbisogni di una concertazione massimamente chiara per non creare inevitabili conflitti tra le parti o, peggio, esiziali “infiltrazioni”. Sarebbe cioè preferibile un sostegno “a valle” e mirato al sostegno dell’acquisto, diffusione e lettura del libro, tra cui, spiccherebbe un appoggio più deciso alle librerie (o di ciò che ne resta) sul territorio.
Mi pare Lacorazza abbia accennato (e occorrerebbe rifletterci meglio) a un punto importante: cosa può fare la politica perché gli intellettuali lucani possano frequentarsi e – se fuori – ritornare più spesso in Lucania attirati da momenti di più frequente elaborazione e proposta culturale? A mio avviso, lo dico convinto a Lacorazza, poco servono nuove riviste così come nuovi cenacoli dell’autoreferenzialità. Servono, invece, momenti di confronto aperti tra vari attori della cultura (pittori e poeti, fotografi e critici o saggisti ecc.) e di questi con la gente lucana. Come si può fare, allora, se non con incentivi a circoli e librerie meritevoli, se non con un adeguato sostegno alla lettura scolastica e giovanile?
E perché le scuole? La Basilicata è tra le ultime regioni in tutte le classifiche nazionali per la lettura dei libri, anche grazie alla forbice negativa tra istruzione e reddito medio regionale. Dunque gli investimenti – che chi di dovere dovrebbe fare – possono lasciare una traccia duratura quasi solo nella fascia di lettori oggi potenziale: i preadolescenti e gli adolescenti (chi ha la mia età ormai se non legge già ora, difficile sviluppi il tarlo). E devono essere investimenti non solo dedicati all’acquisto del libro in quanto tale, ma alla sua lettura. I salotti buoni delle famiglie lucane sono già piene di enciclopedie e altre opere acquistate nei ’70 e quasi mai sfogliate; e, allora? siamo punto e a capo. Altre idee possono essere le visite alle fiere, l’uso mirato di internet, piccoli corsi sull’editoria e sulla lettura, premi per i più piccoli, incontro con scrittori ed editori, incontri con giornalisti ed edicolanti per meglio capire la lavorazione di certe filiere, con i restauratori di opere antiche ecc ecc.
Insomma, non si tratta solo di acquistare un libro, ma di giungere alla consapevolezza che il libro è uno strumento teorico-tecnico per imparare o un modo per accedere a una qualche notizia del mondo, a un’esperienza di vita che possa renderci meno provinciali. È questo che fa, oggi, anche il premio Levi che, come ha detto il sindaco di Matera Adduce, potrebbe entrare in una fase propulsiva virtuosa se la sua città riuscirà a proporsi come Capitale culturale d’Europa capacedi scambio intellettuale proficuo con l’intero territorio su cui poggia.
Fin qui, luci e ombre della politica. Ma la crisi italiana è crisi non solo politica, e mostra i limiti e l’inadeguatezza di un’intera classe manageriale e dirigente. E dunque anche imprenditoriale, bancaria, del management regionale. Una classe dirigente incapace di pensare a uno spazio pubblico che non sia né contrapposizione né commistione tra stato e privato, bensì terreno neutro – sia pur non neutrale nell’impegno – di collaborazione, scambio, crescita tra parti.
Sono stato recentemente al “Festivaletteratura” a Mantova: nella brochure di invito tante sigle di banche e investitori piccoli e grandi che si sono impegnati, anche senza un ritorno economico immediato, nella riuscita organizzativa dell’evento. Certo territori ricchi, ma noi parliamo di una piccola eccellenza realizzata in una terra di bellezza sconvolta e sconvolgente, che porta il nome di uno scrittore tra i più grandi del Novecento! Un premio di caratura e di ulteriore potenzialità nazionale e internazionale che ha già dimostrato, con le sue diciassette stagioni, di stare più che bene in piedi.
E dunque, lo dico qui con un termine toscano, che qualcuno “si frughi”. Ma ci sta che le compagnie di autobus per il trasporto delle scuole (faccio solo un esempio) o le banche, pur intenzionate, abbiano trovato nelle tasche ricci di castagno. Eppure, se il territorio non si promuove, non si sostiene anche nella sua crescita culturale, mi chiedo, quale possibile o ulteriore sviluppo può avere?

Premio Levi

Giacomo Leopardi: l’illusione operante e l’agire sociale. Presentazione venerdì 14 novembre 2014 – Libreria Feltrinelli Livorno

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Copia di Leopardi

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Venerdì 14/11 alle ore 18:00

Leopardi: l’illusione operante e l’agire sociale

Sollecitati dalla recente proiezione, nelle sale, del film Il giovane favoloso di Mario Martone, torneremo su alcuni concetti chiave dell’opera del poeta recanatese. Un Leopardi, tuttavia, fuori da ogni interpretazione mitologica e abusata dei suoi scritti e delle sue vicende biografiche. Con Carla Benedetti (Università di Pisa) e Giuseppe Lo Castro (Università della Calabria) andremo, invece, alla ricerca del Leopardi più positivo e originale sul piano estetico e artistico, quello – per intenderci – dell’illusione operante e dell’opera di genio, così come di quello più impegnato nel dibattito sulle idee politiche e sociali del suo tempo. Presenta l’incontro Antonio Celano. Recitazione di passi leopardiani e accompagnamento musicale a cura di Alessia Cespuglio e Marco Lenzi.

Alcune foto dell’incontro:

Da sx: Marco Lenzi, Alessia Cespuglio, Antonio Celano, Carla Benedetti.

Da sx: Marco Lenzi, Alessia Cespuglio, Antonio Celano, Carla Benedetti.

Da sx: Carla Benedetti e Giuseppe Lo Castro.

Da sx: Carla Benedetti e Giuseppe Lo Castro.

Un momento dell’incontro. Alessia Cespuglio legge una lettera di Giacomo Leopardi al fratello Carlo (Roma, 25 novembre 1822).

Un momento dell’incontro. Alessia Cespuglio legge una lettera di Giacomo Leopardi al fratello Carlo (Roma, 25 novembre 1822).

Il pubblico intervenuto all'incontro.

Il pubblico intervenuto all’incontro.

Written by antoniocelano

novembre 4, 2014 at 6:35 PM

La Notte Europea dei Ricercatori è Made in Lucania

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Da sx Larocca, Giacalone, Bernardo

 

Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», domenica 12 ottobre 2014.

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Lucani che si confermano. Vale a dire Francesco Larocca, lagonegrese, oggi docente di scienze dell’Istituto Salesiano Villa Sora a Frascati (Roma) e vicepreside di quel Liceo Scientifico; soprattutto instancabile mediatore culturale: una figura, quest’ultima, di cui oggi in Italia c’è disperato bisogno. Iniziò, nel febbraio 2012, con l’acquisto di quattro telescopi, attorno al quale aggregò il gruppo di astrofili “Segui la Stella”. Un’associazione che oggi alterna anche incontri con personalità del mondo scientifico e sessioni d’osservazione dello spazio.
Così, anche quest’anno, l’istituto è stata autorevole sede della “Notte dei Ricercatori” e partner di “Frascati Scienza”, un’organizzazione costituita da tremila scienziati, otto istituti e ben tre università. A cominciare dal 25 settembre, per finire il 27, offrendo un programma davvero ricchissimo, mossosi tra sessioni di osservazioni dello spazio tenute da Gianluca Masi, del locale osservatorio “La Torretta”, mostre fotografiche su “Il lavoro dell’uomo e la natura” (foto e allestimento realizzati dai fratelli Angelo e Francesco Larocca), percorsi didattici, sbandieratori teatrali di Borgo Spante e, più in evidenza, conferenze. Queste ultime a partire da quella di Roberto Somma (dirigente di Thales Alenia Space Italia) sull’osservazione della Terra dallo spazio come strumento a supporto della sostenibilità del Pianeta; per continuare con quella accattivante del biologo marino Luciano Bernardo, che ha parlato dell’importanza dell’osservazione diretta nella sua disciplina, a partire dai tesori lasciati a riva dalle onde; fino a quella sui “Nuclei fondanti dell’apprendimento significativo”, lectio dello psicoterapeuta dell’Università di Tor Vergata Filippo Pergola.
A chiudere, il 27 settembre, le giornate – ormai lo si sarà compreso, virate sui temi dell’ecologia come scienza e sulla correlata sostenibilità planetaria – Salvatore Curcuruto, dirigente dell’ISPRA, sulle nuove tecnologie di illuminazione urbana LED e il loro impatto ambientale.
Tuttavia, anche quest’anno, mattatore dell’incontro, il 26 settembre, è stato senza dubbio Davide Giacalone (opinionista per RTL e di “Libero”) che, in anteprima sull’uscita in libreria a ottobre, ha presentato la sua ultima fatica “Senza paura. Per non perdere il bello di un mondo migliore” stampata per i tipi della Rubbettino (pagg. 296, 15.00 €). Tanto in anticipo, grazie alla tempestività di Larocca, da essere presentato allo stesso autore prima che l’editore riuscisse a fargliene avere copia.
Il libro, nato un po’ per caso a partire da considerazioni empiriche sulle conseguenze psicologiche della crisi economica ancora in atto sugli italiani, parte dalla ragionevole constatazione che “Scansati i tempi paurosi” del passato “ne abbiamo creati di impauriti” di cui la radice è “l’aspettativa che le cose possano andare peggio di come sono andate e di come vanno”, soprattutto per i figli. Una paura tale da cogliere, perché osservatore necessariamente coinvolto, anche il nostro autore sia pure, però, in un senso totalmente positivo se essa “salva la vita” facendoti “avvertire il pericolo, mentre la perde e rovina se induce a un tremore paralizzante” o trasformandosi in rabbia sociale. Di fronte a ciò, secondo Giacalone, bisognerebbe fermarsi a ragionare per essere più consapevoli.
Tuttavia, mentre la conferenza di presentazione a Villa Sora ha girato intorno a tematiche parecchio spinose, pure dal punto di vista del diritto, ma più circoscritte (ogm, eterologa ecc.) e in difesa della scienza dal pregiudizio e dall’accusa di nutrire appetiti faustiani sul nostro mondo, in realtà le pagine del libro aprono a problematiche ben più ampie, dall’economia e dalle politiche fiscali fino alla famiglia e al “declino del maschio”, dal problema immigrazione ai fondamentalismi (ben presenti anche in occidente) alla sovranità europea. Per esortarci ad aver la fibra di andare, seguendo una via pragmatica di ritorno alla realtà e di consapevolezza delle difficoltà, oltre i vuoti ottimismi o i facili, persino interessati, pessimismi. Certi che di fronte agli sconquassi della crisi che andiamo attraversando: “non ci aspetta il cilicio, per redimerci dal peccato, non è auspicabile alcuna stagione penitenziale. Ma neanche ci aspetta un’interminabile ‘happy hour’, nell’incoscienza dell’inutilità. E fortunatamente, perché la pausa, senza il precedente e successivo impegno produttivo, finisce con il somigliare orrendamente al vuoto”. Insomma, commentando Croce, scegliendo uomini sì onesti e integri, ma pure preferendoli “per capacità e forza realizzativa, altrimenti la vita collettiva si corrompe nella stagnazione e degenera nel declino. Che, se anche onesto, è ben gramo destino”.

 

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“Messo a tacere”: Quel Mundtot tra musica e impegno civile. Intervista a Marco Lenzi

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», domenica 24 agosto 2014.

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In Calabria, si sa, la ruggine non la fa l’acqua, ma le uova. E così, nel febbraio di un ormai lontano 1991, a un gruppo di giovani viene l’idea di lanciarne alcune su un circolino. È carnevale e la burla, pur sopra le righe, potrebbe finire là. Ma siamo nel reggino, nel comune di San Luca, e qua le cose tutti sanno come iniziano, ma nessuno può dire come vanno a finire. Un uovo colpisce la macchina sbagliata e nasce un litigio con tanto di spedizioni punitive. Durante una di queste ultime, un giovane aggredito si “spagna” e spara, uccidendo due persone e ferendone altrettante. E, di lì a poco, finisce per fare la stessa fine.
La Calabria, si sa, è un paradiso dove i diavoli sono di casa. E ci sono le ’ndrine, tra le quali il litigio deflagra: quella dei Pelle-Vottari e quella dei Nirta-Strangio. Dunque 1991, 1993, e poi 2005, 2006, 2007. Gennaio, agosto, persino a Natale: non c’è mese, non c’è giorno, non c’è luogo (San Luca, Casignana, Bovalino) che non possa essere quello buono. I conti si saldano. Affiliati, parenti, amici. Paga a chi tocca. Se non fosse che quello della ’ndrangheta è un mondo capovolto e sempre finisce che, al momento del saldo, il debito, invece di chiudersi, s’allarga.
La Calabria, si sa, è terra che alla storia bada poco, e però ha memoria radicale delle offese. Si chiama “faida”. Un termine, “fēhida”, che ha viaggiato nel tempo e nello spazio prima di avvelenare questa terra meridiana. Una radice alto tedesca, “fēh”, “nemico”, che già nella pronuncia ha l’urgenza di colpire: un’empia violenza che il diritto germanico cercò subito di mitigare. Tuttavia, le ’ndrine son caparbie, hanno saputo rendere la pratica alla sua antica, nuda ferocia. Riportandola ai suoi antichi inventori quando ormai non la conoscono più e ne sono indifesi.
Il “regalo” arriva a ferragosto a Duisburg, grosso centro nella Renania settentrionale-Vestfalia, all’uscita, pare, da una cena di compleanno consumata al ristorante “Da Bruno”. Fa sei morti con nessun risparmio di proiettili. La Germania si risveglia incredula di fronte a fenomeno che gli par nuovo, ma che i locali inquirenti già conoscono pur non concedendone spiegazioni.
Di tutto questo si accorge Jürgen Alberts, scrittore di gialli che, per i suoi libri, si è già occupato di crimine organizzato e di triadi cinesi. E come tutti, più di tutti, rimane scosso dalla strage. È allora che si convince a indagare meglio, incuriosito da un paio di articoli pubblicati in Italia che riportano le confessioni di Giorgio Basile sui riti di affiliazione alle mafie. E si tuffa in una ricerca che lo cambia.
Scrive Alberts: “Quando progettai di scrivere il mio libretto per ‘Mundtot’ – ‘Messo a tacere’ – dovevo trovare inizialmente una forma per una semplice ‘pièce’ teatrale – che si configurò come un processo giudiziario nel quale il testimone ‘canta’ e solleva il velo che copre il crimine organizzato”. Alberts legge “Gomorra”, si chiede come le mafie riescano a far soldi con i rifiuti (nel testo sono citati anche seicento barili di rifiuti tossici che la mafia avrebbe “smaltito” in Basilicata), quale sia il legame con la società civile, la loro capacità di resistenza alle intrusioni esterne. E, con un linguaggio semplice e diretto, “perché la gravità dei suoi contenuti è tale da non consentire al pubblico di venir distratto da esperimenti formali”, rivela alla Germania quanto pure la società tedesca possa essere permeabile alle mafie. E a noi come i tedeschi ci guardano.
Capita che a musicare il libretto sia chiamato un livornese, Marco Lenzi, che resta colpito dal testo, che nulla concede alla retorica e al compiacimento lirico nel racconto dialogato in dodici arie chiuse o “canti”. Pur nel sarcasmo cui spinge la denuncia morale. Musica che mai soffoca il testo, molto ben adattandosi, tra l’altro, alla cultura teatrale e al cabaret espressionista tedeschi, e impregnata di colonne sonore, di rock e di psichedelico o di moduli espressivi musicali ripresi dalla folk song, dal Lied (“Canzone tedesca”), dal rap, alternando canto, “Sprechgesang” (“canto parlato”) e voce recitante.
In Germania, la rappresentazione di “Mundtot” riscuote buona eco. Arnsberg, Bremen. E tuttavia accade che, in Italia, il testo non sia stato ancora rappresentato. Perché? Mistero. Che proviamo a dipanare proprio con Marco Lenzi, classe 1967, musicologo che ha al suo attivo diversi saggi e la prima monografia italiana su Morton Feldman. Le sue composizioni sono stati eseguite in Europa e Stati Uniti.

Inizio subito con la domanda che ti aspetti: chi ti ha contattato per questo lavoro e perché?

Dunque il lavoro ha avuto una lunga gestazione, conclusasi solo nel 2012. La prima telefonata la ricevetti, invece, nell’estate del 2008 da un carissimo amico livornese emigrato e che ha girato mezzo mondo prima di stabilirsi in Germania: Alessandro Amoretti, pianista compositore, collaboratore di enti lirici. Alessandro mi chiese se fossi stato disposto a musicare un libretto operistico, “Mundtot”, firmato da Jürgen Alberts, figura poliedrica di scrittore. Avrei dovuto scrivere l’opera per il 2010, anno dedicato alla cultura europea nella Ruhr; ma subito un rap (che poi è diventato la quarta aria dell’opera) perché potesse essere rappresentato a un festival del crimine a Unna (i “Krimifestival” sono là molto sentiti e coinvolgono artisti di varia estrazione). Dopo questa rappresentazione iniziai a scrivere mano a mano le altre musiche del libretto nelle sue successive versioni, anche perché i tempi erano, nel frattempo, slittati. E così la prima dell’opera fu rappresentata nel 2012.

Ti sei fatta un’idea di come guardino i tedeschi al fenomeno mafioso in relazione all’Italia a seguito della strage di Duisburg? Perché nell’opera non c’è solo uno sguardo fosco, ma anche punti e personaggi positivi: il PM, la “Baronessa coraggiosa”, la memoria di Fortugno…

Sì, è vero, è crollato un po’ questo castello folkloristico della mafia e del crimine organizzato italiano come nota locale, forse risibile, di colore. Dopo i fatti di Duisburg lo sconcerto è stato grande, così come il clamore suscitato. Non era più una questione di pizzo e questioni tra famiglie italiane. Sulla strada, davanti a tutti, c’erano morti ammazzati in tutta la loro tragicità. È venuta meno pure una certa idea di Germania, scopertasi più fragile, meno pronta ad affrontare certi episodi: la prima vibrata reazione alla strage fu quella degli italo-tedeschi.

A questo punto viene data la prima ad Arnsberg con ottima affluenza di pubblico.

La sala era piena. Curiosamente la rappresentazione è stata data in un tribunale, anche a scapito della capienza, problema cui si è sopperito dando ben due spettacoli in un giorno. Ma tutto questo ha restituito alla fine un effetto verità molto forte, rilevato tra l’altro dalla stampa, nonostante lì fossero state utilizzate solo basi musicali. A Brema, invece, l’opera è stata data in un teatro di prosa. Era chiaro che per quest’opera servissero cantanti attori e non cantanti lirici. Furono scelti quelli bravissimi, della Compagnia shakespeariana di Brema, con protagonista un italo-tedesco di Colonia Luca Zamperoni, che ha collaborato anche con Bob Wilson. Comunque sia, con pochi personaggi di un processo che recitano queste dodici arie chiuse, la forma è diventata più una musica di scena che un’opera. La sfida futura sarà quella di dare alla musica più peso, cioè con i dodici momenti messi maggiormente in evidenza e con il cantato a essere interrotto poche volte dal parlato.

Che riscontri hai avuto in Italia dopo la rappresentazione dell’opera?

Beh, l’opera è piaciuta molto, tanto da riscuotere il plauso di un Bob Wilson. Intanto un bravo regista livornese che è Emanuele Gamba pure l’ha ascoltata e si è dato molto da fare per diffonderla, ultimamente inviandola al Direttore artistico del Comunale di Bologna Nicola Sani, che però non ci ha ancora dato risposta. Sempre grazie ad Emanuele siamo andati vicino alla rappresentazione teatrale con attori del genere di Claudio Santamaria e Beppe Fiorello. Un altro amico l’ha fatta girare in Trentino. Però in Italia, a queste premesse entusiastiche, nulla è seguito. Pur ponendo mente al fatto che i budget per la rappresentazione sono davvero risibili e il testo è ispirato a tematiche forti. Forse ha giocato, tra le altre cose, la mia inesperienza (questa è stata la mia prima opera) o il mio scarso peso “politico” nel sistema dei teatri.

E nella tua città, a Livorno?

A Livorno la situazione è stata paradossale, perché il “Goldoni” sembrava davvero interessato alla cosa, potendo così “sdoganare” l’opera in Italia. La cosa buffa è stata che, all’entusiasmo iniziale, sono seguite richieste di riduzioni progressive dell’organico e continui aggiustamenti di budget. Mi resi disponibile a riorchestrare l’opera per cinque tastiere, dunque per cifre irrisorie, ma nonostante ciò mi fu proposto prima di spostare tutto alla “Goldonetta” e, infine, addirittura mi fu proposto di rappresentare “Mundtot” in quella che mi venne indicata come la “sala specchi” che era, in realtà, la sala prove del teatro, poco più di uno spogliatoio seminterrato.

La motivazione?

Perché avrebbe accentuato il carattere di modernità, indipendenza e eccezionalità dell’opera rispetto a quelle più “classiche” in calendario. Un delirio, per un unico atto di un’ora.

E a Sud, dove i tentativi per una rappresentazione di “Mundtot” potrebbero trovare alla stessa maniera entusiasmi o qualche complicazione in più?

Sarei molto contento se il Sud potesse dare una risposta diversa, positiva a quella che mi è stata data fin qui (dove qualcuno pensa che, in fondo, una certa parte dell’Italia dalla ’ndrangheta possa essere, forse, immune). Sono disposto a realizzare l’opera traducendo il libretto e adattandolo meglio al gusto italiano.
Per me, quella di Mundtot, è stata un’esperienza formativa, perché da compositore non mi ero mai misurato con i fatti della criminalità organizzata e, su un altro piano, con la forma canzone. L’opera mi ha consentito di allontanarmi dai registri sperimentali marcati che mi erano soliti; qua invece ho usato di tutto. Forse il modello inconscio più forte è stato quello dei Pink Floyd, il finale di “The Wall”, insomma, tirando fuori dei temi culturali che mi erano cari, ma che non erano mai entrati nella mia musica. È stato un lavoro che ha messo alla prova il mio modo di comporre, per la prima volta confrontatosi con temi così forti e concreti.

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Recensione a: Francesca Bonafini, Casa di carne (Avagliano, 2014)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata» domenica 20 luglio 2014.

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Come ha già evidenziato Nicola Vacca in un suo recente intervento, è importante chiedersi anche qui, quanto, prima di costruire la sua Casa di carne (Avagliano, 156 pp., 14.00 €), Francesca Bonafini abbia frequentato, attardandovisi, le Camere separate di Tondelli. Un debito forse ancora troppo forte sebbene, peraltro, tranquillamente riconosciuto dall’autrice fin dall’esergo, giù fino alla struttura dei capitoli ordinati per “attraversamenti” in luogo dei tondelliani “movimenti”. Pure con quella lucida attenzione per lo stile e per il ritmo della scrittura, e poi con il piacere tutto particolare di narrare e dipanare l’intima e misteriosa relazione tra vita e morte, che furono anche dello scrittore dell’emiliana Correggio.

Dunque Angela, la voce narrante del romanzo, vende la vecchia casa di campagna allo spirare della nonna, ma ancor di più dell’amore con cui l’ha tirata su dopo la perdita dei suoi genitori –morti anche loro, ma mai ben conosciuti – per sradicarsi a Trieste, sul suo molo, ad aspettare un segno dal mare. Un mare, l’Adriatico, che si rivela alla fine inadeguato, spingendo la protagonista a un lungo, inaspettato percorso che le farà attraversare tutta la Francia fino ad acque d’altura più adeguate al suo destino.

Angela è un’inquieta: “sono abituata a cambiare casa, cambiare città, cambiare per poi ritrovarmi a piedi in strade sconosciute e imparare a camminarci. Alla fine, scoprire che non ho capito niente e che ancora mi confondo”. E quindi, più che i confini, alla giovane trentenne piacciono i crocevia, lo spostamento sempre un passo più in là che è la frontiera, che è ciò che allo spazio si abbandona – ma che pure si porta con sé – e ciò che si guadagna. Ne è più di un sintomo stilistico l’uso dell’anacoluto, della continua rottura sintattica della frase; fratture, sfasamenti che però, adottati e ripetuti, mostrano quanto sappiano farsi anche regola in una scrittura godibile come la musica inesauribile dei murales di Haring. E del resto sillessi significa, in fondo, prendere insieme, unire: raccogliere tutto il passato e il presente e gli opposti lungo un percorso.

E tuttavia Angela è solo apparentemente una nomade, perché cerca sempre di rinnovare la sua radice di provenienza, cioè il prendersi cura totalmente e gratuitamente dell’altro, amando: “perché cadere innamorati, io dico, non c’è altro di meglio che possa capitare, cadere innamorati è una faccenda che smuove le stelle e i pianeti e produce soluzioni alternative alla devastazione, e rinnovamenti, e bonifiche medicamentose”. Amare, per Angela, è desiderare: “luci che sono lontane, volerle tirare giù, farle vicine, portarle a terra, toccarle con le mani, lasciare che si incarnino. Così non saranno più remote incorruttibili, ma fragili e mortali”. Può essere, allora, solo il conquistato oggetto d’amore la definitiva casa di carne che segna l’arresto di ogni erranza, la caduta di ogni confine. Come un vestito, abbandonato il quale si può procedere solo nudi e disarmati in una passione totale.

Si rivela così, nella scrittura della Bonafini, qualcosa che ci pare tipico dell’etica protestante. Certo non nel senso del dovere kantiano, ma in quello di intima, umana “gratitudine” in risposta a una “grazia” di derivazione divina. Non Legge, ma Dono. Perché c’è, nella sua protagonista, un’ascesi weberianamente intramondana, un monachesimo inteso nella sua totalità di aspetti amorosi: “se capita il miracolo del trac, allora dentro l’amore ci metto tutte le energie ma proprio tutte, così qualcuno potrebbe pensare che dopo son stanca e mi stufo o mi stuferò, ma io dico che a essere innamorati le energie fioccano come la manna da ogni dove…”. E questo amore senza maschere, senza infingimenti – leale anche nel caso di sopravvenuto disamore – non può che elevare la protagonista a essere il personaggio normativo che l’altro rivela nella sua incompiutezza a ogni attraversamento, a ogni crocevia.

Succede a Trieste con Miriam, l’irrequieta studentessa di tedesco che le traduce i versi d’amore che Rilke scrisse nella vicina Duino, e si innamora di Angela pur stando con Davide. Un amore che Angela accetta e consuma pienamente, ma che rivela di Miriam una bisessualità in fondo convenzionale sul versante etero: il paravento socialmente rassicurante dischiuso di fronte a un padre violento e a un fratello omofobo. Non resta, così, che la paura; e Miriam preferisce, almeno fino a quando non riuscirà a svelare a se stessa la propria natura, il ritorno da Davide.

Ad Angela non rimane che partire, lasciandosi alle spalle i versi di Rilke (che, sia detto qui per inciso, coraggiosamente firmò per l’abolizione del Paragrafo 175 del Codice penale tedesco che prevedeva pene detentive per gli omosessuali), ma anche la Trieste che fu dell’iniziazione amorosa dell’Ernesto di Saba e delle terrificanti repressioni omofobe ancora oggi conservate nella memoria di San Sabba. Un motivo in più che fa, della protagonista di Casa di carne, non una nomade, ma una rabdomante capace di percepire e lasciarsi trasportare, nel suo percorso, dalla potenza sorgiva delle letterature, specialmente di ispirazione LGBT, capaci di scorrere, come un fiume carsico, sotto la superficie di luoghi e città, costruendone il genius loci. Letterature e parole che, per la protagonista di Bonafini, sono il segno della forza del molteplice e del differente.

Eccola allora con Alessio, sul continente, in terra francese. Alessio l’amico spiccio, il musicista con cui campa alla giornata accompagnandolo nei bistrot parigini. Alessio che non vuole più amare, che diffida di ogni donna, perché una l’ha tradito e, in qualche maniera, per sempre inaridito. Eccola attardarsi a Étretat, dove dipinsero Bodin, Courbet, Monet e dove scrissero Flaubert, Maupassant e Maurice Leblanc. Fino a essere attratta, come un oscuro presentimento, da quella lingua di terra che è il Finistère (finis terrae) bretone, che aggetta, come un altro lungo molo nelle acque di piombo dell’Oceano. Mare, marinai, presagi di morte che pure furono la carne di un romanzo quale Querelle de Brest, di un giovane Jean Genet, e poi dell’omonima pellicola che chiuse la carriera del regista Fassbinder nel 1982.

È qui che Angela incontra Tiago, il marinaio, la definitiva casa di carne da abitare in un mondo nuovo come Rio de Janeiro. Un amore etero, quest’ultimo, anche se l’amante color cioccolata tanto somiglia a quell’insaziabile Bom-crioulo dello scandaloso scrittore Adolfo Ferreira Caminha, brasiliano. Un amore finalmente totale, disturbato solo dall’apparire del germano tossico di Tiago, Mateus, che porterà la storia di Angela al suo epilogo di morte, davanti a un mare che guarda al Portogallo come un ponte interrotto. Un personaggio – il misterioso, cinico, ferito Mateus – che è l’ombra scura di Angela. E forse anche della stessa Bonafini, se la sua forza è capace di condensare, in questo suo romanzo, anche alcuni temi o frequentazioni di sue precedenti prove, Mangiacuore su tutti.

Insomma, alla fine dell’amore non restano che fumo e vanità che spirano da una bocca marcia, senza labbra e senza denti. E nulla può restare, andare o ritornare se, dove la casa di carne ha poggiato e bruciato troppo presto il suo tempo, è un lembo estremo di terra improvvisamente scivolata nel gran mare della morte. Una fine che però salva l’amore – e il lettore – da ogni dubbio di sua finale consunzione, se le sue spoglie possono tornare alle stelle sulla groppa immortale delle letterature.

 

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Ezio Taddei, lo scrittore dei poveri confinato a Bernalda. Oltre 60 anni dopo, il ricordo dell’uomo che cammina.

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 2 febbraio 2014.

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“Nessuno è profeta in Patria”. Vangelo. Destino tanto vero da esser toccato a Livorno, per lunga pezza, perfino allo scrittore Ezio Taddei, nato nel 1895 da famiglia agiata, precoce militante anarchico poi comunista, diseredato dal padre, per anni vittima della repressione fascista, confinato a Bernalda nella seconda metà degli anni ’30, poi profugo a New York dove non tardò a entrare in rotta di collisione con la mafia locale, scrittore dalla vita avventurosa e temeraria più di un Rocambole.

A risarcire in parte la dannazione della memoria toccata allo “scrittore dei poveri” ha provveduto, così, il circolo Arci “Al verde” del comune materano di Bernalda, con la presentazione del libro “L’uomo che cammina” edito, appena lo scorso anno, per i tipi della labronica Erasmo, a cura del prof. Giancarlo Bertoncini. A parlarne il 31 gennaio, una data importante per il comune lucano, è stato Angelo Tataranno, insegnante, militante PCI, assessore alla cultura e sindaco bernaldese fino al 1994, quando passò a occuparsi della Provincia di Matera in qualità di suo presidente. Tataranno già fondatore nel ’78 del Coordinamento Teatrale di Basilicata (CTB), prima associazione tra comuni per la promozione del teatro nella nostra regione; e poi animatore culturale e ricercatore di storia locale.

“Ezio Taddei ha lasciato a Bernalda, nei due anni di confino scontati dal ’36 al ’38, tracce indelebili della sua presenza” ci racconta, appassionato, Angelo. “Nonostante lo stretto controllo cui era sottoposto, riuscì ad integrarsi nella comunità locale stabilendo molte relazioni di amicizia. Cominciò col frequentare intensamente la bottega Vincenzo Dibiase, barbiere, collocata nella via principale del centro storico, che costituiva, in quell’epoca, un vero e proprio ‘circolo culturale’ frequentato da socialisti e qualche anarchico. Non a caso in quella bottega c’era sempre tanta gente, non sempre per servirsi del barbiere, ma per chiacchierare, per scambiarsi informazioni su tutto quello che accadeva in paese, e, spesso, per parlare, con molta circospezione, di politica. Del resto è noto come Bernalda rappresentasse tradizionalmente uno dei punti di più ostinata resistenza al fascismo delle origini, tanto da essere fatta oggetto, proprio il 31 gennaio del 1923, di una vera e propria spedizione punitiva che costò tre morti e una quarantina di feriti. Per quanto, in seguito, si tentasse di minimizzare quella brutta vicenda, nella popolazione più attenta e politicamente attiva se ne trassero analisi relative al fascismo. Nel 1948, l’amministrazione socialcomunista intitolò una piazza ai ‘Martiri del 31 Gennaio’ e, nel 1974, fu dedicata una lapide ai caduti di quella spedizione punitiva organizzata a Potenza dall’allora segretario del fascio, l’avvocato Sansanelli”.

“In quella stessa bottega Taddei ebbe modo di conoscere gli studenti dell’epoca, che frequentavano le scuole superiori a Matera, ottenendo da loro libri e giornali da leggere, e ricambiando con lezioni di greco, latino e matematica. Aver saputo successivamente, dalla sua biografia, che Ezio aveva frequentato, poco e male, solo fino alle elementari fu, dunque, per noi bernaldesi, una sorpresa straordinaria”. Evidentemente, come ha ben scritto Massimo Novelli, in carcere ci si poteva ancora istruire: attingere dagli altri compagni una più viva coscienza politica e, da chi più sapeva, imparare a leggere e scrivere, servendosi di un abbecedario clandestinamente scritto nelle celle, per terra, con torsoli di cavolo imbevuti d’acqua. Prontamente cancellabile, in caso d’ispezione. Domenico Javarone ha del resto rivelato il metodo scarno, ma di tutta efficacia, usato da Taddei con gli studenti bernaldesi: “Il tema è come una persona” gli spiegava “ha la testa, il tronco e le gambe; la testa piccola è l’introduzione, il tronco più grande è lo svolgimento, e le gambe, pure piccole, la chiusura”. Esortava, Taddei: “È così che devi scrivere, seguendo le cose una per volta…”. Faceva leggere Tolstoj e Dostoevskij. Dal canto suo, il livornese leggeva proprio di tutto. Aggiunge, ironico, Tataranno: “una volta, mentre si trovava in piazza Plebiscito, nei pressi del Municipio, e stava leggendo un giornale, un troppo esuberante milite fascista gli si avvicinò, gli strappò il giornale dalle mani e lo schiaffeggiò pubblicamente. Ezio Taddei non reagì. Aspettò che il fascista avesse finito per poi, con calma, chiedergli se sapesse leggere, perché quella volta stava sfogliando “Il Popolo d’Italia”.

Fu pure a Bernalda che Taddei finì per invaghirsi “di una bella ragazza, originaria di Ginosa. La relazione, ovviamente, fu furtiva e nascosta, non solo perché queste erano i costumi del tempo, ma soprattutto perché egli era un ‘forestiero’ e per di più confinato politico. La giovane ricambiò il suo affetto fino a quando suo padre, venuto a sapere della ‘tresca’, proibì in modo categorico alla figlia di continuare a frequentare ‘quell’individuo’! Ezio soffrì molto per questa vicenda, al punto da tentare il suicidio tagliandosi le vene. Fortunatamente l’amico Vincenzo, non avendolo visto a bottega quel pomeriggio, pensò di andare a casa sua, forzando l’ingresso per entrare. Lo trovò, riverso per terra, in una pozza di sangue, e lo soccorse come poté, in gran segreto”.

“In seguito” conclude Tataranno “tornò nel 1949” a Bernalda e a Pisticci, come ricorda lo stesso Taddei nel libro “La fabbrica parla” e come anche confermato da un filmato, oggi disponibile su You Tube (“Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato”, Regia di Carlo Lizzani), che lo ritrae in visita con altri dirigenti politici e sindacali a Matera. “A Bernalda fu accolto con festose manifestazioni di affetto da tutti quegli amici e compagni che aveva conosciuto durante il confino e che, in gran parte, erano diventati i locali amministratori del dopoguerra. Tanto che, nel 1976, l’Amministrazione Comunale gli intitolò una strada che sta ancora lì, a ricordarne il generoso impegno per la nostra gente”. Oggi Angelo Tataranno è al lavoro per ricostruire le vicende di Taddei a Bernalda. Come dire, un altro monumento.

Detto ciò, non ci si può nascondere che, però, recentemente, anche a Livorno, più di qualcosa è stato fatto per recuperare il ritardo della memoria. A partire dal convegno tenutosi lo scorso anno al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo e promosso da Comune, Provincia e Istoreco (Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea, diretto da Katia Sonetti). Tuttavia, nonostante l’intervento, in quella sede, di importanti studiosi quali David Bidussa e il già citato Bertoncini, e nonostante la successiva pubblicazione di un’ulteriore raccolta di racconti intitolata C’è posta per voi, mr. Brown! (Books & Company, Livorno 2013) qualcosa è parso essersi parzialmente inceppato. L’impressione è che i duri attacchi a Taddei sferrati da un filologo dell’esperienza di Luciano Canfora, accusato di essere, in realtà, al servizio dell’Ovra, abbiano un po’ gelato gli ambienti labronici.

Si potrà tornare sull’argomento, ma per quanto riguarda Bernalda, rimangono forti le parole di Tataranno: “Qui in Basilicata giudichiamo le persone col metro della memoria di persone ancora vive, e per quello che abbiamo visto e vissuto direttamente. Per noi Taddei ha fatto molto, al di là di ogni suo limite personale. E su questo noi siamo chiamati, come comunità, a giudicarlo”. Il che – come ha recentemente ribadito David Bidussa (Fondazione Feltrinelli) in una sua polemica con Paolo Mieli sulla ricostruzione delle vicende del PCI di Ruggero Grieco e su Taddei – fa strame di un certo modo di vedere la storia da un ristretto buco della serratura oltre il quale paranoicamente resterebbero a muoversi esclusivamente i falsi, le spie, i doppiogiochisti.

Written by antoniocelano

febbraio 2, 2014 at 5:49 PM

Recensione a: Mary Gibilaro, Lo spostamento dei cirri (Edizioni La Zisa, 2013)

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Mary Gibilaro Cirri

Lo spostamento dei cirri, prima breve prova narrativa di Mary Gibilaro (Palermo 2013, 64 pp., 8.00 €), è un libro duale, eppure senza sponde opposte e nemiche; anzi luminoso, come nel carattere della sua autrice, nata a Santa Croce Camerina (RG) nel ’66, ma di adozione labronica ormai dall’82. Come a dire, già qui, due terre, due coste, due culture attraverso cui pendolare nel continuo rincorrersi, sulla superficie del mare, di presente e di passato. Un libro duale – dicevo – sin dal titolo, se i cirri possono spostarsi precipitosi verso le burrasche della vita oppure lentamente scivolar via ad annunziare la ristabilita bonaccia.

Ma così anche la natura di Lara, la protagonista di questo romanzo-lampo, che riesce a trovar forza e radice grazie al terreno personale di esperienza che l’autrice le dispone, trovando le giuste proporzioni per un calco unico del personaggio femminile, sempre credibile, capace di testimoniare di sé in prima persona. Lara (figlia musicista di un fanalista) che prende vita, nel racconto, proprio nell’atto di dar vita al piccolo Mariano e poi, qualche tempo dopo a Giorgio: onde arrotolate da un mare tranquillo. Ma poi, appunto, quel «qualcosa» di innominabile al midollo del primogenito, la velocità dei cirri intervenuta a spezzare la tranquillità del quotidiano, il mare corrugato, il rischio disperante che i genitori, che una madre possa sopravvivere al figlio.

E dunque in ogni nuovo capitolo, alla donna non resta che rifugiarsi in immagini che possano intervenire, in qualche modo, a lenire il dolore. A cosa ci troviamo di fronte? È la memoria che ricapitola la vita nel tentativo di un senso, prima della morte, per prepararsi a quest’ultima, sia pure di un figlio? Non solo.

Accanto al capezzale del bimbo, ammutolita dalle prescrizioni dell’ematologo, Lara attinge alla memoria musicale del mare, ritornando bambina al faro affidato alle cure del padre: riemerge, così, una struttura forte, alta, avvolgente, luminosa, capace di scongiurare gli scogli o di preannunciare il rifugio sicuro di un porto; al limite, il doppiaggio di un Capo per acque diverse. Ma pure una costante soglia di attenzione, la responsabilità che un’avaria del faro, il sopravvenire del buio, imporrebbe di fronte al naufragio.

E tuttavia è da notare come queste immagini positive progressivamente crescano, tolgano terreno alla narrazione della malattia di Mariano, come riuscendo a cicatrizzare il male. Il ricordo della ristabilita luminosità della torre, dei rossori spettacolari sulla costa sicula al tramonto diventano, così, il simbolo di una fede mai scossa nella vita che respinge il buio e riguadagna la speranza. Quasi come se le immagini fossero la traduzione di un altro linguaggio, sussurrato appena dietro i cirri da un angelo lì accampato.

Non è un caso, dunque, che tutto il libro si svolga con l’ausilio di una lingua sempre piana – in alcuni punti ancora, certo, letterariamente bisognosa di affinarsi e precisarsi – e di toni distaccati, che mai calcano sull’espressività o la disperazione, pur allo stesso tempo restando positivi, caldi e partecipi. Così, la narrazione delle vicende di Lara, evitando un qualsivoglia «effetto» sui lettori, si propone di precedere questi ultimi nell’esperienza, fornendoli di un portolano che possa accompagnarli «ad accettare ogni doloroso passo di quel nostro difficile cammino, non proprio come una lotta ma come uno svincolo nella strada della vita» pur se certamente molto accidentato.

Le vicende di Lara – sembra dirci Mary Gibilaro – non sono fatte per farci indugiare nel dolore, ma per narrarci una fede e sostenere una speranza per chiunque possa, a un punto, imbattersi in acque tempestose per la vita. Anche per questo l’autrice ha deciso che il ricavato del libro sarà devoluto all’AIL, Associazione Italiana contro le Leucemie.

Written by antoniocelano

gennaio 21, 2014 at 10:48 am

Quelli che seguono le stelle. Francesco Larocca e i suoi telescopi.

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 24 Ottobre 2013.

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“Lucani nel mondo”, si diceva una volta. Ma anche “in Italia” – o, più in piccolo, nel Lazio – si danno parecchio da fare. Ad esempio Francesco Larocca, oggi a Frascati (Roma) docente di scienze dell’Istituto Salesiano Villa Sora, del quale riveste anche il ruolo di Vicepreside del Liceo Scientifico, ma lagonegrese DOC. Che, nel febbraio 2012, acquisendo ben quattro telescopi, ha avuto l’idea di fondare, con i suoi studenti liceali, il Gruppo Astrofili “Segui la Stella”. Così l’istituto – sollecitato da una didattica per scoperta, dove l’apprendimento sui testi poggia sullo studio diretto sul campo – si è fatto poi carico della ristrutturazione di una torretta con ampia terrazza annessa (già proprietà dei duchi di Sora) che, negli anni Venti del Novecento, era stato edificato appositamente per effettuare osservazioni astronomiche. Ma non basta, perché l’associazione organizza anche incontri con personalità del mondo scientifico quali Gianluca Masi, (astrofisico e curatore scientifico del Planetario di Roma”) o Roberto Somma (legato a Thales Alenia Space Italia), solo per citarne un paio. Ciliegina sulla torta, quest’anno la struttura è stata prestigiosa sede della “Notte dei Ricercatori” progettata da “Frascati Scienza”, un’organizzazione costituita da tremila scienziati, otto istituti e ben tre università.

L’osservatorio è oggi dotato di cinque telescopi specifici, sia per l’osservazione planetaria che per il cielo profondo, e uno esclusivo per il Sole (che rende possibile vedere le granulazioni, le protuberanze, le macchie e i brillamenti della nostra stella) ed è aperto anche alle famiglie degli studenti. Ogni sessione di osservazione è spesso preceduta da conferenze, alcune interessantissime, quali, dal 2012 a oggi, “Missioni spaziali per l’esplorazione di Marte”,  “Il Calendario Gregoriano. La riforma moderna del tempo”, “Lo studio della Geografia Astronomica nella Scuola. Come le nuove tecnologie possono rivoluzionare la didattica” e “Il rischio di impatto di asteroidi con la Terra”.

E così, sempre sotto l’egida e l’instancabile attività di Francesco Larocca, il 18 ottobre l’istituto è stato ancora una volta sede di un doppio appuntamento: la presentazione del libro di Davide Giacalone “Rimettiamo in moto l’Italia” (Rubbettino, 2013), e l’incontro con il già citato astrofisico Gianluca Masi, che ha parlato del quadro di Van Gogh “La notte stellata sul Rodano”.

Davide Giacalone è giornalista e opinionista, ma principalmente si occupa di internazionalizzazione delle imprese. Non a caso, il libro nasce dal bisogno di porre finalmente un argine all’autodenigrazione cui di solito si abbandonano gli italiani. In realtà l’Italia è un Paese dal corpo solido e di straordinaria inventiva, ma che gli italiani spesso dimenticano. Il problema è che non essere capaci di risolvere i nostri mali – soprattutto quello di pensare di poter ormai vivere a spese della collettività senza più il gusto della competizione – ci rende incapaci di riconoscere le nostre forze. Così la nostra vita collettiva dà il peggio, soprattutto in politica, con un deficit impressionante di classe dirigente, portando purtroppo il sistema nervoso nazionale vicino al tilt. E tuttavia, la crisi è solo un pezzo della realtà che abbiamo di fronte. Bisogna, invece, avere il coraggio di ritrovarsi; ritrovare quella capacità di navigare in mare aperto che richiede la nuova sfida che la concorrenza globale pone oggi.

Il legame della presentazione vangoghiana con le argomentazioni di Giacalone è stata offerta proprio dalla presenza di Stefano Masi, perché il suo studio, già apparso nel 2007 come un brillante risultato dell’eclettica e versatile creatività italiana, fu particolarmente apprezzato proprio dal Van Gogh National Museum di Amsterdam, in Olanda. Con buona pace anche delle odierne convinzioni su certa limitante divisione dei saperi umanistici e scientifici.

Uno studio, quello su la “La notte stellata sul Rodano”, che ripercorre uno dei temi più in voga in questo primo scorcio di secolo, in ambito artistico e letterario: il rapporto dell’autore con la realtà. Dunque, Van Gogh, allora in Provenza, riproduttore emotivo o dal vero – meglio: dal vivo – del cielo? E con quale consapevolezza astronomica? Ebbene la rappresentazione artistica del Grande Carro sulla tela ha permesso a Masi, in realtà, di stabilire data e orario del gesto pittorico (le 23.15 del 25 settembre). E ciò a differenza di tanta pittura “realistica” più attenta alla riproduzione luminosa del firmamento che alla sua precisa resa spaziale. Il fatto si rivela, così, capace di svelare l’eccezionale passo stilistico dell’artista olandese, perché il Gran Carro, dal luogo dove è dipinto (Arles, verso Sud-Ovest) non può essere nel campo visivo. Dunque, di qui, nuovamente, l’irrompere della potenza desiderante e stravolgente il dato realistico con un paesaggio cui è sovrapposto un cielo altro (come con occhi bifronti già modernissimi e furiosi e ribelli a invertire l’orizzonte, scompaginandone le geometrie), e tuttavia ritenuto l’unico degno di essere rappresentato da Van Gogh come cielo.

Recensione a: Antonio Moresco, La lucina (Mondadori, 2013)

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Questa recensione è stata pubblicata su «FuoriAsse», n.  8 luglio 2013.

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Sulla piccola luna di Antonio Moresco

Nel 1749, il naturalista e cosmologo Buffon, congetturò – in Théorie de la Terre – che una cometa, colpendo il Sole, ne avesse staccata una massa fluida dalla quale si sarebbe originata, con gli altri pianeti, anche la Terra. Sinceramente, non ci pare che Antonio Moresco abbia voluto ispirarsi all’opera del pre-evoluzionista francese. Ciò nondimeno, la piccola stella urlante generatasi dalle pagine ultime de Gli incendiati, schizzando per galassie estreme, deve aver staccato, all’improvviso, un frammento dalla massa in formazione di un’opera più grande – incandescente e già viva – e, tuttavia, per noi ancora increata, se la sua luce tuttora non ci giunge dalle profondità relative dello spazio.

Nell’attesa, osservando questa «piccola luna» appena raffredatasi – dall’esile trama, ma dall’importante «natura intima e segreta» – che è La lucina (Mondadori, 2013, 168 pp.), subito ci colpisce una sorta di naufragio temporale dove i relitti del passato e del presente giacciono incagliati nelle stesse secche. Un «posto fuori dal mondo», crepuscolare, sonnambolico, che investe, innanzitutto, il «borgo abbandonato» dove ha voluto appartarsi la voce narrante del racconto. Un posto dove anche i luoghi si confondono, parendo ora uno dei tanti paesi abbandonati di rabbia lungo i crinali dell’Appennino italiano (di cui possono aver parlato, ad esempio, un’Antonella Tarpino o, ancor prima, un Vito Teti), ora una di quelle emergenze archeologiche precolombiane casualmente ritrovate, capaci di presentarsi senza tempo all’esploratore, quasi del tutto avvolte dalla foresta, eppure sempre con l’impressione affascinante di un recente abbandono. Non a caso nel borgo i fichi sfondano le finestre delle case, il filo spinato al limite dei campi appare appena interrato, le piante commestibili serpeggiano sul suolo ormai diseducate. Lungo un sentiero c’è anche un cimitero con lucine ancora funzionanti. Una natura, insomma, su cui la mano dell’uomo deve essersi a lungo esercitata, anche se è come fosse stata da poco recisa.

Il resto, appena fuori, è selva: lotta verticale di alti fusti, sottobosco, liane, rovi. Una natura che si fa, che si «inventa», che adatta passo per passo la propria risposta allo stimolo esterno, che sopravvive non per l’intelligenza, ma per la maggior forza riproduttiva. Nugoli di insetti si accaniscono sull’uomo, devono essere scacciati dalla sua mano, oppure vengono inghiottiti dalle rondini, eleganti esecutrici. Le vespe scavano, sensualmente feroci, la carne dei frutti più turgidi e zuccherini. I mammiferi, a seconda della loro natura, appaiono difensivamente o aggressivamente territoriali. Solo in un caso un cane vaga, sbandato fantasma, per un sentiero, seguendo e impaurendo il protagonista; ma forse, in realtà, unicamente comunicandogli una penosa, muta sovrapposizione di percorsi.

Un mondo, insomma, che non cessa di tormentare la voce del romanzo, di esercitarne un’angosciata tensione morale: «Perché tutta questa misera e disperata ferocia che sfigura ogni cosa?». E, poco più avanti: «Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?». Ma nessuno replica. Oppure sola capace di rispondere è l’incommensurabilità stessa tra le interrogazioni poste al senso della natura e i riscontri ricevuti, tanto imperscrutabili quanto mai consolatori. Di qui tutti i ragionati accostamenti dello scritto di Moresco alla leopardiana «Natura matrigna», base di umana infelicità. Anche se in questo caso, ci pare, non possa soccorrere nessuna difesa approntata da «analisi, ragione e sperienza», se non sapere che «quel che è distrutto patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare, è distrutto medesimamente» (Dialogo della Natura e di un Islandese, 1824).

E tuttavia lo scrittore mantovano, ci pare, abbia ancora al suo arco un elemento di maggior modernità. Che è la compresenza, la sconcertante compenetrazione di morto e di vivo: «Ma come si fa a vivere così?» domanda il protagonista a un castagno dal fusto ancora scatenato di vitalità, ma dalla cima nuda e pietrificata: «Agli uomini non è possibile: o sono vivi o sono morti. Così almeno pare…». E viene il dubbio che persino le stagioni, solo due nel racconto, non siano che le declinazioni di uno stesso tempo comatoso.

Sennonché, a ogni quotidiano calar del buio, la vista del protagonista è attratta da una lucina, sul ciglio dello «strapiombo vegetale» che lo separa dal crinale opposto. L’uomo cerca di capirne la natura per approssimazioni (residuo luminoso come per le lucine del cimitero? Ufo che segnalano l’intervento di mondi alternativi?…). E tuttavia, sia pure in un clima di angoscianti fenomeni e presenze (terremoti – che riportano la narrazione alle pagine de Gli incendiati –, uomini a cavallo che attraversano i boschi, grandinate che lapidano la carnosità di certi gigli come un peccato), l’uomo parte a cercare la fonte di quel bagliore notturno in un percorso in cui ogni residuo di sentiero sparisce e ogni facile avanzamento è impedito. Abita la casa un bambino, senza nome e senza genitori, con cui l’uomo stabilisce lentamente un’amicizia. Ben presto quest’ultimo scopre che il bimbo è morto suicida (il che è sempre, nelle pagine di Moresco, dato acquisito senza particolari sconvolgimenti, i morti comportandosi come i vivi) e che è soprannominato dagli amici di scuola «Stucco» (forse un dolente richiamo all’Ernő Nemecsek e alla Via Pál di Ferenc Molnár).

Così, come per Gli incendiati, si ripresenta, ancora una volta, lo spazio permeabile di convivenza tra vivi e morti, qui rappresentato dalla scuola serale che il bambino frequenta, abbuiata da pesanti tende tirate da un bidello. Così come pure torna il tema dell’uso sadico del potere, pure se più sfumato, rappresentato dalle brutalità di un maestro incapace di ogni empatia con gli scolari. E riappare un’esigenza di liberazione finale che è una dichiarazione di definitiva inappartenenza a un mondo.

Ma La lucina è probabilmente, in più, la presa di coscienza che se il colore della neve è quello della coscienza della morte, lo è anche di un’espiazione finita, di un peso di dolore e infelicità che può finalmente affondare silenzioso, forse rischiarato per un’ultima volta da «quel sogno breve e crudele che è stato chiamato amore».

Del resto, aveva già scritto Filippo la Porta (Meno letteratura, per favore!, 2010) a proposito di Lo sbrego: «a ben vedere la letteratura, la grande letteratura, è fatta soprattutto di dialogo con i morti. Non sarà che questi “morti” sono ben più vivi della maggior parte dei nostri contemporanei, costretti a vivere in spazi desertificati, impegnati disperatamente a simulare l’esistenza e a convincersi di avere un’anima?».

http://www.youblisher.com/p/668368-FuoriAsse-8/

Written by antoniocelano

luglio 17, 2013 at 2:29 PM

Recensione a: Simone Lenzi, Sul Lungomai di Livorno (Laterza, 2013)

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Lungomai

«Castelluccio-Livorno, andata e ritorno!»: questo lo sms inviatomi da un amico fraterno la volta che mi ero lamentato troppo di aver sciaguratamente scelto, per viverci, la città meno adatta alle mie aspirazioni, parendomi di non aver fatto un passo dal mio paese natìo. Come a dire che ero fuggito da fermo, paradossalmente replicando altrove un posto di cui pareva essermi liberato, ma che invece avevo modellizzato e introiettato (ché un amore profondo, avrei capito dopo, spesso è frustrazione o un’idea ossessiva).

Tentando di evaderne «a mano armata, con la pistola in pugno» – per usare i termini di Francesco Permunian – ero finito, così, nuovamente in provincia. E tuttavia, al contrario del grande scrittore veneto, allora poco distinguendo l’essenziale differenza tra l’abitarci e il «restarne prigionieri». Una distinzione, al contrario, sempre ben presente al Simone Lenzi di Sul Lungomai di Livorno (Contromano Laterza, 104 pagg., 12 euro), dove l’autore, non senza un certo distacco, si confronta con un provincialismo, quello labronico, di natura invece ombelicale e centripeta. E se Lenzi non è certo mai stato «uno di quei provinciali che si lamentano del fatto che nella loro città non ci sia nulla, che non succeda niente» pensando, anzi, che questo possa essere un vantaggio su cosmopoliti condannati a «vivere sempre in mezzo all’attualità, fra mille stimoli che finiscono per non produrre più alcuna reazione», tuttavia non manca di prescriversi salutari distacchi pendolari dalla città per periodi di una qualche lunghezza. Perché non essere provinciali, in fondo, è tutto qui, in un restare attenti e curiosi su una soglia sempre aperta e permeabile, rifuggendo sia gli autocompiacimenti per il luogo comune, sia per ogni invettiva che finisca, inesorabilmente, per costruirsi come retorica organica a quegli stessi cliché. Ciò a dire che la verità, come l’uccello dalle piume d’oro della poesia di Wallace Stevens, si può cantare solo con voce straniata.

Così, evitando facili e pittoresche suggestioni, Lenzi insegue il senso di una città attraverso tre traslochi che sono altrettanti quartieri della sua labronicità. Un sostare e un ripartire che ha il vizio filosofico di raccogliere lungo il percorso un segno, un’abitudine, un gesto capaci di riflettere la natura più complessa del mondo. È il caso del box per i cani di Piazza Magenta dove l’autore, in un momento piuttosto tormentato della sua esistenza, si lascia portare dal cane a sgambare un po’, sbandato tra altri sbandati, cinofili o no. Un recinto che subito diventa chiusura, abitudine, nostalgia che invita al continuo ritorno. E che dunque si fa metafora cittadina quasi infrangibile di un’indolenza, di uno sbadigliato «lasciar perdere» che spinge inesorabile fino allo scialo di sé, allo spreco di ogni talento e aspirazione costruttiva. Qualcosa che forse già Carlo Coccioli, sbarcando dalle Americhe, tuttavia con addosso il sole dorato di Zuma, aveva percepito nelle sorgenti vitali e apocalittiche di quest’aria «eterno fior di mare» che «vola e rivola da Montenero ai Quattro Mori, vola e rivola, non si stanca mai». O probabilmente è solo il volto di donna che si indovina guardando il profilo dell’isola appena al largo della costa cittadina, non a caso chiamata Gorgona, a rendere i livornesi pietre su pietra, rocce su roccia, su una lingua di costa sospesa ineffettualmente tra terraferma e mare.

Simone Lenzi ha il pregio di narrarci queste cose quasi dappertutto con stile distaccato, leggero eppure pensoso (non trascurando, sia detto, i lati più amabili di chi abita questa porzione di Toscana). Persino quando si aggira in una città stratificata di ruderi lasciati indietro da una storia che ha proceduto, cercando a tentoni qualche sbocco, come lungo una spezzata. Sempre comunque capace di reincarnare fantasmi in un cortocircuito del tempo che ricorda certe pagine di Amis, in maniera che una fabbrica della Coca-Cola, per dire, possa invertire, con fantasia, la freccia del tempo, ricostruendosi, riaprendo le porte, riconsegnando a un quartiere i suoi impiegati, i suoi operai, ciò che identitariamente aveva perduto. Oppure far rivivere i fasti dell’Hotel Corallo e delle Acque della Salute attraverso l’esilarante ricordo dello zio Aldo, appassionato ballerino d’antan. Sorgenti termali che, tuttavia, finiscono per richiamare in superficie rigurgiti ctoni e oscuri, che a questo punto increspano la scrittura di maggior inquietudine, con richiami più o meno espliciti ad animali e presenze che furono di un Poe o un di Lovecraft. Non è questa la Livorno bagnata dal sole e dal mare, ma quella più periferica, impregnata «sotterra» di «limo vile infecondo» (che pure le terme, oggi neglette, resero per un breve periodo utile e benefico), dove nei giardini delle monofamiliari le piante crescono stente o sorprendentemente rigogliose, ma dai frutti immancabilmente immaturi, come attingendo a una vitalità troppo guasta o troppo viva, aberrata e fatua.

Si tratta di toni narrativi paradossalmente non in contrasto tra loro. Perché, se è vero che le pagine del Lenzi possono essere accostate, con qualche ragione stilistica, al concetto calviniano di leggerezza – s’è sottinteso –, pure di Calvino vivono il paradossale assillo per cui «il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto», le opere successive essendo solo conferme o approfondimenti o correzioni o smentite della prima; ché si coglie nuovamente, come nell’opera prima La generazione, sia pure su un piano necessariamente diverso, il tema dell’amore inefficace: una città dove tutto ciò che capita può radicarsi, rampollare, crescere, e sfumare senza affanno, «perdendo», d’un tratto, «il filo di quello che vorresti fosse il tuo futuro».

Radici ineffettuali, ma lunghissime, che affondano per altri versi fino all’Ottocento del Targioni Tozzetti, citato cantore e retore di una «Bella, la mi’ Livorno» solare e accogliente, ma già compiaciuta e ombelicale centro del mondo; proprio mentre in quegli anni Henry James, certo meno conciliante, va svalutandola al rango di «Toscana in tono minore». Radici forti e paralizzanti quanto le catene che avvincono le braccia dei Quattro Mori, simbolo monumentale della città. E che non si vedrebbe l’ora fossero finalmente spezzate se i livornesi, a questo punto unici innamorati «nemici di loro stessi», non se ne restassero incatenati a quello che Lenzi, riprendendo da una canzone di Battisti, chiama, con gioco di parole ironicamente lucido, il «Lungomai» cui ogni livornese resta affisso. In attesa di aprire, chissà un giorno, la porta.

Written by antoniocelano

giugno 10, 2013 at 10:16 PM

Recensione a: Andrea Di Consoli, La collera (Rizzoli, 2012)

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Copertina LaCollera

Questa recensione è stata pubblicata, in forma ridotta, su «l’immaginazione», n.  274 marzo-aprile 2013.

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Diciamolo subito: Pasquale Benassìa, il collerico protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Di Consoli, è l’autentica impossibilità di avere, del Sud, un’idea dialettica. Uno spazio meridiano, cioè, in cui gli opposti riescano, in qualche modo, per breve o lungo gioco di composizioni successive, a trovare una sintesi, un equilibrio superiore, il raggiungimento di una vetta che alla fine non frani disfacendo tutto. Tanto da piegare il tempo narrativo in una circolarità che è prima dei Lumi e prima di Cristo, e forse pure fuori da ogni possibile paganesimo, se alla fine non soccorre nessuna naturale palingenesi a riscattare un qualsiasi futuro, sia pure individuale. La collera –lo sottolinea Andrea Caterini in un’intervista all’autore– altro non può essere, così, che la definitiva presa di coscienza dell’«impossibilità d’essere liberi dal bisogno, e quindi terrorizzati dalla propria incapacità a riconciliare la vita ai sogni che la animano»; facendoci pensare che i panni di Benassìa siano pure sostenuti da un’amarezza che è dell’autore, anche se Di Consoli davvero difficilmente ci pare romanziere da poter perdersi in qualche modo su strade che sono proprie dell’autofiction. Anzi.

Ma intanto l’eroe di Di Consoli: che è un personaggio duale e caotico di visceralità e ardori, corporeità e spiritualità senza cautele, tanto da decretarne un’irriducibile quanto rivelatrice inappartenenza al mondo. Fin dall’infanzia, dove il giovane Pasquale Benassìa rintraccia i segni e i sogni, misteriosi (e perfidi) del suo destino, e il demone taurino e istintivo della sconfitta, delle macerie, della deiezione dalla storia, delle ragioni del torto (nasce lo stesso giorno della morte di Hitler). Cui miscelare, come instabile nitroglicerina, la gioia «santa», lo stato di grazia di certe visioni miracolistiche che paiono uscite da pagine antropologiche sul mondo contadino e pastorale (l’episodio della “resurrezione” delle pecore del padre). Pulsioni, passioni, aspirazioni ben presto messe alla prova dei «tornanti» cruciali e, per certi versi fondativi, della storia meridionale e italiana che sono gli anni Settanta.

E il fascismo personale che Benassìa crea e proclama, come parte della stessa collera che lo agisce, pare proprio originarsi e scontrarsi con le terrose radici del protagonista: trovando, in questo impasto e urto, la sua furiosa e sulfurea forza polemica. Pasquale è figlio di miserabili contadini calabresi, ben presto irredimibile tabagista catarroso e sovrappeso, ma pure autodidatta talentuoso dalle letture compulsive e disordinate, fantasticatore e visionario, umorale, atipico filosofo dalle singolari teorie eliocentriche ed entropiche (ché nel generoso dispendio fisico di sé e della propria energia intellettuale pare ricordare i tratti biografici di un Avicenna). Così, il fascismo sui generis di Benassìa non si costruisce su nessuna militanza, su nessuna disciplina di partito, su nessuna ora fatale della storia, ma rimane un umore sdegnosamente solitario. Anche quando il giovane calabrese emigra a Torino, operaio alla Fiat, negli anni centrali della contestazione e delle rivendicazioni operaie; di fronte alle quali resta, non a caso, sì contrario, ma piuttosto eccentrico.

Invece c’è, negli occhi del giovane Pasquale, qualcosa di impervio e inquieto: una presunzione di ascesa (forse anche un po’ guascona), la fantasia turbinosa di una guerra dello spirito che si ribella a ogni compassione, a ogni idealizzazione del mondo contadino, a ogni sguardo basso, piantato nel male della terra: «ché lui a Torino non era andato per evolversi da contadino a operaio… ma da contadino a pensatore, a filosofo, a sacerdote della verità». C’è in Benassìa una spinta che è stata anche, per qualche tratto, generazionale, ma nel contempo declinata e deviata individualmente in una fantasticazione irriducibilmente superoministica: «quello che davvero voleva era vivere nella forza, in un pensiero maestoso e inimitabile, e poi innamorarsi di una donna altera e intelligente, e poi studiare e poi farla finita con la commedia triste del socialismo delle lotte operaie e contadine e, infine, ergersi a pontefice della propria leggenda personale». Così, attraverso scombinate letture, il suo mondo trascolora in una sorta di confuso e romantico medioevo interiore: «Pasquale si rifugiava, nel tempo libero, nella lettura di riviste e di libri: soprattutto di storia e, tra questi, di storie monarchiche, manifestando sin da ragazzo una strana attrazione per le monarchie di ogni epoca, più volte trascorrendo del suo tempo adolescenziale a immaginare –in un guazzabuglio senza capo né coda– re, regine, cavalieri, templari e cortigiane». Col risultato, insomma, di un fascismo che subito depone le sue armi più immediatamente storico-politiche, per rivelare, nelle sue origini, un retrogusto letterario e filosofico: nel senso di certe concezioni nietzschiane o certe posizioni stilnoviste per cui la nobiltà può essere una virtù morale individuale blasonata di orgogliosa superiorità, più che indicare una condizione sociale di nascita privilegiata. E con esiti che possono sembrare persino donchisciotteschi, e tuttavia pure sempre cogliendo la verità che, spesso, l’«eterno fascismo degli italiani» altro non sia stato che un personale ritaglio, la declinazione di un’idea collettiva (storica, sociale, politica) dai contorni per nulla rigorosi.

Si genera nello scontro con le radici anche la collera. Che, se per dirla con Bodei, «nasce in genere da un’offesa che si ritiene di aver immeritatamente ricevuto, da una bruciante ferita inferta colpevolmente da altri al nostro amor proprio o alla nostra autostima», l’ira dell’aristocratico Benassìa non può che, all’inizio, rivoltarsi apparentemente in una sorta spirituale di odio di classe rovesciato, contro l’ingiustizia materiale rappresentata dalle origini. Pur sapendo che la collera risentimento non è –sia chiaro– e nemmeno odio: sentimenti notoriamente bisognosi di calcolo, dissimulazione, lunghi tempi di gestazione. L’ira, la collera, sono invece palesi, scoperti, senza remore o rispetti di sorta. Sono fatte di resistenza polemica e immediata, ma pure segnalano sempre la debolezza della breve durata, la fragilità di chi ne è agito, l’amarezza dell’anima e del corpo, le sue ulcere, le sue ipertensioni, le sue lacerazioni. La collera è, paradossalmente, profondamente contadina; è una jacquerie individuale che, in quanto tale, pare sollecitare una contro-risposta parimenti risentita del mondo, tanto che di Benassìa pure è stato detto con acume finisca per diventare un punitore di se stesso: perché noi meridionali «ci proviamo a essere civili, ci proviamo a riconoscere lo stato, ci proviamo ad affidarci al lavoro, ma poi perdiamo la testa e iniziamo a ragionare con la pancia, con l’odio, con il cazzo duro, con il fuoco in mano».

Tuttavia c’è qualcosa di più nella storia, qualcosa che travalica la sconfitta delle aspirazioni di partenza di Benassìa per colpire al cuore il suo protagonismo. Un risultato che a mo’ di zavorra, anche con risultati sottilmente paranoici nel lettore, pare in agguato fin dalle prime pagine del libro, subdolo e pronto a ingoiare nuovamente Pasquale nello sfondo meridiano da cui faticosamente cerca di affrancarla. Un peso, insomma, che prende le forme del suo coetaneo Germano Altomare (barista coinvolto in un losco giro gestito da siciliani) che, paradossalmente lo spinge a partire dal suo Paese dei Mori verso Torino. Pasquale Benassìa, dopo un viaggio attraverso l’Italia a bordo di una vecchia 500, approda, così, alla Fiat, dove si impiega logorandosi di lavoro come meccanico, tuttavia, come prevedibile, sprezzando i suoi colleghi meridionali (o di sinistra) e ingraziandosi il caporeparto Marini (piemontese e di destra). Inizia in questo modo quella che gli pare la scalata verso la vetta definitiva delle sue aspirazioni pur già comprendendo, sempre tra i fumi della collera, che anche il Nord, «stordito e istupidito dalla fame di soldi», non potrà essere che un’altra illusione. Sono affermazioni che preludono all’incontro con la siciliana Simona, capace di affogare Pasquale – nonostante i sensi di colpa per la sua fidanzata, Magda Beccaria (un’insegnante torinese) – in un gorgo di sensualità consumato in una camera d’albergo a ore. Un amore la cui meccanica confonde delle sue opacità i sensi e la mente sbigottita di Pasquale, rivelandone pure l’angosciosa incapacità di accedere al mistero della donna. Così come oscura e inconoscibile rimane la ragione della persecuzione da parte del gruppo di siciliani al rifiuto dell’incauto Pasquale, attirato nel bar dal solito Altomare, di fare, per loro, una non meglio esplicitata consegna. Fatto, tra l’altro, non si sa se e quanto legato alla «faccenda» di Simona, che nel frattempo s’è dissolta nel nulla.

Vicende che lasciano irrompere con forza nel libro –come ha notato Aurelio Picca– il romanzesco, col rocambolesco ritorno al Sud, sotto scorta, di Pasquale. Un rientro che ha la stessa repentinità di un’ancora gettata di colpo in fondo al mare e che lascia Benassìa in balia dell’assurdo. Faccende che lo avvincono nelle spire delle paure e di una vita allarmata, all’inizio appena lenita dal ritorno in famiglia o grazie al sostegno (tra l’altro collericamente tradito) dell’amico Anile o dell’incontro con la carne accogliente di Teresa. Terrori tuttavia definitivamente estinti solo dall’obolo umiliante (e che a Torino s’era voluto evitare) pagato ai taumaturghi moderni del familismo politico, dello scambio di favori, di quella mafia per ironia della sorte così affezionata a certa destra. Pure con la beffa di essere coinvolti, da protagonisti, in importanti fatti di cronaca, tuttavia tanto agghiaccianti da non poterne fare neppure menzione se non al rischio della galera o della vita.

Faccende e derive che non possono che consumare definitivamente ogni collera, se per dipendere da nessuno –dice Di Consoli– alla fine si finisce per dipendere da ognuno. E consumano anche Pasquale, che si spegne già quasi dimenticato da tutti, la sua nera anima di filosofo trasmigrata in un cane randagio che lavora rabbioso coi denti un osso di bue gettato per strada. Perché, per Andrea Di Consoli, ci pare, a differenza di altri intellettuali meridionali, la verità del Sud (quel Sud con il quale pure mai si riesce a farla definitivamente finita) non è mai fuori portata o abilmente nascosta, ma più semplicemente buttata via o dimenticata, non servendo a nessuno.

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febbraio 21, 2013 at 12:34 PM

L: Livorno

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Fuoco

Alla stazione di Livorno ci arrivai la prima volta una notte del ’77. Dal treno, scendemmo io, mio padre e uno dei suoi cani. Sul marciapiede fantasma, forse senza pensiline, ci schiaffeggiò un umido salmastro e il puzzo di piscio che saliva sonoro dai binari, nonostante il freddo. Più avanti, sulla stessa banchina, bivaccavano solo tre capelloni (così, almeno, in quell’Italia in preda al panico morale) buttati per terra. Parlottando, si scaldavano alla fiamma generata dal compensato di cassette per la frutta. Un ferroviere li guardava senza cura.

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dicembre 30, 2012 at 8:56 am

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Recensione a: Lilli Gruber, Eredità (Rizzoli, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» domenica 11 novembre 2012.

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La prima mail a darmi l’allerta via Facebook è quella sibillina di Vincenzo Pagano, fratello di tutta un’infanzia: “L’hai letto l’ultimo della Gruber?”, mi scrive dal paese. “No, non l’ho letto. Perché?”, gli faccio di rimando, e magari sarò risultato un po’ secco, ma in fondo francamente demotivato dagli ultimi due o tre sonori “pacchi” (più o meno romanzeschi) rimediati dall’ultimo giornalista di grido. Però, insomma, è successo che nel suo ultimo lavoro, ”Eredità” (Rizzoli, 360 pagg., € 18.50), Lilli Gruber ha parlato di Castelluccio e dunque la lettura del libro mi s’impone. Ma mentre cerco di capire cosa c’entri il paese dove sono nato, e come, con la notissima giornalista Dietlinde Gruber, detta Lilli, mi raggiunge un post dell’amico Sproviero che mi indica il dibattito in rete che intanto s’è avviato, e alla cui fonte trovo, infine, Giuseppe Pitillo, vale a dire uno che la memoria del nostro paese prova attivamente a tenerla in vita e – scopro con piacere – con un ruolo anche nella redazione delle pagine di “Eredità” più interessanti ai nostri fini. E alla fine va così, che vado in libreria quasi fisicamente sospinto dalla curiosità di una comunità dalla quale dovrei essere geograficamente e spiritualmente, ormai, piuttosto distaccato. Invece.

Invece quel richiamo che, a un certo punto, deve aver riconosciuto forte anche la cosmopolita Gruber – mi dico – se, al culmine di una riuscita carriera, si sente di scrivere un libro che ripristina i legami, anche intellettuali, con la sua Heimat (malamente traducibile con “patria”), esaurite le lunghe insofferenze giovanili per le tradizioni della sua terra e per certa “retorica patriottica che in Sudtirolo”, dove è nata nel 1957, è spesso sfociata “in aperto nazionalismo”. E dunque, se “Eredità” non può dirsi propriamente un libro di storia, ma un saggio dedicato alla memoria e al “recupero di un’eredità familiare e culturale” che appartiene all’autrice, però con la storia – la storia tormentata di una terra di confine (un tema, questo, di grande modernità) – fa i conti. Soprattutto con il “passato che non passa” di un Novecento che pare a volte davvero essersi consumato con l’ansia veloce di una sigaretta: per ogni vivace bagliore, fumo e cenere. Un passato da cui si enuclea la verità presente di un Sudtirolo complesso e stratificato (radici germaniche, apporti italiani, infine globalizzazione) cercato dall’autrice tra le pieghe vive della sua esperienza, attraverso un giudizio che direi appassionato quanto distaccato, attento alla storia e al quotidiano.

Mi pare, allora, che l’età dell’autrice non sia oggi necessariamente quella dei sopralluoghi nostalgici, ma quella che ci chiarisce un Sudtirolo alla prova degli anni cruciali del Secolo breve. Un trentennio segnato, nel libro, da due figure femminili dalla forte personalità: ribelli (ognuna a suo modo), caparbie e fortemente legate alle loro identità e terra. Sono la bisnonna di Lilli, Rosa Tienfenthaler e la prozia Helene Rizzolli, detta Hella. Figure entrambe, direi, della crisi. La prima, proprietaria terriera, le radici ottocentesche legate alle lealtà patriarcali dell’impero austro-ungarico liquidatosi, prima, nel trauma irrimediabile della sconfitta con l’annessione all’Italia del Sudtirolo; colpito, poi, quest’ultimo, dalla becera italianizzazione imposta dal fascismo. La seconda, legata a un futuro che guarda al passato, alle nuove speranze di ricongiungimento alla patria dei sudtirolesi, ma polarizzate questa volta dal liberticida Reich nazista: illusioni presto impantanatesi tra le pieghe di uno sciagurato patto tra regimi totalitari. Figure, dunque, entrambe, della crisi – dicevo – così come di una percezione del confine e dell’identità come casa, ma pure nostalgia, resistenza e attrito di fronte agli inevitabili rovesci della storia. Direi pure alternative a personalità più defilate nel racconto – Berta Rizzolli, ad esempio, o gli stessi genitori di Lilli – che denotano, invece, una più spiccata attitudine a vivere l’identità del confine, pur senza svendite, come permeabilità positiva, contaminazione, anche sfida, conoscenza della differenza, opportunità. In un Sudtirolo, oggi, comunque molto cambiato.

Ma riprendiamo le fila: dunque, Castelluccio Inferiore. Ma cosa c’entra? C’entra, perché proprio la repressione e la pesante offesa alla memoria di un territorio perpetrate dai fascisti (alle quali, in seguito, si salderanno le ristrettezze economiche imposte dalla crisi del ’29) finiscono per creare delle decise reazioni che spingono molti sudtirolesi tra le braccia del pangermanesimo hitleriano. Certo con imbarazzi, pericolose contraddizioni e qualche diffidenza tra i due alleati che, alla fine partoriranno la scellerata soluzione delle “Opzioni”. Ma pure con una mal riposta forza di illusione sulle reali intenzioni di riannessione naziste (giocheranno qui anche le false speranze suscitate del referendum per il ritorno della Saar al Reich), che scrive davvero una brutta pagina sulle compromissioni del Sudtirolo con il nazionalsocialismo, su cui la Gruber – va detto – non fa sconti di sorta. Nemmeno nei riguardi della sua prozia Hella che è, dal canto suo, arrestata l’8 gennaio 1938 come attivo agente anti-italiano e anti-fascista e incarcerata insieme a detenuti “comuni”, in questo caso prostitute – pratica (con alterni risultati) adottata, tra l’altro, da tutti i regimi totalitari, dalla Spagna franchista all’URSS stalinista, per umiliare e fiaccare la resistenza dei “politici”. Giunge, infine, la decisione del regime di comminare cinque anni di confino alla giovane attivista nazionalsocialista. Una condanna esemplare, che possa servire da esempio agli altri militanti sparsi per la Bassa Atesina, dove Hella opera politicamente.

Così, sulle tracce di Helene, confinata in Lucania dal 19 maggio al 18 novembre del 1938, la Gruber giunge a Castelluccio nell’agosto di quest’anno. Scrive l’autrice appena in paese: “Ho immediatamente la sensazione che quasi nulla sia cambiato da quando, settantaquattro anni fa, Hella si è ritrovata qui, al confino, mille chilometri a sud della sua casa di Pinzon”. Il che, se per un verso mi pare un’affermazione di accorata suggestione sul filo della propria riallacciata memoria, per il resto mi lascia perplesso, se dà l’impressione di scivolare verso certo “levismo” o fascinosa cartolina dell’immoto paesino-presepe, in contrasto o in accordo (ma non è questa la sede) con quell’invalidante scostamento della forbice modernizzante – buche nelle strade e odiosi viaggi in treno inclusi – che la Gruber individua tra dato oggettivo e personale fastidio, che è poi il complesso gioco tra termini assoluti e relativi del cambiamento del Sud rispetto ad altre italie.

Ma Hella? La Gruber ne ricostruisce i mesi della permanenza grazie alle lettere indirizzate alla famiglia conservatesi dal confino e grazie all’aiuto ottenuto sia dal citato Giuseppe Pitillo che dall’ingegnere (con il vizio della storia locale) Biagio Aiello. La Rizzolli è posta in pensione al numero 294 di via Roma, e rubricata, con tipico contorsionismo linguistico, come “casalinga”. “Perla” di imbarazzo ideologico cui ben fanno seguito altri errori e svarioni a carico dell’inefficiente macchina burocratica fascista, senza contare le molestie notturne dei tutori della legge che si assicurano, così, il rispetto del coprifuoco da parte della confinata. Pure, al di là di tutto questo, complessivamente il rapporto di Hella con Castelluccio rimane, pur registrando continui miglioramenti, piuttosto contrastato. Certo, gioca un “vero e proprio shock culturale” patito al suo arrivo, che Hella condivide con altri confinati, non solo sudtirolesi, di cui si sono potute ricostruire le vicende. Con in più le ipocrisie di qualche locale delatore; il contrasto con la nuova padrona di casa; la necessaria incomprensione di certi costumi per oggettiva mancanza di informazioni storico-culturali. E tuttavia si percepiscono nella Rizzolli anche connaturate rigidità di giudizio che la spingono ad alcune affermazioni francamente ingenerose, quasi fossero generate da una più complessiva inadattabilità all’ambiente o da una provocatoria interpretazione a tesi. Rigidità però sempre sorprendentemente compresenti, nel giovane “spirito ribelle” e temerario, alla capacità di cogliere con grande intelligenza e capacità descrittiva caratteri e ambienti che ci restituiscono pagine gustosissime e ironiche che sono come istantanee ancora vive del nostro “come eravamo”. Il resto lo fa il tempo, la progressiva comprensione che il fascismo regime – che nel Sudtirolo mostra monolitico la sua faccia più oltraggiosa e aggressiva – a queste latitudini è un totalitarismo sì fanatico e violento, ma pure inadeguato e disorganizzato, tanto che due sorelle di Hella, Berta ed Elsa, per farle visita e portarle i saluti della madre, Rosa, riescono ad attraversare tutta la Penisola senza suscitare alcun sospetto. Del resto Hella non è per nulla una donna fredda e lentamente, pure sollecitata dalla naturale socievolezza dei Castelluccesi, a sua volta inizia a coinvolgersi con quegli italiani alla fine abbastanza diversi, per indole, da quelli che vanno conculcando così ferocemente la libertà nella sua terra. Possono nascere, così, anche belle amicizie di cui la più forte resta quella con “Rita Lauria, di dieci anni più grande, sposata col signor Conte”, con cui trascorre molta parte delle giornate (rimpinzandosi di fichi, magari, o seguendo la spremitura dell’uva coi piedi) e che, prendendosi cura di Hella, riesce così a mitigarne molte comprensibili ritrosie, permettendole di mostrare i lati più solari del carattere. Certo suscitando (nemmeno i Castelluccesi sono perfetti) qualche gelosia, ma anche il riguardo da parte del podestà Ernesto Catalano. E le pronte attenzioni di qualche locale giovanotto (e non solo!). Ma sembra un attimo, perché la vulcanica, coraggiosa e geniale Berta riesce rocambolescamente a far revocare il confino alla sorella addirittura da Galeazzo Ciano. Risparmiando, così, più di quattro anni di ulteriore pena a Hella che, interrotta quell’esperienza e tornata a casa, resterà ancora del tempo in contatto con la signora Rita.

Ora, chiuso il libro, si potrebbe persino desiderare che Hella, forse, avrebbe potuto rimanere di più: conoscerci meglio, farci conoscere meglio (curiosi di natura come siamo) il suo mondo. Sicuramente, molti, a differenza di lei, giunti in cattività costruirono qui la loro libertà. Ma amiamo troppo la nostra terra per non comprendere che altre migliori, se non la sua, non avrebbero potuto esistere. Del resto, mi pare difficile anche pensare a Hella Rizzolli se non come a una di quelle persone massimamente libere solo se massimamente avvinte alla loro radice. Pensiamo sempre la libertà possa dirsi nomade; spesso invece ci sorprende, se porta con sé il nome di una mistica Heimat.

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novembre 12, 2012 at 2:21 PM

Recensione a: Daniela D’Angelo, Catalogo dei giorni felici (Salvatore Sciascia Editore, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 30 settembre 2012.

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Si susseguono con un passo piano e tuttavia intenso i versi d’esordio che Daniela D’Angelo consegna alle pagine della raccolta “Catalogo dei giorni felici” (Salvatore Sciascia, 56 pp., 6.00 €). Passo di chi abbia prima amato senza cercare ripari – senza “più nulla da stringere, / nemmeno un talismano” –, appena dopo decantando l’esperienza nella precisione elegante del verso, in una parola che è già di maturità, di sopravvenuta intelligenza delle contraddizioni che sono la natura necessariamente fugace della felicità: una “coda scintillante” di volpe intravista su un sentiero nel bosco.

E dunque “catalogo” (ma anche sforzo di individuarsi in un punto topografico certo nella difficile geografia del vissuto) e non “elenco” dei giorni felici; che è certo raccogliere ed enumerare esperienza, ma pure ragionarla, sempre col rischio, cioè, che lo sguardo con cui si coglie un sentimento o un desiderio sia quello del pomeriggio, con una luce ancora accesa, e tuttavia bifronte, già punta dal sospetto malinconico della disillusione, che fruga noiosa “a vuoto dentro il piatto” promettente del mattino, la testa già alle trappole e alle buche (anche della quotidianità) in cui ci si è, a volte, malamente cacciati. Tanto da farci temere che quella felicità e quell’amore, pure senz’altro vissuti, siano stati invece lo scorrere illusorio di una pellicola mai impressa, o sbiadita: “Cominciare le letture da finire / finire col guardare vecchi film / tenere un catalogo dei giorni / in cui succede poco, / quasi nulla. / È il catalogo dei giorni più felici / a tenerti compagnia lungo la sera. / L’album delle foto che non hai / per ricordarti la vita che non c’era”.

E nondimeno, bifronte, la luce resta però ben prima anche delle nostalgie della sera, delle paure della notte, dei rigori dell’inverno, che può diffondersi, così, con una raggiunta serenità interiore nuovamente capace – si è detto – di conciliarne le incoerenze e gli accidenti, magari più persuasa di una navigazione “alla greca”, vigile alla costa e attenta al prossimo scoglio: “Giro il foulard azzurro / tre volte intorno al collo, ti do le spalle / e sorrido calma. // C’è un passo sulla soglia / che manca il precipizio, / c’è un modo per andarsene / che promette già un ritorno”.

Daniela D’Angelo è nata a Trapani, ma dal 2001 vive e lavora a Roma come editor e ufficio stampa di una casa editrice. Salvatore Sciascia (www.sciasciaeditore.it), invece, ci conferma ancora una volta quanto, per la poesia, le dimensioni editoriali siano sempre più inversamente proporzionali al coraggio di pubblicare. Purtroppo.

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ottobre 1, 2012 at 3:46 PM

Recensione a: Antonio Paolacci, Tanatosi (E-Pop Perdisa, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» l’11 giugno 2012.

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Se c’è qualcosa di veramente peculiare nello stile di Antonio Paolacci è la costruzione di una narrazione sottesa di lineari e nervose strutture concettuali sulle quali poi disporre topologicamente le invenzioni della scrittura. E anche “Tanatosi” (E-Pop Perdisa, 2.90 euro, disponibile esclusivamente in e-book, ma scaricabile dalle principali librerie on-line), l’ultimo racconto dello scrittore felsineo di origini cilentane, in nulla – ci pare – deroghi alla norma. Perché, quando nella narrazione è posta la questione della scelta, della stringente alternativa, il cammino del protagonista, prima lineare, deve dunque necessariamente divaricarsi in quella forma a “Y” della quale fecondità – come maturata coscienza dell’importanza del bivio – non a caso siamo a conoscenza fin dai pitagorici e dai mistici magno-greci. Tanto più se la struttura consente agevolmente a Paolacci di disporre, su un piano di confronto polarizzato, temi che sono già tipici dei suoi romanzi come, ad esempio, il rapporto tra contesto e individuo, tra vecchie e nuove generazioni, tra ordine sociale e rivolta, tra città e periferia. Nel caso di “Tanatosi” anche tra tempo della natura e concitazione della cronaca. Dove qui più che altrove, Paolacci – per la misura breve del racconto e nel confronto complesso tra etologia, psicologia e storia – meglio è riuscito a dire una parola lucida e convincente sul mutamento del nostro tempo, sulla controversa e mai definitiva nascita della coscienza (delle coscienze?) nell’uomo.

Tanatosi nasce da un’eterna opacità della luce solare, dalla rivolta che dilaga folle e apocalittica esplodendo da una crisi socio-economica totale. Molto simile alle immagini di battaglia che guardiamo ancora in tv ogni volta più attoniti, considerata l’implicita promessa che prima o poi possano concretizzarsi ben fuori dagli schermi. Dal macello si sfila un trentenne – in fuga? per darsi tregua e capire? per sondare definitivamente la possibilità di un’esperienza alternativa praticabile, benché ancora sconosciuta? – con ancora in mano una spranga macchiata di ruggine e sangue (come a dire i rossi prodotti delle due storiche rivoluzioni capitalistica e sociale). Il giovane si inerpica in montagna, alla ricerca di un padre là ritiratosi e mai davvero conosciuto dopo l’abbandono molti anni prima di città, famiglia e proprietà. Trova, così, il vecchio immerso nel paesaggio disadorno e privo di orpelli della campagna, adattato a una natura senza tempo capace di condizionare, come in città mai potrebbe, le azioni degli uomini. Uno stato edenico che consente al padre di essere dimentico delle complicate sovrastrutture della “civile convivenza” metropolitana, della sua stratificata “acquiescenza a varie forme di potere”. E tuttavia, mentre l’osservazione della recuperata “animalità” del padre (quel fare amorale, quel decidere senza “sviscerare ragioni e torti”) non dispiace al trentenne, le ragioni e la filosofia di vita del vecchio lo spingono, invece, a demistificare definitivamente quel mondo come l’inganno di una possibilità di riparo dall’apocalisse in corso. Tanto più se, sotto il guardare dall’alto in basso il formicaio umano, si indovina l’abbandono del mondo per sconfitta generazionale epocale, o un colpevole trarsi fuori dal polemos, più o meno accentuato, che ogni società fatalmente comporta.

Accade infatti che sulla via del ritorno il giovane, ancora malfermo sulle sue nuove gambe, sia attaccato da un maschio alfa di lupo, già visto aggirarsi attorno alla catapecchia del vecchio. Tuttavia mai apparendo scosso dalla paura di finire ucciso, quanto rammaricato di farlo in quel contesto ormai respinto. Il protagonista genera così una risposta etologica adattativa alla pericolosa situazione: pur armato della sua spranga rispetta la superiorità del predatore, si sdraia nel fango e mima la morte. Dunque eludendola e, con questa, la pulsione predatoria del lupo. In altre parole definitivamente scomparendo, grazie alla tanatosi (e con una trovata dantesca) da quella dimensione, così precipitandosi in auto verso la città ormai preda dell’inferno.

Come anche per il padre, il giudizio non è meno duro per gli ex consumatori di superfluo che ogni giorno hanno lasciato ad altri, per pigrizia, “il compito di dare una forma ai loro sogni” e ai loro pensieri, tranne poi a ribellarsi al momento del tracollo economico indossando “i panni delle vittime, dimenticando che erano loro, gli ignavi, il motore di tutto”. Pure così, il giovane si lancia in auto contro la polizia che carica alla cieca e gli spara contro, falciandola con una rabbia finalmente animale, se con questo termine siamo disposti a indicare un essere che non ha bisogno di pensare o di capire per sopravvivere, perché agito da un servomeccanismo amorale o pulsionale. Servomeccanismo dunque mai banalmente scatenato, come pure per l’incontro con il lupo, dalla vulgata muscolare “pesce grande mangia pesce piccolo”, ma dalla corretta constatazione che prosegue “il più adatto” all’ambiente. Del resto, al pari del giovane protagonista, anche i gruppi di rivoltosi appaiono agiti dalla stessa reazione etologica, un po’ come le bande umane o di scimmie in atteggiamento territoriale aggressivo analizzate da Eibl-Eibesfeldt. E la resa letteraria che ne fa Paolacci ci pare tanto più convincente se l’autore – rifiutando la linea che da Le Bon, passando per Sighele, fino a Freud ha descritto le folle come puro aggregato e sommatoria di individui – fa propria la visione che da Canetti in poi ha reso la folla come un “corpo unico” dal comportamento e dagli “appetiti” del tutto autonomi e peculiari rispetto a quelli individuali.

E tuttavia si parla di rivoltosi e non di rivoluzionari, di distruzione e non di costruzione, come se anche nel ventre della città la storia fosse chiamata indirettamente in causa se non per essere messa in ombra. Come altrimenti interpretare quei messaggi in esperanto che a un certo punto la radio comincia a diffondere? Certo con la dismissione della “lingua economica” per eccellenza. Salvo poi farne seguire un’altra tanto espressamente pensata per l’intero ecumene, quanto immediatamente straniante di una sostanziale incomprensibilità. Resta, così, alla fine, un pericolo (se l’ambiente è la distruzione) che i due rami di quella “Y” di partenza possano in breve finire per convergere: dalla montagna come stato edenico di partenza alla montagna come resto cui tornare dopo il fuoco.

Written by antoniocelano

giugno 11, 2012 at 9:03 am

Recensione a: Simone Lenzi, La generazione (Dalai, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» il 16 maggio 2012.

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Ha forse ragione Concita De Gregorio: il lucore che promana da un uovo deposto nel buio notturno della copertina non lascia adito ad ambiguità sui temi affrontati nelle pagine di La generazione (Dalai 2012, 160 pp., 15 €), romanzo d’esordio del livornese Simone Lenzi. Ma è probabile ci si sia affrettati troppo, nelle recensioni d’anteprima – persino nelle prime interviste dell’autore – a dichiarare il libro assolutamente non virato su temi generazionali quanto, invece, su quelli del generare o, in termini più brutalmente etologici, del riprodursi. Nondimeno, fatti tutti i possibili distinguo per evitare che il libro fosse impiccato a un genere inteso ormai esangue, viene da chiedersi se già il titolo – dedicato alle vicissitudini e alle difficoltà di una coppia che da anni cerca di avere un figlio – non abbia, invece, proprio qualcosa di eminentemente generazionale. Almeno (oltre al caso contemplato dal libro) in un’Italia a crescita zero, quasi sterile per scelta o, per contro, ossessionata dai test di fertilità anche per brevi ritardi procreativi normali oltre i trent’anni.

A partire dalla propria esperienza personale – sempre narrata con una leggerezza di scrittura e un’ironia sottile che pure non anestetizza i dolori del vivere – Simone Lenzi ci porta, dunque, tra le pieghe di questa coppia divisa di testa e unita di pancia come in «una vecchia commedia con Jack Lemmon e Walter Matthau». Con qualche dubbio tra un femminile che «vuole» e un maschile che «vorrebbe» un figlio, nei fatti però unita nel calvario dei tentativi di procreazione assistita, nel prezzo da pagare a un desiderio così geneticamente radicato: le tecniche Icsi e Fivet, la liturgia delle iniezioni nel ventre, l’Elledue, l’Elleacca, il Meropur, l’Ovitrelle, e poi le eiaculazioni in vasetto sterile per i test di vitalità, le masturbazioni in apposita stanza per l’impianto follicolare, il dolore del corpo e dell’anima per ogni mancato appuntamento con la maternità. Fatti che spingono a considerare a quanto poco si ponga mente, da un lato, a certo delirio di onnipotenza, invasività e accanimento terapeutico medico-scientifico; dall’altro a quanto si radichi nel forte desiderio di sopravviversi la richiesta fatta alla stessa scienza di risolvere, come munita di bacchetta magica, problemi che comunque, almeno allo stadio attuale, non paiono affatto una passeggiata di salute.

Sennonché proprio tutta l’esperienza di vita del protagonista pare essere, intanto, quella di un uomo capovolto. Perché lavora come portiere di notte d’albergo vivendo in controfase ai ritmi del mondo, dando cioè a ogni rientro in casa la buonanotte alla luce del giorno. Un lavoro che richiede «qualità e difetti specifici»: saper vivere «tante ore nella propria mente» in una prevalente solitudine lontana anni luce dai centrali notturni d’albergo così corali di personaggi, vicende e promesse che furono quelli, ad esempio, di un Giuseppe Cassieri. Ambienti periferici, silenzi ovattati che all’alba stordiscono di grigio il colore delle cose, e che divorerebbero di noia e ossessioni, come microscopici animalcules notturni, la mente di chiunque se il protagonista non amasse (qualità o difetto specifico) la lettura (il che fa di quello ciò che una volta, con linguaggio marxiano, si sarebbe definito, erroneamente o meno, uno «spostato»). Se non amasse concentrarla, in maniera affatto personale, attorno ai fatti della generazione compulsando nottetempo – consultando con abilità biblioteche virtuali – i trattati che furono di Harvey e di Leeuwenhoek (che appunto scoprì gli animalcules della procreazione maschile), di Vallisneri e di Spallanzani. Di tutti quegli uomini di scienza che, attorno al Sei-Settecento, partendo dalle speculazioni lasciateci da Ippocrate (su una massima del quale l’autore fonda i cinque capitoli in cui il libro si divide) e più da Aristotele, cominciarono nuovamente a riflettere sul problema della generazione, spesso lasciando sul campo irrisolti più problemi (animalculismo, ovismo, preformismo) di quanti ne avessero affrontati all’inizio delle loro indagini. Infrangendo l’auctoritas di quei maestri pur senza giungere a una risoluzione scientificamente certa. Uomini di scienza, tra l’altro, dai grandi tic (le ossessioni e la mania di controllo di Leeuwenhoek, le meditazioni al buio delle grotte di Harvey, l’accanimento vivisezionista di Spallanzani) dei quali Lenzi ci narra con il gusto lieve e ilarotragico della sua scrittura, e che diventano a loro volta come la spia dei vizi fondativi della nostra modernità e delle nostre ossessioni e compulsioni verso l’inarrestabile macchina tecnologico-scientifica.

Il protagonista de La generazione guarda, così, il suo cruccio con occhio colto e contemplativo. Però, ciò che avviene, è che questo atteggiamento invece di spingerlo tra le secche di un possibile egocentrismo sussiegoso di diversità, ne svela invece la crisi all’esaurirsi di una linea storica che da Aristotele ha fatto del maschio, sì etologicamente, ma di più antropologicamente, «colui che genera in altro» e disposto per questo, per godere del «mondo delle cose sensibili», «a pagare, a rinnegare, a tradire, a commettere violenza. Per entrare nell’altro e generare, anche a costo di morire». Come le rane che Spallanzani mutila durante l’atto riproduttivo e, nonostante ciò, misteriosamente spinte a non fermarsi prima di spegnersi in una muta sofferenza. E tuttavia come lo stesso Spallanzani, colto nell’atto di penetrare il segreto della riproduzione sacrificandola, invece, a una tortura non si sa quanto capace di comprensione profonda della vita biologica (e direi anche del genere femminile).

La voce di Lenzi si approssima, così, a un altro nodo epocale che è il mutamento del ruolo del maschio. E lo fa prestando una voce all’estinzione dell’eccesso di ardore amoroso, che si fa in compenso empatia, «altro nell’altro»: come Tiresia, posto nella sua vita nei panni di una femmina, o come l’ermafrodita proterandrico pesce pagliaccio. Vale a dire rifiutando in qualche modo, nella vita di coppia, il principio identitario di non contraddizione e la soffocante (quanto rassicurante) divisione dei ruoli conosciuta dalle vecchie generazioni. Diniego che, però, se si esalta nella comprensione psicologica dell’altro, anche si esaurisce in una serie solitaria di obbligate masturbazioni ospedaliere e di ogni smarrimento clinico di una traccia qualsiasi di intimità e di piacere di coppia.

In un suo intervento su «Vibrisse», teso a «liberarsi dell’inutile categoria dell’autofiction» Giulio Mozzi aveva scritto: «nell’era dell’inesperienza, ci sono dei narratori che decidono di dubitare di tutto ciò di cui hanno esperienza. Dopo aver dubitato e dubitato, scoprono che forse resta loro qualcosa, un resto, del quale non riescono nonostante tutti gli sforzi a dubitare» che è l’esperienza del dolore patito dal corpo. Dolore che è male; gesto di reazione a questo male che è bene. E in questa «narrazione del resto» sembra, tra gli altri, coinvolto Lenzi. Dopo l’odissea di esami e impianti e dolore dei corpi (e delle anime) della coppia (che finisce pure per avvelenare di sé pensieri e gesti quotidiani) l’autore-protagonista – ospite in barca per un viaggio in tre giorni verso l’isola labronica della Gorgona – pare finalmente scorato. Se non fosse che alla fine della sua cattività a bordo del legno, come Giona, in un guizzo, si rivomiti dal fondo delle acque con la testa liberata dalle alghe. Che sono, forse, l’inseguimento ossessivo di una felicità aprioristicamente perfetta o – di fronte al difetto – ingegneristicamente perfezionabile, a scapito di una vita da accettare per quel che è (priva di presunti salvifici schermi al dolore: edonismo, simbiosi da dominio, meccanicismo, ruoli, liturgie scaramantiche…) prima di provare a cambiarla. Per rimettersi dritto, «per muovere il culo», fare nella luce del giorno senza paura di contaminarsi. Qualcosa che sia più largo, oltre l’ossessione si possa scorgere vita solo attraverso gli occhi di un figlio.

Written by antoniocelano

Maggio 16, 2012 at 7:16 am

Felice Piemontese, Fantasmi vesuviani (Hacca, 2009)

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Uno sciamano, un medium. In stretta catena con la Ortese de “Il silenzio della ragione” e il sorriso smorzato di Franco Cavallo, in Fantasmi vesuviani (Hacca 2009, pp. 112, 10 euro) la trance di Felice Piemontese rievoca quasi mezzo secolo di vita culturale partenopea – e ne ricostruisce l’epica – ridando voce e colore agli intellettuali (morti e ancora vivi) che cercarono di svecchiarne il genoma culturale. E dunque Luciano Caruso, Domenico Rea, Luigi Incoronato, Tullio Pironti, Fabrizia Ramondino, Franco Capasso, Lucio Amelio… un ambiente ricco e vivace di personalità, ma strutturalmente fragile e autoreferenziale, incapace di resistere alla disgregazione, alla maledizione che Napoli muove con “i suoi eserciti di nuvole, d’incanti” perché gli uomini ne siano distrutti, “storditi e sommersi” (così, più o meno, la Ortese).

Pittori, poeti, scrittori, giornalisti, galleristi, sempre in tormentato rapporto con il reale e alla ricerca di una difficile via d’uscita dalle strettoie del neorealismo. In definitiva non più di una manciata di aerei lanciati contro l’invincibile King Kong “dell’establishment culturale della città, pronto a difendere con le unghie e coi denti i propri miserevoli privilegi”. Un gruppo di uomini peraltro incapaci di far sistema contro gli “epigoni crociani”, gli “spiritualisti ottusi”, i “vedutisti attardati, estenuati continuatori della tradizione ottocentesca”, che si spartivano “i ridottissimi spazi disponibili in una città che sembrava chiusa per sempre a ciò che di nuovo accadeva nel resto del mondo”. A partire da quell’accademia dove si infranse il magistero anticonformista di un Giancarlo Mazzacurati, studioso di scrittori irregolari (Svevo, Joyce, Smollet) e irregolare egli stesso, corpo estraneo e rigettato dalla città, con cui ruppe drasticamente trasferendosi a Pisa.

Come lui, Luciano Caruso, entusiasta riscopritore del Futurismo, sarcastico fustigatore di certi autocompiacimenti partenopei (difetti inclusi, anzi soprattutto), anti-individualista e animatore di riviste dedicate alle questioni del situazionismo e della neoavanguardia. Ospite sgradito della città pensò, male, di trasferirsi a Firenze, luogo notoriamente ingrato con i non indigeni e, nel 1976, già abbondantemente dimentico della sua importante stagione avanguardistica cui avrebbe fatto seguito il lancio di quel Rinascimento di cartone con cui oggi balocca (e spenna) – con innegabile profitto economico, sia detto – i turisti.

Un destino di rottura che non ha risparmiato le donne. Oltre alla già citata Ortese, la Ramondino, improvvisamente approdata alla narrativa rispetto ai suoi abituali percorsi di solidarietà sociale e politica. Ma poi annegata, è il caso di dire, in una progressiva solitudine e insofferenza per il caos partenopeo che la spinsero verso Itri e la sua tragica fine.

Fughe via dalla città e dalla vita che consentono all’autore di Fantasmi vesuviani di evocare accoratamente la figura di Franco Incoronato “il cui suicidio” – come ha scritto Di Consoli – “nella formazione morale di Piemontese ha probabilmente contato più della militanza politica e giornalistica, e dell’esperienza neoavanguardistica”. Povero e con una vita familiare complicatissima e difficile, cercò a lungo una via d’uscita dal neorealismo sintetizzatasi, nel 1963, in un romanzo (Compriamo bambini) cui non arrise il successo sperato e che contribuì a sprofondarlo in una depressione che gli costò prima la casa di cura e, nel ’67, il suicidio. Una figura alquanto diversa da quelle che, con lui, animarono il fittizio “Gruppo degli scrittori napoletani”: l’esecrato “scrittore per signore” Michele Prisco e il geniale ma incostante Luigi Compagnone, epigrammista folgorante e fautore, per la città, di un “assessorato al pessimismo” ancor oggi necessario. Personalità potentemente egocentriche come, del resto, Domenico Rea, tanto capace di stupire con prove di intensità espressionistica quali Una vampata di rossore quanto di sorprendere con atteggiamenti di infantile esibizionismo e di ossessiva sessualità.

È un mondo, quello evocato da Piemontese, dove si aggirano figure francamente bislacche e grottesche, sebbene capaci di mostrare possibili spiragli di antinapoletanità. Personaggi che si rincorrono tra librerie, gallerie, piccole case editrici, redazioni locali di quotidiani (gustosissima la rievocazione di Piemontese dei matti e dei disadattati che si radunano nelle stanze della redazione napoletana dell’Unità), teatri avanguardistici spesso deserti o visitati da un unico imbarazzato spettatore. Fantasmi tra cui vanno certamente ricordati l’editore Giuseppe Recchia, capace di distruggere il patrimonio “di tre o quattro tra mogli e compagne” e di ridurre “sul lastrico soci benestanti attratti, chissà perché, dal fascino dell’editoria”. Il tenace ed esuberante gallerista Lucio Amelio, personaggio di caratura internazionale, ma dalle discontinue fortune locali, dove alternò successi a cocenti delusioni prima di morire di Aids nel ’94. Il pirotecnico editore-boxeur Tullio Pironti, troppo personaggio per impedire che i suoi libri passassero in secondo piano permettendo, nel contempo, di ingenerare false idee sull’effettiva consistenza delle passioni letterarie a Napoli. Ma si potrebbe parlare ancora del raffinato musicologo De Sio (“un personaggio proustiano”) e delle carovane al seguito di Elsa Marotta, organizzatrice, dopo la morte del marito Alberto, dell’itinerante premio “Libro dell’anno”, tanto originale quanto incongruente.

Gruppi ed esperienze che finirono per partorire qualche personalità alquanto spregiudicata e “rumorosa” come quella di Bonito Oliva, poi approdato alla corte di Bassolino, “pronto a spendere enormi somme di denaro pubblico per far arrivare in città i cascami di ciò che è lecito definire, a questo punto, ‘il grande imbroglio’” che sopirà le capacità critiche di un’intera generazione di intellettuali.

“Non c’è dunque un futuro / non è rimasto niente / solo un brusio che si spegne / solo qualcuno che si pente” chioserà, alla fine, un disperato Franco Cavallo. Siamo al disagio della realtà. E tuttavia, se certo Piemontese ci appare abbastanza smagato da non illudersi su radicali futuri cambiamenti dell’attuale situazione, tuttavia una possibilità di salvezza dal disfacimento ci viene intanto dalla sua memoria e dalla sua scrittura che, mentre rendono il dissolvimento di un’intera stagione intellettuale partenopea, nello stesso momento possono come scongiurarne il definitivo compimento

Written by antoniocelano

marzo 30, 2012 at 8:00 am

Recensione a: Leo Finzi, L’Alhaji. Una storia nigeriana (Gaffi, 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» l’8 febbraio 2012.

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È con l’accoppiata di romanzi L’Alhaji. Una storia nigeriana (2011, 320 pp., 15.00 euro) di
Leo Finzi e I morti non serbano rancore di Nando Vitali che Andrea Carraro, direttore editoriale
della romana Gaffi, imprime alla collana Godot la sua inconfondibile impronta di intellettuale da
tempo interessato alle periferie. Si tratta, infatti, di due storie apparentemente molto diverse, ma
in definitiva dallo sguardo affine, narrate da italiani, ma vissute – non senza una pendolarità più
o meno accentuata con l’Italia – da luoghi geograficamente, storicamente e culturalmente altri,
sempre comunque con l’effetto di relativizzare o straniare le italiche e ombelicali vicende, da
rendere ogni terra reciproca periferia dell’altra.

In L’Alhaji però, lo stile dei fatti narrati prende subito una via diversa da quella carsica di
memorie e visioni tipica di Vitali, per cucire insieme una narrazione distaccata, oggettiva, e tuttavia
mai fredda; un romanzo che è un corso d’acqua percorso al contrario, e che si attarda a risalire
ed esplorare tutti i suoi affluenti: volti e storie che, pur senza raggiungere un qualche genere
di complessiva coralità, tutte partecipano di una comune qualità delle acque. Storie che sono
variazioni a un tema fondamentale, mantenendo nella struttura che man mano si irrobustisce di fatti,
qualcosa che ricorda in qualche modo la narrazione orale.

E tuttavia la scrittura di Finzi è quanto di più lontano da un qualsiasi stile epico o poetico,
unendo efficacemente, invece, la tecnica del reportage, della presa diretta – estesa anche ai fatti
del passato – allo scavo più profondo e oggettivo tipico del documentario. Cogliendo così, sotto
l’attualità del racconto, una violenza più antica e nuda. In un paesaggio (quello del Nord della
Nigeria), anche umano, che fin dalle prime pagine ci investe con un’impressione continua di
elementi, coloniali e indigeni, sovrapposti e mai pienamente risolti, integrati o organici tra loro. Una
Nigeria dove ben presto i nostri stereotipi e le nostre aspettative (anche rispetto alle situazioni e ai
temi narrati) sono destinati a perdere presa, a demistificarsi di fronte a una modernizzazione post-
coloniale e a un intervento dell’uomo che ha aggredito il territorio africano per anni, attraverso una
caotica crescita. Sempre con l’impressione, però, di averne inciso, alla fine, non più di un sottile
strato. Modernizzazione che resta adagiata, precaria nel tempo, sbiadita come una foto, sull’atavico,
indifferente paesaggio del bush interno.

La storia ruota intorno al progetto di costruzione di una diga nel Kaduna, uno degli stati
settentrionali della Repubblica Federale di Nigeria. L’impresa costruttrice italiana invia l’ingegnere
Giorgio Anselmi (ingegnere come, del resto, l’autore del libro), incaricato di superare l’ostacolo dei
permessi, che possono ottenersi solo con il consenso dell’Alhaji, un alto dignitario islamico della
regione senza il quale ogni operazione risulterebbe inutile. Ma il sussiegoso Anselmi – introdotto
dall’italiano Nevio, una sorta di segretario factotum con un passato affascinante e tormentato che
lo lega all’Alhaji – rivela subito una mentalità poco adeguata a comprendere i diversi meccanismi
del potere locale e dell’African Time. Un tempo che sembra avere una natura indipendente da
quello occidentale, intessuto di diplomatiche contrattazioni nella stremante ricerca, reiterata e
rituale, di una reciproca soddisfazione economico-tribale tra le parti. Scambi e dialoghi dalla natura
elusiva, che ogni volta costeggiano il suo oggetto centrale (la figura stessa dell’Alhaij, ad esempio)
per cambiare repentinamente direzione, prendere tempo, tornare indietro per essere lentamente,
nuovamente approcciati e soppesati da un altro punto di vista.

Nulla esiste qui di razionale, nel senso occidentale – meglio, weberiano – del termine, pare
avvertirci Finzi. Tutto sembra preferire un senso che ci è sconosciuto e contrario, impregnato di
quelle acque del Niger che, nascendo a pochi chilometri dalla costa tra Sierra Leone e Guinea, preferiscono incredibilmente voltarle le spalle e dirigersi prima verso il deserto (rischiando l’wadi) per poi dilagare possenti fin quasi alle porte dell’Africa Nera, generando un arco lentissimo di quattromila chilometri che fu un rompicapo anche per gli esploratori occidentali (che lo credettero, per qualche tempo, addirittura un affluente del Nilo). Una forza vitale, biologica, ma più antropologica, sempre capace di sovvertire la debole crosta modernizzante del colonialismo per rivelare, nella sua nudità, la natura più profonda dei legami tribali. O di un potere colto in una sua violenza quasi elementale e insistita. Decodificabile canettianamente, dunque, non tanto nella sua capacità di totale libertà (il potere come volontà assoluta), ma nella sua essenza profonda di legame oscuro (il potere di disporre dell’altro) socialmente organicistico (l’interdipendenza tribale).

È un’Africa tormentata quella di Finzi, come una nevrosi. Che rifiuta e colpisce duro tutto ciò
che, provenendo da altrove, non sa o non vuole rinunciare a se stesso; ma pure, certo anche qui non
senza conseguenze dolorose di scelta, che consente di guardarsi – come a un certo punto Nevio
– “in uno specchio che denuda, verso il quale non si riesce a non volgere lo sguardo” perdendo
irresistibilmente, infine liberati da un fardello che sono i legami passati, la direzione, il senso stesso
del tragitto. Un’Africa dai tramonti troppo repentini – per chi, così, rimane – che sa essere se stessa
e il suo contrario (bellissime quanto scioccanti, le vicende di Nevio nell’altrove della Nigeria del
Sud), e che solo irrimediabilmente tardi, nell’ora delle nostalgie, si lascia riconoscere come un
costringente, insuperabile legame.

Written by antoniocelano

febbraio 8, 2012 at 8:52 am

Lettera per Rosa

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La notizia della tua morte in un incidente d’auto mi raggiunse in un giorno di qualche anno fa. Un giorno come tanti, un giorno che non appunteresti mai sul calendario perché lo stai vivendo come tutti gli altri, in ufficio. Pure, la tua fine, è stata per tutti noi eccessiva come i tuoi momenti di felicità, come le tue ansie, la natura del tuo stesso spirito che era fatto per uscire fuori, costruirsi fuori, con gli altri.

E così, man mano che con mia moglie ci avvicinavamo a Cairo Montenotte, tutto partecipava della tua scomparsa. Le strade si facevano strette, difficili, irrazionali, ricavate in angosciosa scacchiera da grigie abitazioni e sciatte fabbrichette dall’aria dismessa. «Cairo». «Montenotte». Mai ho trovato un accostamento più manicheo, stridente, di elementi geografici. Un’utopia esotica e una sagoma nera, la luce al suo zenit e un buco nero capace di inghiottirla. Un mondo ostile perché assente, da dimenticare solo col lavoro o da accendere trovando un amore capace di ridare un colore, un senso al grigiore architettonico. Poteva aiutarti anche quella tua irresistibile, insopportabile voglia di confusione.

Tu non eri emigrata, eri solo fuggita in uno dei tanti posti sbagliati che potevano sceglierti dopo la tua decisione di trasferirti. Volevi solo avere la possibilità di confrontarti con le persone, rapportarti era la tua misura, oppure anche stordire la vita in mondi altri dove l’arrivo coincide con la massima lontananza dal proprio mondo. Perché, vedi, i nostri paesi non sono adatti a contenere le ansie, i sorrisi e gli spigoli di ragazze come te. Ai nostri paesi non piacciono le increspature: sono pericolose, perché vengono troppo da dentro, si manifestano con spontaneità. Tuttavia, al di là della sopportazione di questo obbligato metro, non eri altro che l’azione del tormento e tu le scarpe strette le avresti sentite dovunque…

Cairo, dicevo, ma anche Cengio, simbolo quanti altri mai di una natura stuprata e avvilita. Tutto partecipava della tua morte, appunto. Passando accanto al Bormida gelato come un movimento rappreso, una lavatrice ferma in mezzo al guado. Mi chiedo chi l’abbia buttata lì, mi chiedo quanto sia spesso il ghiaccio, quanto morta la terra, quanto gelida tu, il tuo viso di cera lievemente ingiallita. Un alito freddo, implacabile, sembra abbia soffiato dappertutto. Una morsa che prende prima alle dita, passiamo buona parte del tempo a battere le mani alla notte e al nulla. Neve dai bagliori vitrei, lividi lampioni al neon, un po’ di ghiaia irregolare sul bordo dell’asfalto calcinato.

Tuo padre si è preoccupato di noi, del nostro alloggio, di tutto. Ci racconta con forza insospettata di te, dei tuoi ultimi saluti, dello schianto… per un attimo penso che gli abbiamo portato solo, come si dice, «fastidio». Ma poi mi accorgo che dentro è solo un fantasma che cerca di distogliere lo sguardo dal baratro, che cerca di non restare una statua di sale, che combatte con il suo essere stato padre. In seguito, stento a riconoscere, per un attimo, tua sorella: mi spiazza, il dolore le ha dipinto la tua maschera in faccia, si aggira con le tue sembianze, ti veste, ti calza, mi impietrisce, mi lascio abbracciare, sarò apparso imbarazzato… Tua madre il giorno dopo ti guarda, ti interpreta, in un secondo ridà alle tue forme irrigidite movimento. Solo una madre può farlo. Come una medium in trance legge le tue ossa gettate alla rinfusa sul tavolo. Dà il responso: «È arrabbiata». Ma in fondo è arrabbiata lei, arrabbiata a morte, perché, insomma, le si sei polverizzata tra le mani scaraventandola a mille chilometri di distanza senza nemmeno lasciarle il tempo di sceglierti un vestito acconcio in armadio, senza nemmeno il tempo di trovare un pensiero meno articolato sulle note del dolore, perché una figlia non può morire così, di punto in bianco, come una telefonata che ti toglie il respiro…

Inizio a prendere appunti sulla tua morte quasi un anno dopo, a Galdo di Lauria, durante una serata danzante di beneficenza, in una situazione apparentemente paradossale. Scrivo su un pezzo di cartoncino durante un’occasione che, penso, non avresti perso se fossi ancora stata qui. A me non piace molto, a te, invece, piaceva ballare, scatenarti, ridere, poi sederti, chiacchierare o scherzare. Ricominciare dopo un sorriso o un momento in cui lo sguardo è rimasto assorto, giochicchiando con una mollica di pane tra le dita. Ti ricordo al mio matrimonio saltare allegramente sulle note di «Siamo i Vatussi», un motivo per te, non ti ci vedevo, infatti, a ballare i «lenti» anche se, poi, avrai ballato anche quelli. Pure, penso con un certo rammarico, che l’unica fotografia che ti scattarono in quell’attimo venne male. L’asta di un telone ti copre gran parte del viso e non aiuta il ricordo. O forse, quella ripresa non è che la metafora della mia incapacità di capirti fino in fondo.

Quel giorno che con le auto salivamo tutti al Sirino per la festa e tu tenevi ostinatamente il viso fuori del finestrino, rischiando di farti sbranare la faccia dai rovi sporgenti sulla via, io come gli altri ti ritenni, al momento, sopra le righe. Con la lontananza sopravvenuta in seguito, non mi hai lasciato la possibilità di raccontarti cosa di te apprezzavo, che è proprio quella tua libertà istintiva, afferrata senza condizioni, che con il tempo mi ha rivelato, come la decantazione di un vino, un mio certo fondo limaccioso di convenzionalità.

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Pubblicato su «Il Sirino».

Written by antoniocelano

febbraio 4, 2012 at 2:11 PM

Pubblicato su Lettera per Rosa

Livorno

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Questo articolo è stato pubblicato sul «Corriere Nazionale» il 1° febbraio 2012.

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Città d’autore – 20

Le facce di Livorno: il tuo punto di vista la fa plebea o nobile

“Ehi, amico, come va?” abborda sorridente il ragazzone di colore sul lungomare di Livorno, calze di spugna, fazzolettini, un po’ di occhiali in mano. “Dé, s’agguanta!” scivola via il cliente, una mano in tasca, l’altra fuori, in un gesto aperto e netto, a un tempo sincero ed elusivo. “S’agguanta”. Che in livornese sta per “si tiene”, “si prova a non cadere”. Io stesso rimango folgorato dalla scena. Col dubbio se il tipo abbia tirato dritto indifferente agli articoli proposti oppure per non dire che in tasca, spicci, niente.

Livorno va così, oggi non la leggi con la solita chiarezza. E tu spulci una statistica e sembra voli, e poi ne leggi un’altra e ti ritrovi giù di almeno dieci posti. Livorno su, Livorno giù. Livorno che gira la testa, un poco da ricovero, da ottavo padiglione, quello dove, una volta, agli “Spedali Riuniti”, ci tenevano i matti.

Livorno mostra i lati secondo come la guardi. Livorno dei servizi, bene, pare, e pure l’inflazione. Salute, forse ottima, ma su un muro, dell’Asl numero 6, si leggeva: “se la conosci la eviti” e già pareva chiaro che qualcuno, scrivendone, ne volesse lasciare l’esperienza. Una certezza, invece, la Livorno del lavoro. Però nera. Diciamolo, che c’è da interpretare? Trentasei abitanti su cento senza occupazione, o giù di lì. Poco consola che il dato è provinciale. Penso a una generazione buttata via, o che andrà via da sola, negata nel diritto a restare dov’è nata, se vuole, e metterci del suo. Certo come altre, nel resto del Paese. Ma che cambia? È una crisi diversa questa. Non è personale, non ombelicale, non riguarda il numero complessivo – che so? – dei divorzi, dello stress, di un disagio non meglio precisato.

E forse si vorrebbe glissare, far finta di non vedere. Aspettare. Aspettare magari che giunga un colpo di Libeccio, il vento teso che qui ti soffia vigoroso in faccia il mare, ma poi netta il cielo dalle nubi e le strade dai fumi e dalle angosce di ogni santo giorno. Le crisi a volte son così: qualcosa le porta, qualcosa le trascina. Però a dicembre anche il vento ha soffiato a burrasca, impetuoso, cattivo. Ha frustato di onde le terrazze e le rotonde, schiaffeggiato di sassi Viale Italia, la strada che segue la costa e scorre il mare. Scatenato, paziente, ha scartocciato facciate, cartavetrato persiane, piegato segnali, danneggiato le auto, accasciato gli scooter, i mezzi per i quali i livornesi nutrono una venerazione tutta loro.

Come il lupo della favola, il Libeccio ha rovesciato i tetti più deboli, fischiato nelle commessure più lasche. Si è introdotto tra i dubbi, tra le indecisioni di questa città allargandoli, fiaccando l’albero di un’identità politica già stanca, lavorando senza sosta nelle crepe tra l’anima tradizionalmente industriale e commerciale e quella delle velleità turistiche, di porta aperta sulla Toscana. Fino a colpire il cuore pulsante che è il porto, con i suoi lavoratori e il suo vasto entroterra, capace di potenzialità infinite, e però mai del tutto bene espresse, se si pensa a cosa fanno certe volte i genovesi in quella loro buffa città fatta di spalti e di scalette che non ci scommetteresti sopra un soldo.

Un vento che ha soffiato cattivo, ricordavo. Anche sulle navi. Quelle più incaute, quelle che fregandosene della prudenza da tenersi intorno all’area protetta attorno alle secche della Meloria, si sono perse, nel mare a burrasca, duecento fusti di rifiuti tossici. Ora da bonificare per bene e in fretta, per non ridurre un bel pezzo di costa labronica a un posto invivibile per uomini e pesci. Guardo il mare, tornato tranquillo, le navi illuminate al largo, di notte, e penso a una nemesi. Cos’altro può essere se il cargo dei veleni si chiama “Venezia”? Qui è il nome del quartiere figlio delle maestranze venete e di Livorno è il nucleo storico, l’ombelico che diede vita, nel Sei- Settecento, alla città. Un gioco di canali, ponti, magazzini, piccole imbarcazioni e attività tra la Fortezza Vecchia e quella Nuova.

Del resto, oggi, come se non bastasse, i nervi cittadini sono scossi anche per l’incredibile incidente accaduto giorni or sono, a pochi metri dall’isola del Giglio. Che poi è Grosseto – e potrebbe interessare meno – ma che è tale da sollecitare invece i ricordi delle fiamme, ora più rugginosi e lividi, del “Moby Prince” nei pressi della costa. Era il 10 aprile 1991, ma è restata una ferita mai rimarginata. Una storia dove, peraltro, a differenza della “Costa Concordia”, tutti i passeggeri si consumarono in un istante. Un fiammifero fregato, bruciato insieme alle responsabilità del disastro. “S’agguanta”, però, si diceva, e qualche volta davvero si dimentica. O ci si prova. Perché Livorno guarda al mare, ma spesso abbassa gli occhi sulla costa. Il che parrebbe uguale, ma non tanto. A volte prendo la piccola funivia, il giocattolo che porta al santuario di Montenero, nel bisogno che mi prende ogni tanto di cogliere la città dall’alto, tutt’intera. Da qui, osservando Livorno alle spalle, l’impressione che la città si ammassi, che corra, anzi, a schiacciarsi sulla costa. Ogni singola casa, frenetica, corre. E tutte assieme, come i Lemming. Tutte di là, a precipizio. Un volo d’auto alla Gassman nella celebre pellicola “Il sorpasso”. Del resto, per quanto spazi, l’occhio del livornese, ben presto s’incaglia in quel volto di donna che è l’isola Gorgona. Oggi un carcere, come una volta Capraia. E, ancora, nel profilo della vicina Elba, o in uno scorcio seghettato che pare salito dal nulla dell’inverno, che è il “dito” che fa la Corsica indicando la Liguria e poi la Francia, ma più malvolentieri.

I labronici sono legati a questa linea di costa, al mistero della sua pietra rosso o giallo ocra, di tela macchiaiola. Un bisogno forte come un approdo se d’estate, la piccola flotta di barche, barchette, gommoni, gozzi e fuori-bordo che la domenica, dopo una muscolare sgassata che alza più acqua di quanta non ne solchi, è raro che si apra al mare largo, preferendo in gruppo ancorare attorno all’antica torre della Meloria. Una piccola Livorno fuori porto.

La costa è sole e aria, soprattutto in inverni miti come questo. Un sole che intenerisce la stizza dell’inverno. Un’aria ottimista, “eterno fior di mare” se anche Carlo Coccioli ne coglieva, insieme alla città, il nesso più profondo: “Oh Livorno Livorno, miracolo di vita, e di saggezza amara. Dipenderà dall’aria, ma, se non l’assassinano, è raro che qui la gente muoia. E chi vive è troppo vivo per non sfiorare, dimenandosi, le soglie della ridente pazzia”. Ma era il ’71. E oggi son tempi più prosaici persino della penna maledetta di Curzio Malaparte. Così, sdraiati sulla spiaggia, si prova a celiare, ma non più di tanto, usando le parole del comico Migone. “Meglio disoccupati a Livorno, che ingegneri a Milano”. E via esorcizzando, ché ormai in gran parte la città s’appoggia alle pensioni, sperando reggano un istante in più della crisi anche quelle.

Insomma, arrostire sulla spiaggia come granchi. Ingrediente importante di quel kit dell’edonismo casereccio, di quell’arte di apparire che a volte ai labronici prende un poco la mano, eccessiva: certe signore tirate, col tacco dodici anche per il mercato rionale; certi maschietti palestrati e stra- vestiti (altrimenti, giuste eccezioni che confermano la regola, inguaribilmente sciatti). E supertatuati dappertutto, manco fossero pirati da Caienna (Livorno è pazza del tattoo). Fino al contrappasso, e al contraccolpo estetico. Eccolo allora, il ”trottatoio” serale sul lungomare, sulla terrazza Mascagni o la Rotonda dell’Ardenza, dove fa fresco e si arieggia tra baracchine e giostre, tra tamerici e lecci. E i turisti, invece, appena scaricati dai traghetti, si aggirano accaldati per Via Grande, i negozi tutti chiusi che è una pena, con la faccia un po’ perplessa, ché gli pare che qualcosa d’importante della vita stia sfuggendo, mentre appena più in là, negli storici bagni cittadini, l’immancabile rito d’elezione della miss si consuma. Come in certi film di Virzì, ma struggenti un poco meno. O forse sì, a guardar meglio, ché apparire un po’ chiassosi, a scordare aiuta.

Lo dico. Livorno non è tutta così. C’è una città diversa, più impegnata, meno esibita. C’è una città che ci dà sotto sodo, che sa stare al pezzo, che sa tenere il punto. E l’associazionismo, un volontariato ancora forti; più in generale un’empatia per l’altro e i suoi bisogni del tutto alternativa ai pisani ghiacci, ai sussieghi fiorentini, al secessionismo contradaiolo dei senesi. Anche se certe volte è come la città insistesse a imporsi prima stereotipa, compiaciuta dei difetti suoi. Invece che fiera, forte, capace, come è la Livorno che meno ti aspetti, che ti sorprende, ma più ha bisogno di essere cercata per mostrarsi. Potenzialità lasciate spesso appese, scoordinate o messe in fuga, eppure dalle quali ripartire se è vero che per scienza, pittura, musica, fotografia, prosa, poesia ha un Novecento di certo molto più moderno, ricco e vivace di tante più blasonate città, anche toscane. Ma “Moneta cattiva scaccia moneta buona”, è l’andante di certi economisti. O almeno, la moneta cattiva, ci prova. E dunque le baracchine sul lungomare casiniste, le vinerie, anzi, i wine- bar (noblesse oblige), della Venezia e della “ribotta” a oltranza, le discussioni etiliche fino alle quattro del mattino. Gli insulti, le minacce da gorilla o qualche breve zuffa o forte bercio. Sarà la primavera, l’estate, il testosterone? Chissà. Ma “vivi-e-lascia-vivere”, poi ti esortano, “è la Movida!”. E a dirti questa cosa provinciale è poi il solito che sulle Ramblas (quelle vere) non ci ha mai messo naso.

“S’agguanta”. Ma allora ci sarà la crisi, o no? no e sì, mi dico, se guardo a certo tenore di vita troppo alto, un po’ sospetto, di una città troppo innamorata del facile guadagno (e della spesa). E sì, poi no, se guardo a tutto il resto, a chi lavora per sé, o per il prossimo. Sulla terrazza giro le spalle al mare. Guardo i bei palazzi d’epoca, le nuove costruzioni spesso stonate col contesto. Rido (e non dovrei) riflettendo che Livorno è stata una delle città più colpite della seconda guerra mondiale. Ma è che ogni volta mi viene in mente la battuta di un amico un po’ pungente, per cui è vero sì – mi dice – ma hanno continuato a bombardarla pure dopo. Torno serio, ricordo le tonnellate di rovine viste in decine di foto d’epoca. Il porto sfatto, la città un buco nel terreno. La fame di case da tirar su in fretta, l’esigenza di costruire quartieri nuovi. Mi chiedo come avranno fatto a ritirarsi su. Però la notte ormai alle spalle, il sole in fronte.

E pure questa crisi di Livorno, penso, più va avanti, più pare un incruento dopoguerra, le case tutte in piedi, ma nient’altro, più o meno. Che solo quattro anni fa era diverso, o quanto meno si tirava a campare. Ma poi che passerà. Che i valori economici importano, che i soldi mordono il sonno e molestano i pensieri, ma lasciano alle volte un buco, un varco, alla città. Guardo un gruppo di ragazzi. Forse amici che si incontrano, si abbracciano e poi ridono. Però non mi consolo. Mi è difficile capire a che punto sia la notte. E oggi proprio non riesco a collocare il sole.

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febbraio 2, 2012 at 8:09 am

Recensione a: Luigi Bernardi, Maddalena e le apocalissi (Senzapatria, 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» il 3 Dicembre 2011.

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È la guerra (anche nella sua versione terroristica) il tema che ispira i tre racconti checompongono l’ultimo libro di Luigi Bernardi, Maddalena e le apocalissi (Senzapatria, 122 pp., 10,00 euro): il conflitto come definitivo naufragio del genere umano. Nessun virus, nessuna caduta catastrofica di corpi astrali, nessuna fine di natura esogena, dunque, come in altre opere dedicate al genere (che pure in Italia sta avendo un suo discreto sviluppo). E nessun irrimediabile, lento esaurimento di risorse energetiche a causa di egoismi rapaci o necessità difficilmente eludibili. Una scelta, invece – quella dell’estensione su un piano epocale, di massa, del primitivo atto di Caino – forse non così casuale per chi, negli anni scorsi, ha battuto le strade del giallo e del noir.

E poi l’amore, la passione rivitalizzante che ingenera, capace di rivelarsi in un legame irrinunciabile, in una gioia della carne in mancanza della quale non può restare che l’esaltata distruzione definitiva o il suicidio (tanto da richiamare alla memoria alcuni aspetti del più sottilmente apocalittico Piattaforma, capolavoro di Michel Houellebecq). Certo nessun personaggio femminile ha nome Eva: impossibile ricominciare alcuna ricostruzione su una terra ferita da così troppo poco tempo. Più opportunamente le tre Maddalena che si muovono nei brevi di Bernardi sono testimoni della passione di Cristo (qui inteso come genere umano), ma pure protagoniste attive di un sentimento, l’amore, esaltante, benché dai risvolti mai rassicuranti, come la guerra.

Così i tre racconti, per un effetto caleidoscopico, si rincorrono sovrapponendo i temi e trasfondendosi l’uno nell’altro, pur mantenendo una certa differenza di ispirazione.

Il primo, «Solo il mare», è quello tra tutti che mantiene lo sguardo meno ruvido e più simbolico. Qui è un uomo che nel bel mezzo della guerra, come descrive con puntualità la presentazione, «gioca alla roulette russa con le bombe che cadono ogni sera attorno a casa sua». Ma ci si deve chiedere se una qualche traccia di distacco e indifferenza del protagonista non fosse già rintracciabile prima del sopraggiungere della catastrofe. Schermo infranto, come tutto il resto, dall’innamoramento che lo costringe a uno scenario altro, subacqueo, da fantascienza (un vero e proprio cambio di stato). Amore capace di trasmutare simbolicamente il protagonista, ricreandolo via dal mondo in una nuova condizione che gli impone di imparare da capo i movimenti, la comunicazione. Come un bimbo. Fino all’intervenire del gioco di vita e di morte che è la sopravvivenza, che impone ritmi di crescita impossibili da mantenere senza riportare danno.

«Il gioco di M.», invece, abbandona l’acqua per mettersi a scherzare con il fuoco. Anche qui si registra, come nel precedente racconto, una sottile angoscia e un abbrutimento che matura nel protagonista nell’attesa della donna, intanto sparita a seguito della richiesta formulatale un po’ per celia, un po’ per provocazione, di regalare «un 11 settembre» per il compleanno dell’uomo. Ma ecco che poi M., tenendo fede alla malaugurata promessa, riemerge in diretta tv durante una partita di calcio per regalare con gratuità e gioia il cadeau in forma di spropositato terrore. Che in definitiva si rivela solo l’ultimo di una serie di omaggi dotati di una loro fascinosa ludicità, priva di ogni ipocrita pretesa di utilità (come, appunto, spesso i regali). Un terribile e distruttivo dono che non potrà che essere follemente contraccambiato dal rigalvanizzato compagno.

«Fuoco sui miei passi», peraltro già proposto singolarmente da Senzapatria (ma nella raccolta, va detto, ha una sua forte coerenza), propone, infine, a ruoli ribaltati, la storia di un angelo cauterizzatore, un pompiere alla rovescia in un mondo a sua volta rovesciato dalla guerra (in cui persino gli ospedali sono diventanti caserme militari), omaggio un po’ al napalm di Apocalipse Now, un po’ alla distopia di Fahrenheit 451 (ma qui si bruciano cadaveri di uomini e animali). Qui la terza Maddalena, amante e complice, resta al fianco del suo eroe per portare a termine il progetto di radere al suolo con l’esplosivo un’intera città ormai in preda al nulla e alla follia, destinata a consumarsi con la stessa fulmineità scoppiettante di un ramo di ginepro (non a caso pure il cognome del comandante di caserma del protagonista). E proprio la donna porterà in salvo, in elicottero, il vendicatore di fuoco, tornando su quella battigia da cui si era partiti con il primo racconto, sul ciglio di una nuova vitalità della natura che, ridotta ai suoi essenziali elementi, come la leggendaria fenice, si scopre alla fine insopprimibile.

Dunque tutto chiaro, o quasi, sulla Maddalena del titolo. E tuttavia, per quanto concerne il concetto di apocalisse, per quanto riguarda i racconti di Bernardi, forse si sarebbe dovuto privilegiarne il significato più popolare di catastrofe, sia pure ultima (ma, come si è visto, con qualche speranza di sopravvivenza), in un senso anche banalmente conoscitivo, visionario: una descrizione dell’apocalisse in terra, un inferno che punisce tutti è che è già fuoco sulla carne, ben prima di un qualsiasi giudizio a venire nell’aldilà (in un filone che ha unito felicemente i Ballard ai McCarthy, tanto per citare due grandi).

Ma si farebbe torto al libro e, forse, all’autore, se non si dicesse che un’apocalisse è sempre meno una profezia che una rivelazione del fine, del disegno con cui Dio agisce nella storia. E a poco vale l’obiezione che il libro di Bernardi abbandoni l’uomo a una violenza priva di senso alcuno, se il dio di ogni libro è, in fondo, l’autore stesso. E Bernardi sarà anche un dio vetero-testamentario, magari compiaciuto del suo fare tabula rasa o francamente provocatorio nella proposizione di soluzioni «peggiorative rispetto al danno». Ma che qui si rivela più di tutto nelle sue idiosincrasie (una società dello spettacolo ormai insopportabile, per giunta accumulatoria ormai oltre il possibile, sclerotizzata, stupidamente classista, cinica, cannibale) così come nelle sue preferenze e simpatie. Come a dire l’uso della guerra, arma terribile ma pure liberante, come l’amore.


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dicembre 3, 2011 at 8:11 PM

Recensione a: Emanuele Ponturo, L’odio. Una storia di amore (Fermento 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» il 26 Ottobre 2011.

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Ci sono storie singolari, che si occultano a un primo sguardo. Ci sono romanzi che, sotto la facilità di scrittura e l’apparente prevedibilità dei percorsi narrativi, rimandano invece a strutture e concetti più complessi. È il caso della favola nera L’odio. Una storia d’amore, dell’esordiente Emanuele Ponturo (Fermento, 120 pp., 13,00 euro). Un titolo che è già una traccia sulla via degli inestricabili legami tra opposti e laceranti sentimenti che animano i suoi adolescenti protagonisti. Meccanismi che l’autore conosce bene esercitando come penalista in processi che riguardano la devianza minorile, traducendoli a volte in storie disincagliate dal tedio delle carte processuali in una Roma periferica, con una sua prosaica vitalità, sebbene oggi forse più anonima.

In un locale notturno della Magliana lavora Monica, studentessa e sognatrice, un amore tradito alle spalle e molta voglia di ricominciare con qualcosa di diverso dagli abbordaggi tutti uguali che si susseguono tra i tavoli e il banco della birra. Un’aspettativa tale che, quando inizia a ricevere lettere lasciatele sotto i bicchieri vuoti – prima poesie, poi conturbanti racconti fiabeschi, frammenti di una vecchia storia dolorosa mescolata a visioni della ragazza – Monica resta subito affascinata e turbata dalla personalità dell’anonimo scrittore.

Dietro le lettere c’è Stefano, un ragazzo tornato nel suo quartiere d’origine dopo un periodo passato all’estero, tra lavori umili e altri poco rassicuranti, a seguito dell’espulsione dalla scuola. Causa ne è (oltre l’insufficiente rendimento, il forte isolamento personale e lo scarso adattamento ai gruppi che frequenta) l’amore ossessivo e assillante per Barbara, la sorella più grande di un suo amico, tra l’altro di livello sociale più elevato. Androgina, occhi da cerbiatta, gatta, provocante ma più volte scostante con Stefano, che spesso deride, Barbara vive un carattere piuttosto strumentale anche con i ragazzi della sua età. Stefano la spia con il suo ragazzo, comincia a nutrire fantasie sostitutive (del fratello di lei) a sfondo incestuoso e paranoico, entra in competizione per attirare la sua attenzione. Fino all’errore di portarla nel cesso dei maschi con un coltello comperato per tagliare il fumo. Scoperti, Barbara non esita per salvarsi ad accusare il ragazzo di averla minacciata sessualmente, poi trasferendosi con l’intera famiglia.

È dunque un cuore indurito, un topo trasformatosi in lupo quello che torna sul luogo dei propri tormenti, con addosso le proprie storie lasciate in sospeso, le allucinazione ancora vive. Ed è in Monica/Barbara, gli stessi capelli raccolti, lo stesso fare scostante verso gli avventori del bar, che inizia a vedere il proprio Cappuccetto rosso da trascinare nel suo ambiente fatto di boschi, in cima ai monti, nel bianco della neve (in un casa che gli ricorda una vacanza trascorsa con Barbara).

Fin qui la storia, a un passo dall’epilogo. E tuttavia, a rendere particolare il libro non può certo essere una morale fiabesca senza lieto fine alla Perrault. Né può pretendere originalità un romanzo rivisitazione di Cappuccetto rosso teso a insegnare «alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n’è dappertutto […] che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere».

Ciò che colpisce, invece, è lo sguardo visionario e delirante. Uno sguardo che non si arresta agli incubi notturni di Stefano, né a quanto delle lettere affascina Monica, ma finisce per dilagare dando un senso altro a tutta la sua storia (ricalcando, ma in senso inverso, le orme che pure seguirono i padri della psicoanalisi Freud, Jung, Fromm ecc.). Ci sono, infatti, colori e riti magici nei sogni del protagonista: il bianco, colore luminoso e dominante in tutta la storia, il verde, il celeste, l’azzurro. Bagliori delle nevi, sfumature dei boschi e delle acque in altura. Qualcosa di panico e sacro. E poi, nei suoi ricordi, ancora montagne, piscine, laghi, piante.

Ci sono favole raccontate nelle sue lettere. Miti. Ed è proprio in uno di questi fogli che ripone la chiave per comprendere un secondo livello, più nascosto, al quale il libro improvvisamente si apre, pur continuando a seguire, in superficie, il suo feroce sviluppo senza sussulti. Infatti, pur non citandole il riferimento preciso, Stefano narra a Monica il mito di Atteone, trasformato in cervo dalla crudele e intangibile Diana e fatto sbranare dai suoi cani per aver guardato la dea nuda intenta a lavarsi a una fonte. E cani, gatti, cervi si nascondono davvero un po’ dappertutto nel testo (come l’aggressivo custode del condominio «Cagnone», psicopompo dalle sembianze umane), così come molte piante (il pino, ad esempio, il dattero), oggetti (palchi sacri, traducibili in regali corone, anelli argentei) e rimandi a divinità orientali: tutti ricollegabili al complesso e selvaggio mito di Diana.

Insomma, è come se per una parte del libro si vivesse nel clima di lucore silvestre profuso dalla dea, nel suo dominio presidiato dalla crudeltà venatoria dell’inconquistabile Barbara, Stefano predatore-preda in un mondo nemico, pieno di forze minacciose. E non è un caso che, paradossalmente, Ponturo narri tutto questo con uno stile che lascia davvero poco spazio alle atmosfere angoscianti tipiche del noir. Pare al contrario ricavare le figure e la storia dalla luce, dal bianco. Un colore chiave del culto di Artemide, virginale, casto eppure vitale, ma anche, come noto, un colore della morte in cui è capace di ribaltarsi improvviso. E dunque se il livello teriologico, in Ponturo, ci rivela uno sguardo francamente etologico sull’uomo e sui rapporti umani (dove anche le fantasie incestuose del protagonista richiamano a una regressione di ciò che Levi-Strauss individuò come il primo confine tra natura e cultura, il primo tentativo di spezzare l’isolamento dal mondo nella creazione di una possibilità sociale), la forza narrativa del mito scopre e dà forma, invece, alla natura ambivalente delle umane emozioni, la latenza di una violenza sottile, sempre potenzialmente in grado di trovare l’oscuro passaggio che lega, in noi e tra noi, l’amore all’odio, la vittima al carnefice.

E del resto la luce, le fantasie incestuose accennate e il ritorno di Stefano nelle vesti del lupo vendicatore sul luogo della sua sconfitta, non fanno che riferirsi, come per Diana, ad antichi miti trapiantatisi saldamente tra le antiche genti del Lazio. In questo caso la fratellanza tra il cervo bianco e il lupo e il gemellaggio tra Diana e Apollo (cui erano consacrati i lupi nel loro ruolo solare). Anche qui non senza che i sentimenti positivi si tramutino in oscuri, in un ambiente dalle forze ribaltate, dove è il lupo a prevalere stavolta nell’ambiente a lui confacente e Diana a soccombere, mentre l’inverno avanza e la natura dorme.

È stato scritto che l’uccisione finale della malcapitata Monica in una incubica casa di montagna (che sembra essere una perfetta anticamera dell’inferno) sia un finale scontato. E può essere (ma in definitiva lo sarebbe stato pure l’happy end). Ma lo stupro di Stefano, lo sfregio della sua sconfitta liberata in una rabbia e una frustrazione sempre a stento contenute, non abbandona la vittima nel buio della casa o nel bosco. Monica muore al mattino; è sepolta nella neve, nel bianco. E se sul piano umano la condanna del fango resta incancellabile, pure c’è qualcosa di catartico nel gesto. Il lupo pare possa avere una possibilità di uscita dal buio della caverna e la neve, che è morte (tutto ciò che è più in alto in Ponturo pare segnalare questa condizione), avere la possibilità di sciogliersi ancora, di tornare a indicare la vita, la luce, una chance di rinascita della coscienza, una rigenerazione. «Il lupo è libero», conclude Ponturo: probabilmente di uccidere ancora, ma forse per la prima volta anche di salvarsi tornando, come nel ciclo delle stagioni, placato l’inverno, dall’odio all’amore.

Written by antoniocelano

ottobre 26, 2011 at 8:24 am

Lettera al Quotidiano della Basilicata

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 10 Ottobre 2011.

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Nuova classe di amministratori per i piccoli comuni lucani

Di recente si sono susseguiti una serie di interventi sull’adeguatezza della politica e della classe dirigente lucana chiamata a innalzare i propri standard di intervento o a chiudere con certo disdoro un ciclo politico, rimettendo in tal maniera ai soliti noti il saldo salato dei costi di una crisi epocale. Dico classe dirigente in senso lato, considerato il clima di ulteriore sfiducia ingenerata nel cittadino lucano da avvenimenti sul genere dello scandalo Fenice, già divenuto il classico ginepraio fatto di omertà, scarichi di responsabilità e incompetenze di cui ogni giorno leggiamo.

Certo, in questo clima, è difficile prevedere se un certo mondo politico riuscirà ad autorigenerarsi (in mancanza d’altro all’orizzonte), come si attende Di Consoli, oppure, come auspica D’Agostino, saprà spiegare, con l’aiuto di un manipolo di impavidi, la tormentina necessaria per navigare il mare tempestoso della crisi (e desistendo, dunque, dalla distribuzione di incarichi a marinai più adatti a noiose e autoreferenziali bonacce portuali).

Però non vorrei, restando in metafora, che tenendo sotto controllo la cattiva circolazione arteriosa del malato, lo si perdesse per non aver badato a quella venosa, magari nel frattempo altrettanto bloccata. Una circolazione, quest’ultima, costruita sugli stretti rapporti tra società, amministrazione e politica in quella che è la Basilicata diffusa e dispersa dei medi e piccoli comuni.

Comuni che ci hanno dato prove di virtù civilmente battagliere, come fu per Scansano nel 2003 e per Rapolla e Melfi fino all’anno successivo. Ma pure contraddizioni socialmente scioccanti, come certi risultati comunali dell’ultimo referendum su nucleare e acqua pubblica o certe acquiescenze rispetto ai guasti ecologici portati dalle trivellazioni. Luci accese, luci spente. È dalla fine delle Guerre Sannitiche che il lucano non sa ancora decidersi per le furie guerriere o per la (troppa) pazienza contadina. E a volte, un mese prima del confronto elettorale, il basilisco si agita come una bambola spiritata, per poi (come se avesse un tasto nascosto) abbandonarsi al sonno fino alla successiva tornata.

Insomma, non si può che auspicare, per usare le parole di D’Agostino, che la tormentina abbiano il coraggio di aprirla anche i lucani. Recuperando, cioè, uno spirito modernamente battagliero di una società altrimenti latitante e l’apertura a un nuovo atteggiamento di vigile attenzione alla dimensione politica. Magari smettendo di pensare che in una situazione nazionale e internazionale come questa ci si possa limitare a lasciare la nave in balìa del mare, vale a dire tirando la quotidiana carretta, tentando di sopravvivere nel proprio piccolo. Invece la politica e l’amministrazione vanno ben scosse. Il voto è necessario, ma non sufficiente.

Ed è la società lucana che deve dire a se stessa, finalmente con verità, se abbia lasciato crescere una classe dirigente locale spesso inadeguata e incompetente purché foraggiasse inconfessati appetiti individualistici e calcoli familistici. Oppure se non sia altrimenti capace di esprimere dal suo interno una qualsiasi nuova dirigenza. E dunque se, nel primo caso, voglia darsi ancora una speranza rispetto alle onde che arrivano ormai a squassare il ponte o, nel secondo caso, alzare le spalle e ascoltare ancora per un poco i musicisti sul Titanic. Io credo che, dopo i dovuti mea culpa, l’asticella la si possa alzare. Penso che la società lucana possa pretendere da sé un po’ meglio, partorendo una classe politica finalmente diversa, che non sia l’area di parcheggio per trombati o incapaci di risolvere la vita altrimenti. È una cosa difficile, richiede del tempo, ma per fortuna non siamo in una sfera di immutabilità antropologica, ma in quella della stortura storica. Dunque emendabile.

E amministrare un comune non è per nulla facile, è noto. Ma vale ancora la pena di mantenere la barra su rapporti socio-politici che sono, nel migliore dei casi, la soddisfazione di un famulo, l’elargizione di una pensione, un pezzo di acquedotto, un lavoro di rifacimento? Altrimenti discariche a cielo aperto, buchi di bilancio paurosi, malversazioni di ogni tipo, giunte nate per continuare a coprire i dissesti di quelle precedenti.

Che questo genere di inadeguatezze, poi, fossero strutturali alla maggioranza della classe politica locale (salvo eccezioni) lo si è paradossalmente capito proprio con quei comuni che, invece, hanno potuto beneficiare di insperati maggiori introiti o possibilità di sviluppo e dove le risorse si sono sovente rivelate superiori alla quantità e alla qualità delle idee.

Va ovviamente compreso perché è stato così. E mi pare che si sia abbandonata troppo decisamente la vecchia, sana abitudine del meridionalismo classico di guardare e giudicare il contesto con strumenti socio-politici, piuttosto che esclusivamente economicistici.

Un’impostazione, quest’ultima che, riducendosi a considerare il Mezzogiorno una variabile dipendente da movimenti e decisioni economiche di natura esclusivamente esterna, contò di conseguenza su un intervento straordinario (fino al ’92) nel tentativo di innescare un qualche ciclo virtuoso di crescita. Invece, oltre agli innegabili risultati – e sapendo che anche ora dagli attuali frangenti la Lucania non può uscirsene da sola – si favorirono pure formidabili anticorpi proprio allo sviluppo infrastrutturale locale, rinforzando il pervertimento e la pervasività della politica nella società e foraggiando un ceto culturalmente povero, specializzato, più che a ben amministrare, ad accompagnare, controllare e gestire il flusso di danaro dal centro alla periferia (ovviamente con flussi diventati gocce). Come scriveva Trigilia: “qui più che altrove i politici hanno goduto di tanto consenso ma di poca legittimazione; hanno avuto cioè un consenso basato sulla capacità di soddisfare continuamente domande particolaristiche più che un consenso fondato su identità allargate e valori condivisi”. Insomma, “non avendo un consenso di tipo ideologico alle spalle, la classe politica locale” a ogni livello “ha usato tali risorse per interventi particolaristici e clientelari”. Tutto ciò con pesanti ricadute sulle comunità locali, rafforzandone, in un quadro di arretratezza economico-culturale, una storica tendenza alla questua, alla richiesta più o meno risolutiva della propria condizione individualistica o familiare (prova ne sia che, sia pure in un quadro di sviluppo debole e con una scarsa fornitura di servizi, il reddito medio e i consumi aumentarono). Ovviamente nell’incapacità comune di società e politica di andare oltre lo stimolo pavloviano, di immaginare mondi più progressivi e vivibili qualitativamente, magari affrontando per tempo i problemi con criterio, interessandosene con coraggio, abbandonando i vincoli costrittivi di comunità ma pure trasformandoli in valori e solidarietà condivisi.

E ora che i nodi inerenti un possibile decentramento amministrativo non si sono sciolti, ma anzi avvitati su se stessi non sostenendo adeguatamente uno sviluppo di forze endogene che promuovano scelte economiche positive? Ora che una crisi internazionale di proporzioni bibliche sottrae fondi e impone tagli dal centro rendendo la casta politica sempre più nervosa, sempre più tentata di rinchiudersi dentro le torri dell’autoreferenzialità e del privilegio? Ora che siamo di fronte a una costrizione della spesa senza rilanci produttivi e dei consumi?

Chi non si sentirebbe i piedi slittare nel vuoto? Tutto vero. Pure si abdicherebbe alla politica se, non si capisse che questa anomala condizione porta con sé anche inaspettate opportunità. E cioè che venga innanzitutto fuori una società locale capace di imporre alla politica uno scatto, ma anche capace di controllarne i passi.

Questo coraggio, oggi, è possibile. Basti guardare, ad esempio, a quegli spezzoni di società civile quali associazioni e movimenti che si sono impegnati a fondo nell’ultima tornata referendaria, molto di più di tanti esponenti e militanti dei tradizionali partiti politici. E, chi era a Grassano giorni fa, mi pare abbia ben registrato, con Di Consoli, l’esigenza profonda di “più società, meno politica”. Il che equivale a dire meno palazzo. Ci sarebbe bisogno, infatti, di una nuova classe di amministratori. Onesti non basta (l’onestà è solo il palleggio). Invece capaci di visioni disinteressate, capaci capire soprattutto i bisogni inespressi di una società, capaci di capire dove portare con passione una terra, di progettarla con rigore in uno sguardo che incateni il quotidiano al disegno complessivo. E poi ci sarebbe bisogno di una società capace di guardare al di là del proprio naso, che non si riduca a sopravvivere individualisticamente, che usi gli strumenti di democrazia per sospendere il voto dato, alla meglio, al meno peggio. Capace di smettere quel grigio ridurre e ridursi alla delega quotidiana in bianco (figlia storica, questa sì, di lunga pratica con poteri anche localmente deresponsabilizzanti).

La visionarietà non è, intendiamoci, fare i ponti di Messina (in Lucania ne abbiamo intere collezioni), ma è certo smettere di pensare che la sommatoria di piccoli passi amministrativi disarticolati possa essere in sé positiva. Sapere dove si va, insomma, oggi dovrebbe essere più importante. Il progetto complessivo (che subordina a sé il programma) è l’unico che possa dire dove chirurgicamente tagliare, dove poter promuovere, dove poter attingere eventuali nuove risorse. Si tratta di avere idee su uno sviluppo finalmente radicato e complessivo. Consultandosi. Cioè uscendo fuori dalle angustie del paesello, mettendo in rete, quella reale dei rapporti socio-politici, gli sforzi (non ci vuole mica Tremonti per leggere, in maniera costrittiva, quella che è la possibilità dei comuni di concertare collettivamente lo sviluppo invece dei tagli smettendola, magari, di azzannarsi anche per un mattone sul confine).

Utopie, si dirà. Ma, in alternativa, l’appiattimento su questo esistente? L’utopia è, l’ho già detto altrove, un carattere normativo della realtà. Una terra verso cui navigare, senza mai approdare o naufragare. Una terra, tuttavia, il cui mare chiede di essere costantemente solcato. Altrimenti, la terra che invece abbiamo sotto i piedi, quella per cui badare concretamente al giorno per giorno, potrebbe definitivamente affondare.

Recensione a: Giacomo Sartori, Cielo nero (Gaffi 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 9 ottobre 2011.

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Si ritaglia come la ribalta di un vecchio teatro d’avanguardia Cielo nero (Gaffi editore 2011, 224 pp., 16,00 euro), ultimo romanzo di Giacomo Sartori: una sedia, un letto, una padellina di alluminio per il thè, una tazza. Poi, solo poi, una stufa da tenere costantemente accesa, a sottolineare un gelo inestinguibile, il grigio dell’ambiente. Il luogo è il carcere veronese degli Scalzi, il tempo l’autunno del ’43: la guerra finita che continua. Nelle celle un pugno di protagonisti della storia del Fascismo in disgrazia. Il più importante è Galeazzo Ciano, prigioniero dopo aver votato contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo il 25 aprile e accusato di alto tradimento.

A perdere, come vorrebbe Giulio Ferroni, anche lo stile. Scabro eppure intenso, drammatico senza che mai si incontrino, lungo le trentadue scene che compongono il libro – fasi salienti tra il 20 ottobre del 1943 e l’11 gennaio del ’44 –, momenti di caduta o di bassa tensione. Un’asciuttezza, tra l’altro, che non può ingannare, se la narrazione poi si scopre ricca di una stratificata complessità, pur nella forzata, claustrale fissità del tempo, che la guerra scarnifica in quel buco nero della sopravvivenza che può essere il presente. E che tuttavia follemente, scompostamente, tenta di ribellarsi a se stesso, nella ricerca di un respiro in più, di un futuro sotto un cielo nero. Sempre suscettibile di accartocciarsi per un nonnulla o per un nonnulla animarsi di risorgenti speranze che immancabilmente rivelano, anche queste e sempre con maggiore durezza e violenza, il lastrico delle illusioni su cui scoprono di dibattersi.

Il romanzo di Giacomo Sartori non può ascriversi, dunque, al genere storico classicamente inteso, fatto com’è di scene e atti spesso non collegati da un filo narrativo diacronicamente rintracciabile, ma che va appunto per quadri. E la verità e la rigorosa documentazione storiche, utilizzate per tratteggiare il contesto e le figure di Ciano e di Edda Mussolini, poi si lasciano contaminare dall’invenzione letteraria, non nella ricostruzione di figure, ma nello sviluppo di personaggi che deve servirsi, come ha dichiarato lo stesso autore, di “intuizione e sensibilità” perché possano prender vita.

Pure, per certi versi, in Sartori lo sguardo profondo dello storico resta. Lo rivela Felicitas Beetz, la giovane spia inviata a carpire, nella sua cella, i segreti dei diari di Ciano da servizi segreti nazisti animati da chissà quali recondite brame di conoscenza, di controllo o diplomatiche. Infine illusioni anche quelle. Ma che ci danno la possibilità di guardare, con l’occhio dei tedeschi, Ciano e i gerarchi italiani. Rivelando al tempo stesso, come sempre in questi casi, molto dei giudicati, ma anche dei giudicanti. In un’osservazione relativa (in una verità relativa) che è tipica dello storiografo, ma anche sempre coinvolta e partecipata del personaggio se è vero che, sotto lo sguardo prima sprezzante di Felicitas, è già in atto la fascinazione, l’innamoramento per l’italiano.

Strana talpa questo personaggio femminile di Sartori che, attraverso il coinvolgimento sentimentale, sollecita la propria memoria, quelle di Ciano e di Edda, rintracciando così la sua e l’altrui dimensione psicologica e sbucando poi in quella collettiva, storica e politica. Una lettura di storie nella Storia o, meglio, la costruzione di una poetica “dell’individuale dentro il collettivo”, come brillantemente l’ha definita Roberto Antolini sul quotidiano “L’Adige”.

Ed ecco dunque Felicitas innamorata di Ciano, innamorata di un uomo “egoista, incostante, infedele, molto vanitoso, sprezzante, dispotico, vendicativo, a volte implacabilmente crudele”. Eccola a contatto con l’irresponsabilità fatta potere e il potere ridotto a esercizio familistico, assente di principi, dimentico del Paese, dimentico delle decisioni – anche gravi – prese il giorno prima, che si rappresenta problemi più grandi di quel che sono, sminuendo invece quelli che non sarebbero assolutamente da sottovalutare. Eccola alle prese con una sorta di codice genetico dell’italica politica, di un carattere nazionale degli italiani di cui tanti storici hanno voluto rintracciare la genesi proprio in un 8 settembre 1943, che è quel vorticoso dissolversi della presunta coscienza nazionale italiana. Caratteri che non evitano, tra l’altro, di muovere anche al ridicolo se il tentato suicidio di Ciano naufraga nella farsa, se il suo sussulto di dignità contro il regime risulta non solo ormai tardivo, ma basato sul calcolo sbagliato di rifugiarsi – come scrisse Indro Montanelli in una delle sue ultime “Stanze” pubblicate sul “Corsera” – proprio presso il suocero e Hitler, contando “sul familismo italiano, il quale ammette che in famiglia ci si tradisca, ma esclude che ci si ammazzi”.

E tuttavia Felicitas è innamorata anche di un uomo che, sorprendentemente, le cambia la prospettiva con cui guardare alla vita proprio nella sua fragilità, nella sua premura, nella sua imperfezione, nell’odore di morte che ormai promana. Anche nel risvolto della medaglia del suo tardivo fare retromarcia di fronte alle scelte del regime. Scelte che lui stesso ha contribuito a prendere, ma poi realizzando che ci si possa essere ingannati rispetto a un ventennio e alla firma di un Patto.

In Galeazzo, Felicitas Beetz ritrova e protegge, a rischio della sua stessa vita, il risorgere della propria tormentata coscienza affettiva e sentimentale, rivalutando infine quei rapporti familiari e interpersonali che l’ideologia ariana ha distorto con i suoi deliri e i suoi rituali di purezza germanica. La figura di Galeazzo si confonde, così, con il riemergere di un doloroso rimosso. Una pena angosciante, quella della Beetz, sepolta sotto il continuo esercizio di autocontrollo impostole alla Lega delle giovani tedesche e conclusosi con l’attiva partecipazione alla costruzione del Leviatano nazista: un primo padre artista (quasi profetico nei suoi disegni bui e scuri), oppositore del regime, morto suicida; l’evanescenza della figura materna; un patrigno dispotico che ne abusa e che viene alla fine scacciato dalla figura di Kurt, il biondo Kurt, che però non esita ad assegnare Dieter, il proprio fratello, al programma di eliminazione per handicappati, prima di morire ligio al richiamo del regime nazista in guerra.

Felicitas ama Ciano anche nella consapevolezza – nell’eventualità di una sua fuga o salvezza – che la dimenticherà come una delle sue tante amanti per correre subito da sua moglie Edda e dai suoi figli, senza il sostegno dei quali nulla sarebbe. Edda che ruggisce, che spera di salvare suo marito contro il volere del padre, ormai non si sa se più schiavo dei tedeschi o del suo stesso psicodramma. E che in questo ruggire s’illude che i diari di Galeazzo possano qualcosa, rappresentandosi una realtà che è completamente solo nella sua testa.

Mai come con il fascismo e il nazismo la realtà di tutti è stata permeata di delirio, di allucinazione, di disumanità. E a questo punto ci pare che la lezione di Sartori sia quella dell’inanità dell’individuo contro i frangenti troppo più grandi che alle volte la storia solleva. E tuttavia, se la storia ruota quasi del tutto intorno alla figura maschile di Ciano, pure ci sembra che la ribalta sia tutta dei disperati personaggi femminili di questa storia, capaci di incarnare un amore passibile, all’occorrenza, anche di definitivo sacrificio. Uniche capaci di accendere un cerino per non maledire del tutto l’oscurità calata sulla speranza di un mondo in guerra, uniche capaci di lasciare ancora un seme sul terreno indurito dal ghiaccio.

E tuttavia Galeazzo Ciano sarà fucilato l’11 gennaio 1944.

Giacomo Sartori, agronomo, vive tra Trento e Parigi. Ha pubblicato racconti e romanzi, tra i quali “Tritolo” e “Anatomia della battaglia”, tutti tradotti in francese. È redattore del blog letterario e culturale Nazione indiana.

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ottobre 10, 2011 at 10:25 am

Recensione a: Roberta Lepri, Il volto oscuro della perfezione (Avagliano 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» l’8 luglio 2011.

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Arte e letteratura con delitto

Sorprendente scrittrice Roberta Lepri, sempre pronta ad affrontare temi attuali e complessi, evitando con piglio sicuro i luoghi comuni e le opinioni preconfezionate di cui solitamente e irrimediabilmente si ritrovano incrostati. Era già successo con il suo La ballata della Mama Nera (Avagliano, 2010), breve romanzo dedicato ai Rom; accade ora con la raccolta di racconti Il volto oscuro della perfezione (Avagliano 2011, pp. 204, 14.90 euro) ispirata a quindici capolavori dell’arte, da Leonardo fino al conclusivo Urlo di Edvard Munch, passando da Michelangiolo a Raffaello, da Giorgione a Tiziano, da Caravaggio a Renoir, da Modigliani a Picasso.

E dunque nessuna apologia degli artisti giocata sul binomio genio-follia con tutto il corollario di depressioni, melanconie, esaltazioni della mente. Nessuna infatuazione elitaristica e romantica per l’arte. Ma una prospettiva ugualmente moderna e affascinante, se l’opera d’arte è una porta sul tempo, una corda tesa e vibrante che unisce il passato al presente e alle volte direttamente ci ammalia con gli occhi coinvolgenti del piccolo della Madonna Litta oppure ci attira e coinvolge con lo sguardo suadente di una modiglianesca Jeanne Hébuterne.

Documentandosi rigorosamente, la scrittrice grossetana interagisce creativamente con le opere che la ispirano. Spalancando le finestre su un mondo fatto di botteghe, lavoranti e committenti, aprendo porte su vicoli stretti e lerci, contadi spopolati e brulli, ricche corti nobiliari, conventi, cantine e musei. Persino entrando nei meccanismi creativi e nelle concezioni filosofiche sottese, ma pure nel fisico provato, ammalato, nel disfacimento della carne. Fino alla piena comprensione degli usi sociali del tempo, fino – l’autrice laureata filologa sulle Rime del Buonarroti – alla misurata ed elegante mimesi linguistica nel dialogo e in certi toni della scrittura sempre ben adattati al secolo affrontato.

Di conseguenza, sulla scorta di quanto indicato dal critico Mauro Papa nella sua prefazione alla raccolta, è anche vero il passaggio inverso, e «poco importa se Michelangelo non avesse mai visto un morente in Maremma» per lasciarsi ispirare a scolpire la Pietà o se Raffaello non fosse stato avvelenato a seguito delle vicende che lo portarono a ritrarre La Fornarina. Perché Roberta Lepri impregna a sua volta il passato e quelle opere non solo della sua partecipazione emotiva, ma anche della sua creatività di scrittrice, dei suoi interessi, soprattutto dei suoi valori. In una parola della sua contemporaneità.

Ecco allora le vicende occorse attorno al dipinto della leonardesca Madonna Litta farsi di colpo moderne nel genere, assumendo tinte fosche e sinistre. E così molti altri episodi macchiarsi di delitti efferati, ma pure di più «prosaici» furti o truffe e, ancora, di suicidi e malesseri, tanto dell’anima quanto della carne, di invidie e irriducibili rancori. Così come una Tempesta del Giorgione può aprire uno squarcio temporale in grado di riscattare, facendone modello per una «natività» fuori dagli schemi, una prostituta albanese. E una ricerca assegnata a una studentessa trasformare quest’ultima in una sorta di detective che, indagando su due rappresentazioni della Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi, si ritrovi a punire con eleganza il piatto maschilismo di un poco chiarissimo professore universitario.

Sempre si rintraccia dunque nel bello artistico di Roberta Lepri una tensione etica, di cui l’autrice sceglie per sé fermamente il versante luminoso pur sapendo e accettando, per gli artisti di cui s’appassiona, l’andante goethiano per il quale «là dove è più forte la luce, l’ombra è più nera». Anche quando ciò dovesse comportare la punizione esemplare di un discepolo capace di mettere sulla tela la vertigine perfetta dell’imperfezione. Punizione di cui appunto resta il dubbio se comminata per l’atroce delitto di cui l’allievo s’è macchiato, o per lo schiaffo subìto dal maestro (Leonardo, in tal caso) colto in un momento di particolare scacco realizzativo delle sue creazioni.

Una tensione, un dialogo verticale e oppositivo mirabilmente esemplificato dalla figura stessa della Maddalena di Tiziano Vecellio, una bellezza «risultato di due inconciliabili opposti nel momento preciso del loro incontro»: povertà e ingegno, semplicità e complicatezza, «i porci e la vetta delle Dolomiti, tutto insieme», la sintesi della vita in punto di morte. Una morte capace di sgorgare da un amore così assoluto, da esaltare e nel contempo ingoiare tutto, come poi insegnerà la vita cannibale o il male di vivere di Modigliani. La morte che rimane, angoscioso rumore di fondo, come Urlo distorto, permanente, di tutta una vita.

Recensione a: Giuseppe Aloe, La logica del desiderio (Giulio Perrone Editore, 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Scritture & Pensieri» il 19 giugno 2011.

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Conquistato e travolto dal fascino di una donna tra desiderio e angoscia

L’ultimo romanzo di Giuseppe Aloe, La logica del desiderio (Giulio Perrone Editore, 2011, 212 pp.), è un’éducation sentimentale sensibile al tempo psicologico e più intimo della voce narrante. Una vita collocata a ridosso di confini geografici e dell’anima ugualmente indefiniti, e perciò continuamente sofferenti di spaesamenti linguistici, cognitivi, affettivi. Scelte confermate dall’uso coinvolto di una narrazione in prima persona, densa e materica, sia pure filtrata attraverso i toni di una memoria dei fatti già decantata.

Il lettore incontra dunque il giovane protagonista, romanziere e filosofo in erba, immerso in un tempo “senza spessore, né profondità”, autosufficiente: letture, scrittura, un rapporto con il padre vedovo mosso appena da naturali confronti generazionali. Pure, ben altro tempo lo aspetta quando l’incontro con la fascinosa Vespa (una donna o una pericolosa malattia dell’anima?), per la prima volta, pungerà la sua carne con il veleno del turbamento e di un desiderio urgente e ossessivo che finisce per corrugare di sé anche la narrazione. Una risacca di onde lunghe, di tempi distanti che ora ripassano incessanti e lenti, sfiorandosi e frangendosi nella memoria. Che è una breve stagione d’estasi subito seguita da un mortificante, mai definitivo abbandono da parte dell’irrequieta amica, dalla presenza disturbante e burrascosa del marito e di altri amanti, dalla morte del padre dopo una penosa malattia che lo spegnerà lentamente. E dunque paura e angoscia e un fardello di morte che è, blochianamente inteso (in uno dei passaggi più alti del romanzo), “salasso della speranza”, sfinimento del desiderio e liberazione di un dolore senza limiti.

Un destino che per vie diverse travolgerà momentaneamente la donna e consumerà la luce del suo giovane amante, almeno fino all’apparizione della purezza e dell’amore di Agneta. Il ritorno a un tempo più lineare, ma pur sempre inquieto di una Vespa sottotraccia, minacciosa della sua ombra che non manca, ancora una volta, di allucinare e quasi di uccidere, questa volta fisicamente, il protagonista in un incidente. Perlomeno fino al riemergere, sotto un cielo nevoso, ovattato, eppure paradossalmente cristallino, della speranza di Agneta. Una nuova nascita o la guarigione da una penosa e logorante malattia se il desiderio – lo si capisce sulla propria pelle – ha per unica logica quella della sua spasmodica, informe illogicità.

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giugno 19, 2011 at 7:10 PM

Recensione a: Pierre-Joseph Proudon, Contro l’Unità d’Italia: articoli scelti (Miraggi, 2010)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Maggio 2011.

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L’Italia federalista di Proudhon

‘Contro l’Unità d’Italia’, scritti del filosofo nel volume curato da Biagini e Carteny

Guardando alle manifestazioni relative ai centocinquanta anni dell’Unità italiana, una cosa è sicura: che in merito, più di aver bisogno di celebrazioni, avremmo avuto bisogno di profonde e prolungate riflessioni. Tuttavia, si sa, ogni commemorazione finisce per risentire del clima e – direi – dello stato di salute intellettuale del momento che, già da un po’ di anni a questa parte, non sta certo giovandosi di tersa aria d’altura. E così abbiamo seguito commemorazioni spesso storicamente piatte e culturalmente asfittiche, ma soprattutto orientate dalle ansie e dalle paure politiche del momento, con il protagonismo della Lega Nord a inibire o distorcere ogni serio dibattito storico su quante lacerazioni la Penisola abbia vissuto al momento della sua unificazione attorno al corpo del vecchio stato sabaudo. E dunque peana a Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele più di uno spot tv. Ma poco, ben poco, su brigantaggio e questione meridionale, sui movimenti autonomisti isolani, o ancora sui contrapposti modelli amministrativi “prefettizio” e “regionalista”. Poco o nulla, insomma, su uno dei delicati passaggi di quel fare gli italiani che è passato attraverso le spinte e le richieste dal basso per la decentralizzazione. Un certo modo di insistere sull’Unità e sui suoi personaggi più popolari che, lungi dal dimostrare la forza di un concetto, rivela semmai con quanta poca convinzione oggi ci si accinga a sostenere un’idea piuttosto bistrattata.

Stante così le cose, non si può che plaudire, allora, al coraggio della casa editrice Miraggi di Torino per aver dato alle stampe – curato da Antonello Biagini e Andrea Carteny (rispettivamente presidente e segretario del Comitato di Roma dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano) – alcuni articoli scelti del francese Pierre-Joseph Proudhon riuniti sotto il titolo “Contro l’Unità d’Italia” (128 pp., 16,00 euro).

I primi due interventi “Mazzini e l’unità italiana” e “Garibaldi e l’unità italiana”, entrambi scritti a Bruxelles rispettivamente il 13 luglio e il 7 settembre 1862, furono raccolti nello stesso anno nel volume “La fédération et l’unité en Italie” (pubblicato a Parigi dal libraio-editore E. Dentu). E tuttavia forse sarebbe stato meglio aggiungere anche il terzo pezzo che confluì nel libro, quel “La presse Belge et l’unité italienne” troppo frettolosamente liquidato come “legato maggiormente a argomentazioni di interesse belga” e del quale, almeno i capitoli centrali, dedicati alla “Question italienne” e alla “Question papale” potevano essere utilmente proposti al lettore. Così come si sarebbe potuta chiarire meglio la scelta di inserire nel volume della casa editrice torinese la lettera al redattore capo del “Messager de Paris” intitolata “Nuove osservazioni sull’unità italiana” e che, scritta il 10 dicembre 1864, costituisce con “Del principio federativo” del 1863 uno dei risultati più maturi della riflessione del rivoluzionario francese.

Ma l’interesse per il volumetto pubblicato dalla casa editrice torinese resta altrove. Innanzitutto nello spiegarci che, ben prima del ’48 e almeno fino al ’61, per la maggior parte dell’opinione pubblica italiana (dai nobili al clero, dall’alta borghesia fino ai ceti medi e piccolo borghesi) la soluzione per l’unificazione fosse eminentemente federalista (o confederalista) e non centralista, come poi ebbe però modo di realizzarsi. Avevano operato a lungo nella formazione di quella opzione dapprima il pensiero neoguelfo e liberale giobertiano e poi la pragmatica concezione delle “piccole patrie” di Cattaneo, non senza che si passasse attraverso pensatori quali Cesare Balbo, Durando, Montanelli, Ferrari ecc. Non a caso nell’agenda politica di quei tempi l’ordine del giorno era una nuova “lega italica” possibile alla luce delle unioni doganali già realizzatesi tra stato Pontificio, granducato di Toscana e regno Sabaudo. Tanto che lo stesso trattato di Plombières, sottoscritto da Cavour e da Napoleone III, aveva previsto l’unione dell’Italia costruita su quattro stati: un’Alta Italia sabauda, un’Italia centrale, il Lazio pontificio, il Regno delle Due Sicilie (un escamotage che avrebbe dovuto, tra l’altro, nei progetti dell’imperatore, facilitare la solita assegnazione familistico-nobiliare delle corone, così pure per indebolire la crescita di un altro possibile stato antagonista ai confini della Francia).

Lasciava propendere per un’unificazione su base federalista anche la struttura geografica e politica dell’Italia, con la presenza di una miriade di comuni e di città accesi della loro autonomia. Spiega Proudhon – peraltro ben ispirato sull’Italia dal fedele amico Ferrari – “chi dice impero in Italia dice protettorato… un potere che la protegge e non la comanda… Ma più gli italiani sentono il bisogno di questo protettorato, più ne diffidano, sapendo perfettamente che, in politica, colui che protegge è il padrone”. E più avanti, riguardando acutamente alla storia: “l’Italia è in perenne antitesi con l’unità; essa contrappone senza posa impero, monarchia e papato nell’interesse delle sue franchigie, e cerca… in questo eterno antagonismo, una sintesi impossibile. Più di ogni altra cosa, l’Italia tiene alle sue libertà regionali e municipali: essa è federalista e non lo nasconde”. Un tratto caratteriale positivo – salvare la propria autonomia giocando sulle frizioni tra papato e impero sempre coinvolgendoli ed eludendoli a un tempo – in seguito pervertitosi, proprio grazie alla burocratizzazione dello stato unitario, nei mille malfunzionanti localismi odierni.

Il federalismo di Proudhon era di matrice socialista, mutualista e tendente il più possibile a dividere i poteri dello stato. Per il francese l’unità su base nazionale, ponendo un problema politico accentratore, nascondeva in verità “che ciò che costituisce la patria è il diritto, assai più che gli accidenti del suolo e la varietà delle razze” invece agitati dai “finti democratici” per evitare di guardare ai gravi problemi sociali del loro tempo. “In tali condizioni”, scrivono Biagini e Carteny, dopo il crollo dell’anello debole costituito dal regno borbonico “la stabilizzazione non poteva non realizzarsi attraverso la ‘conquista regia’ e l’annessione al Regno di Sardegna: il Regno d’Italia… era giuridicamente un ampliamento del Regno di Sardegna”. Dunque senza alcuna spinta emancipatrice popolare dal basso (le masse diseredate, la stragrande maggioranza degli italiani, non avevano quasi contezza del concetto di “Italia”. È noto che, quando gli insegnanti piemontesi furono trasferiti in Sicilia per l’educazione all’Italia delle nuove generazioni, vennero scambiati per inglesi), l’unità si sarebbe rivelata presto un giochetto “bancocratico” e autoritario fatto dai borghesi per favorire i borghesi.

È dunque anche su questo ultimo punto che si consuma lo scontro con Mazzini, Garibaldi e la loro impazienza rivoluzionaria per la mancata annessione al giovane regno di Venezia e di Roma (e che porterà all’episodio di Aspromonte). Appare insomma chiaro, dopo il sussiegoso ritiro dell’appoggio di Mazzini a Vittorio Emanuele a causa di ciò, il tentativo del primo di non perdere la faccia dopo le patenti compromissioni con la corona sabauda (sorretta in guerra, per giunta, contrariamente al credo mazziniano, da armi straniere e, per giunta, filo-papali). Con un inasprimento rivoluzionario di facciata dimentico del pressante problema di organizzazione dei ventidue milioni di italiani già inglobati nel regno, così mortificando e subordinando di fatto la realizzazione rivoluzionaria della repubblica al disegno conservatore dell’unità sabauda.

Un’impazienza che avrebbe travolto anche Garibaldi sull’Aspromonte, un Garibaldi verso cui comunque Proudhon nutrì certamente più rispetto: “Un mese fa Garibaldi era la più grande e nobile personalità d’Italia; cosa resta di lui ora? Cosa resta del suo partito? Pallavicini ha dimostrato… che se Vittorio Emanuele lo voleva, ne era padrone. In tutta questa vicenda un solo uomo è rimasto in piedi, Mazzini, colui che ha preparato l’impresa, che non ha contribuito in nulla alla sua realizzazione e che ha ancora il coraggio di lamentarsi dell’inettitudine di Garibaldi. Povero Garibaldi!”.

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Tanto sfortunato quanto tenace

Senza libri né dizionario è l’unico allievo a seguire le lezioni scalzo

“È la prima volta che vedo il mirabile polemista. La testa di questo Franco-Conteo mi ha vivamente colpito. La fronte è magnifica, l’occhio cristallino e profondo, ma duro. L’insieme della fisionomia ha qualcosa di brutale e di astuto al tempo stesso. Egli ha prodotto su di me un’impressione imponente e sgradevole che non è stata attenuata dalla sua parola rapida, rauca e tagliente. Mi pare che ci voglia del tempo per abituarvisi e per nutrire simpatia per lui”. Questo il ritratto di Proudhon lasciatoci dalla penna del futuro comunardo Gustave Lefrançais. Un volto dai tratti sussiegosi e tenaci, forgiatisi nelle ristrettezze e nelle prostrazioni della Francia post- napoleonica; tratti tuttavia sempre accesi di un’intelligenza potente, penetrante, avida fino al limite dell’ingordigia.

Un volto della storia e del mito, quello di Pierre-Joseph: eletto deputato dopo i moti rivoluzionari del ’48 (ma ne è subito deluso); fondatore di una “banca del popolo” con denaro imprestato senza lucro, poi fallita; condannato più volte per gli attacchi a Luigi Napoleone di cui subito comprende, nonostante alcune ambiguità, le mire che lo porteranno a farsi proclamare imperatore di Francia; instancabile redattore di giornali politici; scrittore caustico, abilissimo polemista, autore, nel 1840, di una delle opere fondamentali del socialismo, quel “Che cos’è la proprietà?” opera scandalosa come quante altre mai nella sua tesi di fondo (“è un furto”), denunciata da un liberalismo vincente, ma incapace di ogni riforma sociale. Della classe sociale che lo incarna Proudhon, infatti, non s’illude: per la sua “medietà” la borghesia non ha uno spirito di governo, cerca nel sistema costituzionale solo maggiori garanzie conservatrici, ma all’occorrenza resta pronta ad aggrapparsi a un qualsiasi “salvatore per ristabilire l’ordine, ovvero l’ineguaglianza che le è necessaria”.

Insomma, Proudhon, chi era costui? Pierre-Joseph nasce nel 1809 in un quartiere popolare di Besançon, quinto figlio del vignaiolo e bottaio Claude-François, uomo di rigida onestà, che non manca di rovinarsi rifiutandosi di lucrare sul prezzo dei prodotti della sua birreria. La madre, Cathérine Simonin, è invece donna energica, di grande fierezza, figlia di un popolano sempre in rivolta contro le angherie dei signorotti locali. Il piccolo Proudhon è presto consegnato ai lavori rustici e al pascolo delle vacche a Doubs, venti chilometri lontano da casa, dalla nonna.

Mai stato fortunato Proudhon, anche a dispetto della sua erculea forza di volontà. Nel ’42, pur di poter conversare con il suo amico Bergmann, percorre a piedi 80 leghe (una lega di posta corrisponde a circa quattro dei nostri chilometri) solo per scoprire che dal giorno prima non è più nella città dove lo cerca. Ma le avversità lo sferzano ben prima. Già nel 1820 entra, grazie a un amico di famiglia, nel collegio della città natale, diventandone uno dei migliori allievi. Scrive di quegli anni: “Mancavo abitualmente dei libri più necessari; feci tutti i miei studi di latino senza un dizionario; dopo aver tradotto in latino tutto ciò che mi forniva la memoria lasciavo in bianco le parole che mi erano sconosciute e riempivo poi i vuoti alla porta del collegio” imprestandosi i libri. È l’unico allievo a seguire le lezioni scalzo, dopo aver lasciato i pesanti zoccoli di legno alla porta, perché fanno eccessivo rumore. Ma la fortuna – se possiamo chiamarla così – gira presto e nel 1827 deve abbandonare gli studi per le solite difficoltà economiche, impiegandosi come correttore e compositore di bozze. Più avanti gli muoiono un fratello nell’esercito (misteriosamente, ma forse a seguito della scoperta di una malversazione di un suo superiore) e la figlia prediletta Marcelle, di colera. Di quest’ultima sciagura scrive lapidario in una lettera del 1854: “È così che la sorte punisce le nostre vanità”.

Legge di tutto accanto agli estratti rimastigli delle opere regalategli dal collegio, che è stato costretto a vendere tra le lacrime della madre. Nulla pare piegarlo. Quasi medianicamente ispirato (“Non sono padrone della mia parola, il mio stile ha qualcosa di strano che disorienta i lettori, sono lo strumento di una forza oscura e tirannica che non posso né contenere né regolare”) trova modo di imparare l’ebraico semplicemente correggendo un testo con traduzione, studia la teologia, la linguistica, vive acutamente i fatti economici e politici del suo tempo, legge l’utopista Fourier. Ben presto si scopre ateo. E socialista.

Eppure, nel 1865, anno della sua morte, Proudhon pare aver perso ogni sua battaglia. Del suo progetto di prestito senza interessi agli operai s’è detto. Con Marx, che ne oscura la stella, non segue miglior fortuna. Dopo l’iniziale amicizia, tutto li divide: la dialettica (per Proudhon resta un sistema aperto, antinomico, senza “sintesi” finale), il concetto di proprietà (Proudhon, almeno in un primo momento, elimina la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma non elimina la proprietà «di fatto», quella che chiama «possesso»), quello di plusvalore, la funzione storica dello stato (le implicazioni anarchiche del suo pensiero saranno sviluppate in seguito dal russo Bakunin). Li separano persino le reciproche ingenerosità. Non basta. Convinto federalista, Proudhon vede realizzarsi sotto i suoi occhi il sogno unitario-annessionista dell’Italia. Spesso, come per la questione belga, è ampiamente frainteso. Nel ’64 scrive con amarezza: “Ho la testa debole, il corpo colpito, il petto come una piaga, la bocca bavosa, il cuore pieno di amarezza. Non mi resta che l’affetto degli amici, senza il quale chiederei di morire”. Si spegne un anno dopo.

Ma – vendetta? ultima beffa della sorte? – tutta la fortuna di Proudhon è postuma. O quasi. Perché i suoi contemporanei già lo conoscono, per nulla a torto, come il “Grande presbite”. Predice con molto anticipo, s’è visto, la parabola di Luigi Napoleone. Nell’Unità italiana individua con precisione le debolezze costitutive che ne metteranno diverse volte in difficoltà il processo evolutivo. Nel 1840, circa ottanta anni prima della rivoluzione bolscevica, ha già denunciato il possibile carattere regressivo del comunismo. Scrive nel 1846 con lucidità impressionante: “Dopo aver soppresso tutte le volontà individuali, il comunismo le concentra tutte in una individualità suprema, che esprime il pensiero collettivo… Così, per il semplice sviluppo dell’idea, si è inevitabilmente portati a concludere che l’ideale del comunismo è l’assolutismo. E vanamente si potrebbe prendere come scusa che questo assolutismo sarà transitorio: se una cosa è necessaria un solo istante, essa lo diventa per sempre, la transizione è eterna”.

Pensieri che, fuori dagli ambienti libertari, iniziano a riprendere terreno, in Italia, a qualche anno dalla rivolta di Ungheria, grazie a Franco Ferrarotti. Nel 1978 è Bettino Craxi a servirsene per il suo “Nuovo corso” in un documento pubblicato su ”L’Espresso” con cui inizia la manovra di attacco al centralismo democratico del PCI. Seguirà, un anno dopo, una più articolata dissertazione di Luciano Pellicani nell’introduzione al proudhoniano “Del principio federativo”, non a caso edito a cura delle edizioni Avanti!

Ma già nei primi Ottanta, gli anni della “Milano da bere”, dei contenuti propositivi della svolta craxiana-libertaria rimane ben poco: non il coinvolgimento delle classi lavoratrici nei processi decisionali, non “la diffusione del potere”, non “la distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita”. E del resto, sulla “socializzazione dei valori della civiltà liberale”, su cui Craxi finirà per avvitarsi, Proudhon ha già posto la sua pietra tombale. Il francese fa accapponare la pelle più di una centuria di Nostradamus quando mette altrettanto in guardia da una civiltà e da “un’esistenza piena fino all’orlo di delizie, ma la cui aridità non lascerebbe più spazio ai sentimenti.

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Lettera al Direttore Paride Leporace sulla lettura in Basilicata

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Maggio 2011.

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Caro Paride,

come ben sai lavoro in editoria da un po’ e, sia pure con un poco di ritardo e dopo qualche esitazione, non mi dispiace confrontarmi con l’indignato garbo della Signora Rosaria Scaraia sul “Quotidiano” di qualche giorno fa. Benché, sia bene inteso, l’argomento – la lettura dei libri in Basilicata, regione fanalino di coda in questo genere di maggiore o minor amena attività –, io lo affronti ormai solo con l’ottimismo della volontà, ché la ragione ha qui già da tempo buttato la spugna.

Dunque, riassumendo velocemente: per la Scaraia lascerebbe l’amaro in bocca scoprire che “i dati contenuti nel report pubblicato dall’Istat rivelano che l’anno scorso solo un lucano su tre” ha letto un libro “per il piacere di farlo (e non per ragioni di studio)”. E sconcertante “scoprire che, due famiglie su dieci, di libri in casa non ne hanno neppure uno”. Ed è la realtà, non discuto. Soprattutto a fronte del legame tra istruzione e reddito medio territoriale che la Scaraia individua come ragione di uno specifico ritardo locale sul tema.

Però a questo punto, io mi chiedo: è davvero una specificità quella lucana o in Lucania è solo più approfondito un abisso comune? E non dico di fronte ad altre regioni meridionali, ma pure rispetto a quelle con più alto reddito. Insomma il meccanismo istruzione/reddito si rivela davvero così meccanico? Ho i miei dubbi. Non lo affermo ovviamente perché la Lucania possa così trovare un’utile foglia di fico (non so quanto larga, del resto) alle sue “insopportabili” mancanze (che restano dunque mancanze da emendare), quanto perché il declino della cultura del libro in Italia è generale. Certo più marcato al Sud, ma comunque assai diffuso. Perché il problema non è solo nell’analisi quantitativa del dato, cioè il rapporto spesa/libro, ma va oltre, fin nel suo vero nocciolo malato, cioè il rapporto libro/lettura.

Signora Scaraia, se lo lasci dire da uno che vive le magnifiche sorti e progressive della civile e avanzata Toscana, che si fa le fiere letterarie e librarie a Roma, a Torino, a Pisa e altrove. La gente che gira interessata (intendo il lettore medio) poi è sempre la stessa. Una minoranza importante per la sopravvivenza del libro, ma spesso pure ombelicale, autoreferenziale, e di cui ho imparato anche a diffidare, perché spesso si incaponisce a leggere libri alla “Firmino” e ad autorassicurarsi che “leggere è bello” e che “il libro non finirà mai” in saecula saeculorum. Invece, faccia la prova: se regala a un compleanno un libro (non solo a un giovane e se non già bulimico lettore) il festeggiato la guarderà quasi sempre con stampato sulla faccia un mal dissimulato “ecchene n’antro!” dove per altro dovrà necessariamente intendere “lo sfigato di turno”. Figuriamoci sostituire o accompagnare con un bel volume la “busta” da consegnare a una felice coppia di nuziandi: apriti cielo! e giù familistica riprovazione fino alla settima generazione!

La verità è, invece, opposta, ché in Italia, mica solo a Potenza e Matera (anche se ci ingegniamo sempre a fare peggio), si è consumato ormai storicamente il distacco definitivo tra produzione di benessere e produzione di cultura. Ma ce lo vede “il modello vincente” Briatore a pubblicizzare la lettura?

E poi, anche se così fosse? Le case dei lucani, come del resto dei meridionali, sono piene di libri e enciclopedie vendute negli anni ´60-´70 dai commessi della Fabbri, della Laterza ecc., e comperati in un momento in cui oltre alle pentole e agli aspirapolvere c’era una minima capacità di spesa anche per un po’ di carta stampata. Certo, non c’era la volontà di leggere in chi s’era appena elevato economicamente al rango di piccolo-borghese inurbato, però forse c’era la speranza che i figli potessero farlo in vece loro prima o poi. Che calcolo sbagliato! Ché invece i figli se ne sono andati e per loro, per i genitori del “Boom”, non poteva che finire com’era iniziata, perché in Italia la Lettura è sempre stata scritta con la L maiuscola, come la Cultura con la C grande, ammettendo già con questo tra le righe che trattavasi di roba maneggiata dai galantuomini per fottere il prossimo oppure attività dal significato oscuro e di nessun interesse. E dunque, certo in non tutti i casi, considerato il modello così alto (LA CULTURA) doveva finire così: che i Libri potevano continuare a farsi le cose loro (arredo e status) nei soggiorni buoni e, di lì, a sviluppare muffe. E, del resto, i tardi lettori in erba iniziato poi lo “sboom”… ma sì, chi tiene tempo?

Non parliamo del contributo della scuola d’antan: un romanzo, una poesia? roba buona per riassumere o per mandarla a memoria a forza di girare attorno a un tavolo fino a sfinimento (ricordiamo ancora i “Riassumi!”, i “Tema!”, i “Ripeti!: La Vispa Teresa avea tra l’erbetta…”, degli scolastici sketch stralunati e non-sense di Cochi e Renato?). Come non disamorarsi e averci sulle balle Carducci, Manzoni e Omero e poi, per riproduzione di spiacevole sensazione introiettata, evitare la lettura autonoma di un Pagliarani, di un Pirandello, Svevo, Moravia, Patti?… Ma se io, per aver citato Pasolini, beccai uno dei miei più memorabili cinque in un compito scritto di italiano con professoressa che tra un sonno e una “Corona” di Rosario, vecchia com’era, ricordava pure con orripilata indignazione di aver fatto scuola con il sovversivo Riviello?

Certo non tutto è perduto, ad esempio, se si pensa all’aumentato numero di lettrici in Italia. Ma soprattutto se ci si darà da fare ancora e meglio. Però i coupon da spendere in libri, da soli, sono come l’alfabetizzazione informatica in Basilicata: non basta cioè comperare i computer a tutti, anche al contadino o al sessantenne, perché questo, in un momento, metta a frutto le potenzialità dell’ordigno. E le potenzialità sono oggi già di più se, proprio grazie al collegamento Internet, posso essere messo in grado di comprare quel libro che la totale mancanza di una rete di librerie sul territorio mi impedisce.

Parliamoci chiaro, Signora Scaraia, in realtà non le sarà sembrato, ma io sono con lei: io non leggo solo i dati Istat, ma pure quelli AIE (Associazione Italiana Editori) e le dico che, secondo me, la nostra generazione è quasi del tutto perduta alla lettura e, per certi versi, alla cultura. Pensi solo quanto sia arretrato il nostro italico e romantico “vissi d’arte” usato da tutti gli scrittori (migliaia) che inondano le case editrici di manoscritti (migliaia) senza nemmeno aver letto due libri in vita loro.

I forti investimenti che la Regione e le Province devono fare (ma ci vogliono dei bei “dindini” Signora, come si dice in Toscana) sono per la fascia di lettori oggi più diffusa e potenziale: i preadolescenti e gli adolescenti (e oggi son pure pochi e dunque che si investa e poche chiacchiere!). E devono essere investimenti tesi mica solo a favorire l’acquisto dei libri: ben altre idee creative ci vogliono, ben altre sfide per i nostri locali politici, ben altri circoli virtuosi tra istruzione scolastica sostenuta per l’obiettivo libro, lettura dei giornali, visite alle fiere, uso di internet, piccoli corsi su cos’è un libro e come si legge, premi per i più piccoli, incontro con gli scrittori, ecc. Si ha bisogno, insomma, di quello che si potrebbe denominare la “creazione di un sistema lettura” sollecitando tra i giovani un interesse che poi, la fascia generazionale investita, avanzando d’età, potrà lasciare come speranza alla generazione successiva (creando dunque anche qui un circolo virtuoso) prima che ogni interesse si spenga. Non a caso è assodato che ci siano più possibilità che scatti l’interesse per la lettura nel bambino che a casa vede leggere. Sottolineo: non il bambino che contempla libri-soprammobile e tendenzialmente intoccabili (“ché si sciupano!”), ma che vede leggere attivamente un quotidiano, un libro ecc. Infatti qui non si tratta solo di acquistare un libro, ma di giungere alla consapevolezza che il libro è o uno strumento tecnico per imparare (non solo a scuola) oppure un modo (parlo di romanzi e poesia) per accedere a una qualche notizia del mondo, a un’esperienza di vita, a una nuova e più fresca visione delle cose che possa rinnovarci, renderci più ricchi, più aperti, meno provinciali. E ciò vale per la carta o l’e-reader che dir si voglia.

Ho parlato poco prima di speranza che si possa recuperare una generazione alla lettura: perché un interesse non si sa mai se, perché e quando possa o meno scattare (è nota di Pennac, ad esempio, la non gloriosa carriera scolastica), ma questo non deve esimerci dall’attivarci per tentare ogni strada con l’obiettivo di favorire alla lettura, alla cultura, un contesto più propulsivo, altro, alternativo all’egemonia della società dello spettacolo in cui siamo immersi fino al collo.

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Maggio 30, 2011 at 8:22 am

Altre scritture (a cura di Luigia Sorrentino)

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Ringrazio Luigia Sorrentino per lo spazio che mi ha concesso sul suo blog Poesia – RaiNews24.

Antonio Celano
a cura di Luigia Sorrentino

«Sono nato nel 1966 in una zona rurale della Basilicata, dalla bellezza scabra, periferica. Ricordo che d’estate, quando tutti avevano preso l’abitudine di riversarsi al mare sulle spiagge della vicina Calabria, a me piaceva fare la strada inversa. Andavo in campagna: mio nonno mi portava a pascolare le vacche, mia nonna si assopiva tardi accanto al fuoco col lavoro in mano. Ne amavo le acque correnti, i pioppi e i vincastri, il sapore dei gelsi e dei fichi. Ascoltavo la notte gli insetti far gemere il legno della scala che portava in soffitta, il soffio delle froge nella stalla di sotto, mentre i cani abbaiavano al buio accecante. [Leggi il resto]

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Maggio 21, 2011 at 7:46 am

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Appuntamenti: Salone del Libro di Torino 2011

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Nei giorni 14 e 15 maggio sarò al Lingotto in occasione del XXIV Salone internazionale del libro.

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Maggio 7, 2011 at 10:48 am

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P: Polistes dominulus

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«Ti spiego. Io stavo già scrivendo la tesi, però venivo qui dalla Specola ad aiutare questo collega che stava iniziando alcune osservazioni su episodi di homing in una comunità di Polistes dominulus. Vespe, insomma. Sarà stato nell’Ottantacinque, credo. Qui non era come adesso: i capannoni industriali erano davvero pochi, tutt’intorno c’era spazio libero. Prati, insomma. Spesso si andava anche più in là, verso Focognano.

Come si preparava l’esperimento? si catturava un nido e si collocava sul soffitto di una cassettina alta e lunga una quindicina di centimetri, più o meno, e posta su un sostegno. Un palo metallico, insomma. All’inizio, per tenere attive queste Polistes, oltre a un po’ d’acqua si usavano larve di tenebrionidi, in particolar modo di Tenebrio molitor, e si lasciavano ambientare per qualche giorno in zona.

Poi, l’esperimento entrava nel vivo. Si prelevavano singole vespe e le si tracciava sul dorso un punto colorato, sempre diverso, con un pennarello indelebile. Di quelli buoni per il modellismo, insomma. Poi si mettevano in queste piccole provette di vetro, tenendole orientate verso il nido e si iniziava a correre all’indietro, sempre tenendole orientate verso la cassettina, in maniera che le Polistes potessero mantenersi in contatto visivo col nido. Si aprivano le provette a varie distanze e si osservavano i tempi e le diverse modalità di ritorno delle vespe. Il lavoro era scrupoloso, ma era anche divertente.

Ovviamente, per raccogliere osservazioni scientificamente valide, bisognava ripetere l’esperimento in condizioni di clima, di luce e di vento costantemente variate. L’entomologia non è solo scienza per laboratori, insomma. Era tutto un correre: alle sette del mattino, con il sole, a sera avanzata, con il cielo coperto, a favore di vento, a cinquanta, cento, centocinquanta metri di distanza eccetera. Il fine era raccogliere e organizzare le osservazioni sul comportamento sociale di questi imenotteri polistini.

E mi ricordo… sì, mi ricordo che accanto a dove noi conducevamo gli esperimenti c’era questa donnina piuttosto cadente, una pena – guarda – che aspettava sempre seduta su una sedia vicino a una siepe. Mentre noi facevamo tutte queste corse, questa si prendeva ogni camionista, ogni passante, ogni persona che passava di là, insomma, e se li portava dietro la siepe. E mentre noi ci affannavamo di qua, loro sospiravano di là e certe volte, sì, insomma, berciavano anche un po’ e pensavo chissà se passa ora qualcuno e ci vede… qua ci prendono tutti per pazzi fuggiti. Meno male che di vespe là non ne sono mai sciamate. Però la donnina ci seguiva interessata – guarda – anche maliziosetta. Una volta che m’ero avvicinata un po’, l’ho sentita canticchiare: «Zon zon… ti porto i baci del fiore a te fedeleee, Zon zon… dammi il tuo mieleee. Dice che tu gli piaci e che piacerti spera, Zon zon, dammi la ceraaa…» e mi prendeva in giro con un gesto pesante della mano e il sorriso indecente rivolto al collega. Allora anche lui, ogni volta che l’avvistava, faceva l’ironico: «Occhio e lavora, che oggi controlla l’ape regina!».

Qui ora non faccio più ricerca. Non vengo per quello, insomma. Mi occupo di risorse umane per un’azienda tedesca che noleggia cassette in plastica per la frutta. Sai quelle da mercato, di plastica colorata… quando le recuperiamo, alla fine del ciclo, si stoccano, si lavano e si sterilizzano con procedimenti particolari, tipo la fumigazione dei container che importano dall’estero. Restare all’Università era un casino. Ho dovuto scegliere, insomma».

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Maggio 7, 2011 at 10:38 am

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Recensione a: Franco Arminio, Oratorio bizantino (Ediesse 2011)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 03 Aprile 2011.

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Tra passione e lirismo civile la resa del Sud alla globalizzazione

Dopo i paesologico-meteorologici Vento forte tra Lacedonia e Candela e Nevica e ho le prove, non abbiamo fatto in tempo a lasciare Franco Arminio alla mimesi ipocondriaca di Cartoline dai morti che finiamo già per ritrovarlo sorprendentemente sulle pagine ricche di passione e di lirismo civili del suo ultimo Oratorio bizantino (Ediesse, 2011, 160 pp., 10 euro) qui laicamente inteso come il luogo della parola di valore sacro e della riaggregazione comunitaria. In una terra bizantina ricca di complesse stratificazioni culturali che tuttavia convivono con le sottigliezze pedanti e le arroganze dell’odierna politica.

Tra questi libri, insomma, temi solo lontanamente apparentati, registri separati e distanti – si dirà. Ma è un errore. Perché la forza della scrittura di Franco Arminio non sta tanto nei temi o nei toni usati per dargli voce, bensì nell’unità di uno sguardo che fonde sempre ardore e mestizia. E – come ho già scritto in altra occasione – ciò mi pare si riveli particolarmente in un’intuizione che Arminio articola in Oratorio con le parole conclusive del capitolo intitolato Il Cavaliere e la morte: “In un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta raramente dalla vita”.

Non è accampata qui nessuna visione filosofica greco-classica della morte del genere di quelle attribuite, ad esempio, a Euripide nel Gorgia platonico. Piuttosto la più concreta constatazione di fase politica che oggi la morte non ghermisca più, improvvisa, singoli uomini, come quelli che abitavano i brevi di Cartoline, ma tutti soffochi in qualcosa di stagnante e pervasivo, qualcosa capace, ancora vivi, di farci guardare il mondo “come se fossimo già fuori da esso”.

È una deriva che riguarda la comunità, la sua morte perpetratasi attraverso la vittoria definitiva dell’individualismo sulla collettività. È accaduto che, con l’irrompere dei processi di modernizzazione, anche a sud si è “stupidamente preteso” di essere altro da ciò che eravamo. L’Irpinia, come il resto delle “terre dell’osso” appenninico, non ha perseguito un suo peculiare adattamento, bensì un definitivo dissolvere o, peggio, commerciare, la propria identità nel grande mercato globale – dice il sociologo Franco Cassano nella sua appassionata introduzione al libro. Certo, rispetto ad altre parti d’Italia, sembra che dall’esterno i cambiamenti siano stati minori “anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silenziosa, da una ‘modernità incivile’ che ne ha disinnescato l’anima, trasformando gli abitanti in profondità”.

Non possiamo aver sostituito – pare dirci Arminio – un mondo contadino di fatiche, miserie (anche umane) e grettezza con la società più facile ma altrettanto gretta e angusta del consumismo. Che pare aver mutato le comunità in un incoerente aggregato piccolo-borghese di individui intimamente estranei gli uni agli altri, chiusi nel proprio interesse esclusivo, timorosi del mondo esterno. “La questione più che economica è psicologica. Non abbiamo avuto mai tanti io alla ribalta, tanti capricci in lenimento. Il mondo è diventato una gigantesca scuola materna. Dopo un’adolescenza a oltranza molti diventano direttamente decrepiti”. E la povertà semmai è concepita nel crucciarsi “per la parabolica e il telefonino”, il successo nello scimmiottare “le posture metropolitane: cemento, decibel, gerghi mercantili, tossine”. E tuttavia non si tratta di vagheggiare il mito dell’antimodernità quanto, più correttamente, dotarsi di un “cuore meno provinciale, che sappia coniugare il computer e il pero selvatico”, vale a dire abbattere disagio e fatica senza che si svilisca la bellezza scabra di una terra.

Consci che, se smotta il disarticolato terreno civile sotteso, si frantuma anche il suo specchio, cede ai piani più alti l’edificio della politica che lo rappresenta. Persino (non stanno solo a dimostrarlo i brogli delle primarie partenopee) chi ha sempre millantato una presunta diversità morale. Come non essere d’accordo con Franco Arminio quando ironizza su certi segretari provinciali del PD? come non esserlo quando stigmatizza la vanesia vuotaggine politica e culturale di certi sindaci e di certi candidati locali? come, quando descrive una politica ridotta a vigliacco e ineffettuale chiacchiericcio di paese o, per altri versi, a compromesso, a carriera, ad affare economico?

Fin qui l’analisi. Lirica, si è detto, eppure moralmente austera, dura, impietosa. Se non fosse che, per Arminio, “l’unico modo di non portare il broncio alla propria epoca è attraversarla con furore”. Perché – ritornando sui primi passi di questo articolo – se la morte soffoca la vita, a maggior ragione evidenzia, di quest’ultima (in un suo senso dilatato di comune spazio abitativo, di luogo di espressione della nostra esistenza, di valorizzazione della sua qualità), la fragilità e il miracolo, il bisogno che sia costantemente sostenuta, protetta, potenziata. Bisogna dunque che (non solo) gli irpini smettano di sentirsi come affezionati alle proprie lamentose malattie, bisogna che fuggano fuori dal recinto, che si facciano scoppiare dentro la rivoluzione, che smettano di giocare all’interdizione dell’altrui iniziativa (“l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni”). Bisogna che smettano di spiare il mondo dalla televisione, che escano all’aria pungente, schiaffeggiante della realtà.

Difficile, eppure bisogna provarci, gli fa eco Cassano. Ed ecco dunque perché abbracciare proprio le lotte apparentemente “da falliti”, quelle buone per i poeti e gli artisti, quelle che i politici evitano per poi lucrarci su: la battaglia contro una discarica, le manifestazioni per un ospedale che si curi dei suoi cittadini senza che i cittadini debbano curarsi dell’ospedale (perché sia dotato di strumentazioni o addirittura per non lasciarlo delocalizzare altrove), l’organizzazione di un festival (Cairano 7X) che culturalmente sia capace di promuovere un nuovo umanesimo delle montagne, una speranza che una terra non sia considerata definitivamente dismessa, la fiducia che un paese possa, e come, ancora essere (che è il lavoro smitizzato dei “paesologi” contrapposto a quello dei “paesanologi”, i cantori nostalgici dei paesi che furono).

In quella generazione di scrittori meridionali (i Pascale, i Lagioia, gli Argentina, i Leogrande, i Saviano ecc.) che, a partire dal “Nuovo Rinascimento” degli anni Novanta, ha saputo fare “storia civile del Paese” e del sud (per usare una sintesi di Filippo La Porta), con “Oratorio bizantino”, Arminio esprime una sua specificità nel “tenere insieme la tensione poetica e quella politica, la contemplazione e il conflitto”. Il che rischia di consegnarlo a una sostanziale solitudine, ci sembra, rispetto a quella che potrebbe essere la potenziale ricettività delle comunità locali cui si rivolge, ormai davvero loricate di cinismo e indifferenza verso ogni politica che osi per tutti. Solitudine pure alimentata dal fatto che oggi i politici non riescono più nemmeno a ispirarsi a una qualsivoglia politica di programma, figuriamoci a dare il coraggioso plastico inveramento alla visionaria creatività degli artisti. Al limite, nel migliore dei casi, come per Vendola, sono loro stessi a farsi poeti, tuttavia a volte incassando, col giusto plauso, pure la diffidenza che merita la stonatura dell’eccesso.

Eppure non ci si può stancare – dice Cassano – “neanche di fronte ai riflussi e alle sconfitte, anche quando si rimane da soli, e gli altri si defilano, prima l’uno, poi l’altro, chi con una scusa, chi con l’altra”. E forse quello di Arminio rimarrà un sogno per il futuro, ma intanto la personale utopia che disegna ha comunque un utile carattere normativo per capire l’anomalia del presente del meridione e per incidervi. E già qualcuno si convince che, verso quella terra che ancora non c’è, sia venuto il momento di far rotta. Forse perché l’unica davvero abitabile.

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Written by antoniocelano

aprile 4, 2011 at 7:24 am

N: Not in my backyard

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Stazione di Empoli. Balza sul treno un tipo atticciato, i capelli grigi corti e dritti, tre rughe profonde sulla fronte bassa, la pelle quasi un po’ cotta. Appena nei corridoi, lascia sedere l’amica cotonata e ossigenata che s’è portata dietro e finalmente, tra la gente che a quell’ora del mattino legge o dorme, bercia verso la porta: «Mauro! Mauro, c’è posto qui!». E mentre l’altro gli urla «ma che ti urli, arrivo!», lo aspetta, si siede e domanda alla compagna di viaggio: «Allora, la situazione in Giappone?». L’amica fa per rispondere, abbozza un gesto. Il tipo: «Mh… e la Giovanna, co’ i’ mmaggio, poi, l’è tornata?…». L’amica dice: «Beh, sai… la paura c’è stata… l’onda…». Il tipo tronca: «Mah! Io domani so’ in trattoria a Sovigliana e poidomani a mangiare a casa della Teresa, sai a Spicchio?».

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marzo 31, 2011 at 4:18 PM

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Recensione a: Luigi Bernardi, Niente da capire (Perdisa Pop 2011)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 27 Marzo 2011.

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Tredici storie senza mistero

La svolta critica di Luigi Bernardi

“All’inizio del 2010 capisco che il giallo e il noir, narrazioni che ho tanto amato, sono ormai una caricatura di loro stesse… Non è un’abiura. Ho lavorato tanto perché le scritture di genere ottenessero successo e stima, adesso che hanno conquistato le classifiche di vendita, scendo dal carro dei vincitori e inizio una nuova battaglia”. Questa la forte dichiarazione di Luigi Bernardi, padre del noir italiano e maestro di molti scrittori ascritti al genere giallo (e dintorni), resa a Stefania Nardini per il settimanale “Scritture & Pensieri”.

Titolo dell’intervista, eloquentissimo: “Il noir? una truffa”. Titolo del libro presentato dall’intervista, altrettanto eloquente: “Niente da capire” (Perdisa Pop, 2011, 144 pp.). Soprattutto perché dovrebbe trattarsi di un noir. In realtà perché è un libro di grande qualità al di là del genere. Genere che, anzi, Bernardi mira a depotenziare, oggi così legato al successo e agli incassi del largo consumo, eppure mai così estenuato, senza più sugo. Un genere fatto preda di trasmissioni televisive famelicamente alla ricerca di audience, tanto da “fictionalizzare” tragici fatti di cronaca, calati a bella posta in paranoici viluppi al limite dell’inverosimile o del ridicolo. Dove si aspetta che una dichiarazione o una ricostruzione possa aprire finalmente a chissà quali nuove verità, in realtà continuando ad aggiungere particolari inutili. Arrovellandosi su moventi e su “perché” inattingibili che regolarmente svergognano i deliri di onnipotenza della Scientifica (ideologicamente covati nelle fiction tv), l’ultima dichiarazione dello psico-criminologo alla moda o un’indagine male impostata fin dall’inizio.

Luigi Bernardi scrive, invece, “Tredici storie senza mistero” (questo il sottotitolo del libro) che sono tanto meno misteriose quanto più, in alcuni casi, somigliano a casi conosciutissimi di cronaca quali ad esempio quello di Erba (“Lei ringhia oltre la parete”) o di Perugia (“Hillary aveva sonno”) dove si sono spesi fiumi di analisi e futili chiacchiere. Storie costruite con uno stile “a perdere”, asciutto, essenziale eppure sempre con un’anima. Ché, con tutta evidenza, Bernardi ha frequentato cucine di scrittura somiglianti a quelle della sua infanzia a Ozzano dell’Emilia e poco quelle tutte acciai anaffettivi, dai cassetti labirintici ricolmi di lame dove si son svezzati tanti giallisti anglofoni di grido.

Anzi, Antonia Monanni, la protagonista dei racconti, pare molto somigliare alla scrittura del suo inventore: legge i quotidiani in rete, butta quasi tutti i regali che riceve e i libri che non le piacciono, appende alle pareti poche immagini dopo maniacale selezione, abitua “lo sguardo a cogliere solo poche cose per volta”, esercitando così “una sorta di libertà interiore”. Il che sembra porsi anche come una via d’uscita da certe pastoie della scrittura postmoderna, tanto ipertrofica e accumulatoria quanto labirintica, poco gerarchizzata nei suoi temi ed elementi, tra quel che davvero conta o meno nella comunicazione.

Storie dove gli ingredienti del noir e del giallo sono a bella posta disattesi: niente moventi, niente fase investigativa, niente mistero. Eppure quante volte nei gialli si sono ipotizzate carriere impegnative che portano a “scoprire segreti inconfessabili e chissà cos’altro”. “Invece no: assassini banali e pasticcioni, che si facevano scoprire in un paio di giorni. E poi: moventi assurdi, bislacchi, sempre che ammazzare qualcuno perché copula troppo rumorosamente e neanche pulisce bene il pavimento possa essere classificato come movente”. Perché il mistero è tutto lì: nelle persone che hanno disimparato a vivere, negli scontenti, nella follia che ci portiamo addosso senza saperlo, in un labirinto della mente che può essere descritto nei suoi effetti ma mai dall’interno, magari pure con presunti meccanismi d’orologio. Perché il delitto non sta nella perfezione narrativa, ma nascosto nelle pieghe imperfette della vita. Un attimo in cui una “scelta” o uno stato d’animo ci può salvare o perdere con la stessa probabilità. Follie che spesso a pagare sono innocenti “colpevoli per un attimo necessario” (come nel bel racconto, dal titolo eloquente, “Julija voleva il sale”) dove alla fine si capisce “che non c’è niente da capire, come sempre. Solo da preoccuparsi per un male che non fa più distinzioni”.

S’è accennato alla figura-collante dei racconti che è il magistrato inquirente Antonia Monanni (che, si auspica, non diventi il tormentone di una serie che smentirebbe, almeno parzialmente, il suo autore). Un personaggio spigoloso e fragile come il suo nome (quando virato al femminile), insolito e sempre in contro-sintonia con il senso comune del mondo circostante. Una solitudine personale sofferta, pure mai svenduta nella sua irriducibile autonomia e indipendenza. Un personaggio che odia i gialli. “E li odia perché danno l’impressione che siano i poliziotti o i carabinieri a risolvere indagini, risolvere i casi” e i magistrati “invece di coordinare le indagini, le subiscono al punto di rimanere in attesa fuori dalla porta mentre il commissario fa confessare l’assassino”.

Di più. In “Niente da capire” non c’è nessun “commissario di polizia al quale il destino pare non risparmiarne una: la moglie pazza, la figlia adolescente, i sottoposti idioti”. Anzi, pare che Antonia possa essere così perspicace e intelligente proprio nella sua “normalità”, proprio in virtù della sua precisa coscienza di cosa partecipi del fisiologico anziché del patologico. Che è comunque una mai bastante difesa, ché Monanni pare incontrare certe stesse situazioni dei suoi inquisiti, solo vivendole con un’inversa polarità. Non piacerà, ma il magistrato, in quanto appartenente all’umano genere, può sentire di somigliare in qualche modo all’omicida. In “Marta sente i fili” addirittura, rispetto all’assassina, pensa che ha “la sua stessa età, forse hanno letto gli stessi libri, amato lo stesso tipo di ragazzo, pensato gli stessi pensieri, nutrito le stesse speranze per il futuro”. Ma, proprio per ciò, è come se, attraverso l’altrui esperienza dell’errore, riesca ad evitare i tranelli del male, a non toccarlo, a non farsene coinvolgere. Oppure operando scelte ponderate e razionali, mai viscerali, mai moralistiche. Comunque sempre nella cristallina coscienza che, pensare qualcosa e darle immediato seguito, quasi mai sia cosa buona.

Antonia Monanni, sembra dirci Bernardi, è solo il lato al sole di un crinale morale molto sottile e ripido che continuamente ci minaccia, un confine tra luce e buio su cui tutti siamo seduti con uguale pericolo.

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Appuntamenti

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Venerdì 25 marzo 2011, ore 18:30 (Livorno, Libreria Gaia Scienza) presentazione del libro:

Arianna Gasbarro, Alice in gabbia (Miraggi Edizioni, 2010)

Sarà presente l’Autrice. Introduce Antonio Celano.

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marzo 15, 2011 at 11:31 am

I: Imprenditore

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L’imprenditore-editore guarda a destra, poi a sinistra. Tace. L’imprenditore-editore piega il viso: la cravatta poggiata su un poco di pancetta, il ricamo enigmatico delle iniziali. Alza la testa, dice: «E questo è quanto. Per cui, per ora, nessuna novità. Dobbiamo aspettare le banche». Si stringe nelle spalle.

E all’improvviso la giacca di buon taglio dietro la scrivania in radica, l’Ardengo Soffici appeso alle sue spalle, la foto mentre stringe il padre nel segno della famiglia e della continuità, perfino il mappamondo illuminato con tutti i fusi orari, stridono. Stridono e contrastano con i nostri maglioni e pantaloni di mercato, con le unghie laccate delle amministrative, con gli sguardi di sottecchi dei sindacalisti, con i volti contratti delle rappresentanze tutte, riunite al capezzale dell’azienda.

Stridono e paiono cose aliene che irridono il quarto stipendio d’arretrato, le ombre dei colleghi in Cig straordinaria, la caldaia rotta che ha tenuto per la stagione fredda tutti coi cappotti e fosse solo quello. Stridono, contrastano, irridono, ma solo per un momento, ché tutto pare ghiacciato via da un silenzio talmente cristallino e trasparente che risucchia d’un tratto il brusio del traffico impazzito a cinquecento metri di distanza, e satura la stanza dell’ora di chiusura degli uffici.

Written by antoniocelano

marzo 11, 2011 at 10:55 am

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