Antonio Celano

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Recensione a: Andrea Di Consoli, La collera (Rizzoli, 2012)

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Copertina LaCollera

Questa recensione è stata pubblicata, in forma ridotta, su «l’immaginazione», n.  274 marzo-aprile 2013.

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Diciamolo subito: Pasquale Benassìa, il collerico protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Di Consoli, è l’autentica impossibilità di avere, del Sud, un’idea dialettica. Uno spazio meridiano, cioè, in cui gli opposti riescano, in qualche modo, per breve o lungo gioco di composizioni successive, a trovare una sintesi, un equilibrio superiore, il raggiungimento di una vetta che alla fine non frani disfacendo tutto. Tanto da piegare il tempo narrativo in una circolarità che è prima dei Lumi e prima di Cristo, e forse pure fuori da ogni possibile paganesimo, se alla fine non soccorre nessuna naturale palingenesi a riscattare un qualsiasi futuro, sia pure individuale. La collera –lo sottolinea Andrea Caterini in un’intervista all’autore– altro non può essere, così, che la definitiva presa di coscienza dell’«impossibilità d’essere liberi dal bisogno, e quindi terrorizzati dalla propria incapacità a riconciliare la vita ai sogni che la animano»; facendoci pensare che i panni di Benassìa siano pure sostenuti da un’amarezza che è dell’autore, anche se Di Consoli davvero difficilmente ci pare romanziere da poter perdersi in qualche modo su strade che sono proprie dell’autofiction. Anzi.

Ma intanto l’eroe di Di Consoli: che è un personaggio duale e caotico di visceralità e ardori, corporeità e spiritualità senza cautele, tanto da decretarne un’irriducibile quanto rivelatrice inappartenenza al mondo. Fin dall’infanzia, dove il giovane Pasquale Benassìa rintraccia i segni e i sogni, misteriosi (e perfidi) del suo destino, e il demone taurino e istintivo della sconfitta, delle macerie, della deiezione dalla storia, delle ragioni del torto (nasce lo stesso giorno della morte di Hitler). Cui miscelare, come instabile nitroglicerina, la gioia «santa», lo stato di grazia di certe visioni miracolistiche che paiono uscite da pagine antropologiche sul mondo contadino e pastorale (l’episodio della “resurrezione” delle pecore del padre). Pulsioni, passioni, aspirazioni ben presto messe alla prova dei «tornanti» cruciali e, per certi versi fondativi, della storia meridionale e italiana che sono gli anni Settanta.

E il fascismo personale che Benassìa crea e proclama, come parte della stessa collera che lo agisce, pare proprio originarsi e scontrarsi con le terrose radici del protagonista: trovando, in questo impasto e urto, la sua furiosa e sulfurea forza polemica. Pasquale è figlio di miserabili contadini calabresi, ben presto irredimibile tabagista catarroso e sovrappeso, ma pure autodidatta talentuoso dalle letture compulsive e disordinate, fantasticatore e visionario, umorale, atipico filosofo dalle singolari teorie eliocentriche ed entropiche (ché nel generoso dispendio fisico di sé e della propria energia intellettuale pare ricordare i tratti biografici di un Avicenna). Così, il fascismo sui generis di Benassìa non si costruisce su nessuna militanza, su nessuna disciplina di partito, su nessuna ora fatale della storia, ma rimane un umore sdegnosamente solitario. Anche quando il giovane calabrese emigra a Torino, operaio alla Fiat, negli anni centrali della contestazione e delle rivendicazioni operaie; di fronte alle quali resta, non a caso, sì contrario, ma piuttosto eccentrico.

Invece c’è, negli occhi del giovane Pasquale, qualcosa di impervio e inquieto: una presunzione di ascesa (forse anche un po’ guascona), la fantasia turbinosa di una guerra dello spirito che si ribella a ogni compassione, a ogni idealizzazione del mondo contadino, a ogni sguardo basso, piantato nel male della terra: «ché lui a Torino non era andato per evolversi da contadino a operaio… ma da contadino a pensatore, a filosofo, a sacerdote della verità». C’è in Benassìa una spinta che è stata anche, per qualche tratto, generazionale, ma nel contempo declinata e deviata individualmente in una fantasticazione irriducibilmente superoministica: «quello che davvero voleva era vivere nella forza, in un pensiero maestoso e inimitabile, e poi innamorarsi di una donna altera e intelligente, e poi studiare e poi farla finita con la commedia triste del socialismo delle lotte operaie e contadine e, infine, ergersi a pontefice della propria leggenda personale». Così, attraverso scombinate letture, il suo mondo trascolora in una sorta di confuso e romantico medioevo interiore: «Pasquale si rifugiava, nel tempo libero, nella lettura di riviste e di libri: soprattutto di storia e, tra questi, di storie monarchiche, manifestando sin da ragazzo una strana attrazione per le monarchie di ogni epoca, più volte trascorrendo del suo tempo adolescenziale a immaginare –in un guazzabuglio senza capo né coda– re, regine, cavalieri, templari e cortigiane». Col risultato, insomma, di un fascismo che subito depone le sue armi più immediatamente storico-politiche, per rivelare, nelle sue origini, un retrogusto letterario e filosofico: nel senso di certe concezioni nietzschiane o certe posizioni stilnoviste per cui la nobiltà può essere una virtù morale individuale blasonata di orgogliosa superiorità, più che indicare una condizione sociale di nascita privilegiata. E con esiti che possono sembrare persino donchisciotteschi, e tuttavia pure sempre cogliendo la verità che, spesso, l’«eterno fascismo degli italiani» altro non sia stato che un personale ritaglio, la declinazione di un’idea collettiva (storica, sociale, politica) dai contorni per nulla rigorosi.

Si genera nello scontro con le radici anche la collera. Che, se per dirla con Bodei, «nasce in genere da un’offesa che si ritiene di aver immeritatamente ricevuto, da una bruciante ferita inferta colpevolmente da altri al nostro amor proprio o alla nostra autostima», l’ira dell’aristocratico Benassìa non può che, all’inizio, rivoltarsi apparentemente in una sorta spirituale di odio di classe rovesciato, contro l’ingiustizia materiale rappresentata dalle origini. Pur sapendo che la collera risentimento non è –sia chiaro– e nemmeno odio: sentimenti notoriamente bisognosi di calcolo, dissimulazione, lunghi tempi di gestazione. L’ira, la collera, sono invece palesi, scoperti, senza remore o rispetti di sorta. Sono fatte di resistenza polemica e immediata, ma pure segnalano sempre la debolezza della breve durata, la fragilità di chi ne è agito, l’amarezza dell’anima e del corpo, le sue ulcere, le sue ipertensioni, le sue lacerazioni. La collera è, paradossalmente, profondamente contadina; è una jacquerie individuale che, in quanto tale, pare sollecitare una contro-risposta parimenti risentita del mondo, tanto che di Benassìa pure è stato detto con acume finisca per diventare un punitore di se stesso: perché noi meridionali «ci proviamo a essere civili, ci proviamo a riconoscere lo stato, ci proviamo ad affidarci al lavoro, ma poi perdiamo la testa e iniziamo a ragionare con la pancia, con l’odio, con il cazzo duro, con il fuoco in mano».

Tuttavia c’è qualcosa di più nella storia, qualcosa che travalica la sconfitta delle aspirazioni di partenza di Benassìa per colpire al cuore il suo protagonismo. Un risultato che a mo’ di zavorra, anche con risultati sottilmente paranoici nel lettore, pare in agguato fin dalle prime pagine del libro, subdolo e pronto a ingoiare nuovamente Pasquale nello sfondo meridiano da cui faticosamente cerca di affrancarla. Un peso, insomma, che prende le forme del suo coetaneo Germano Altomare (barista coinvolto in un losco giro gestito da siciliani) che, paradossalmente lo spinge a partire dal suo Paese dei Mori verso Torino. Pasquale Benassìa, dopo un viaggio attraverso l’Italia a bordo di una vecchia 500, approda, così, alla Fiat, dove si impiega logorandosi di lavoro come meccanico, tuttavia, come prevedibile, sprezzando i suoi colleghi meridionali (o di sinistra) e ingraziandosi il caporeparto Marini (piemontese e di destra). Inizia in questo modo quella che gli pare la scalata verso la vetta definitiva delle sue aspirazioni pur già comprendendo, sempre tra i fumi della collera, che anche il Nord, «stordito e istupidito dalla fame di soldi», non potrà essere che un’altra illusione. Sono affermazioni che preludono all’incontro con la siciliana Simona, capace di affogare Pasquale – nonostante i sensi di colpa per la sua fidanzata, Magda Beccaria (un’insegnante torinese) – in un gorgo di sensualità consumato in una camera d’albergo a ore. Un amore la cui meccanica confonde delle sue opacità i sensi e la mente sbigottita di Pasquale, rivelandone pure l’angosciosa incapacità di accedere al mistero della donna. Così come oscura e inconoscibile rimane la ragione della persecuzione da parte del gruppo di siciliani al rifiuto dell’incauto Pasquale, attirato nel bar dal solito Altomare, di fare, per loro, una non meglio esplicitata consegna. Fatto, tra l’altro, non si sa se e quanto legato alla «faccenda» di Simona, che nel frattempo s’è dissolta nel nulla.

Vicende che lasciano irrompere con forza nel libro –come ha notato Aurelio Picca– il romanzesco, col rocambolesco ritorno al Sud, sotto scorta, di Pasquale. Un rientro che ha la stessa repentinità di un’ancora gettata di colpo in fondo al mare e che lascia Benassìa in balia dell’assurdo. Faccende che lo avvincono nelle spire delle paure e di una vita allarmata, all’inizio appena lenita dal ritorno in famiglia o grazie al sostegno (tra l’altro collericamente tradito) dell’amico Anile o dell’incontro con la carne accogliente di Teresa. Terrori tuttavia definitivamente estinti solo dall’obolo umiliante (e che a Torino s’era voluto evitare) pagato ai taumaturghi moderni del familismo politico, dello scambio di favori, di quella mafia per ironia della sorte così affezionata a certa destra. Pure con la beffa di essere coinvolti, da protagonisti, in importanti fatti di cronaca, tuttavia tanto agghiaccianti da non poterne fare neppure menzione se non al rischio della galera o della vita.

Faccende e derive che non possono che consumare definitivamente ogni collera, se per dipendere da nessuno –dice Di Consoli– alla fine si finisce per dipendere da ognuno. E consumano anche Pasquale, che si spegne già quasi dimenticato da tutti, la sua nera anima di filosofo trasmigrata in un cane randagio che lavora rabbioso coi denti un osso di bue gettato per strada. Perché, per Andrea Di Consoli, ci pare, a differenza di altri intellettuali meridionali, la verità del Sud (quel Sud con il quale pure mai si riesce a farla definitivamente finita) non è mai fuori portata o abilmente nascosta, ma più semplicemente buttata via o dimenticata, non servendo a nessuno.

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febbraio 21, 2013 at 12:34 PM

Recensione a: Gian Carlo Ferretti, Vanni Scheiwiller: uomo, intellettuale, editore (Libri Scheiwiller, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’immaginazione», n. 257 (settembre-ottobre 2010).

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Concludendo l’introduzione al suo Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003 (Einaudi, 2004) Gian Carlo Ferretti, dopo aver interpretato l’importante cambio di fase nelle vicende editoriali del Paese a partire dagli anni ’70, puntualizzava: «la discriminante dell’identità editorial-letteraria […] sembra più efficace e producente della discriminante di un’editoria di cultura o di progetto contrapposta più o meno esplicitamente a un’editoria di mercato: discriminante quest’ultima adottata da tempo in molti studi e viziata da sottintesi elitari. […] la discriminante […] non è tra cultura e mercato, bensì nel diverso modo in cui questi due momenti interagiscono nelle loro rispettive politiche editoriali, e perciò nelle differenze tra le loro rispettive identità».

È una solida visione interpretativa che molto bene si adatta alle vicende della piccola casa editrice All’insegna del Pesce d’Oro. Nata nel 1936, dopo lunga gestazione, dall’attività dello svizzero Giovanni Scheiwiller, è rilevata, nel 1951, dal figlio diciassettenne Vanni, fin lì aspirante sportivo, quando «il tennis perse un mediocre giocatore e l’editoria italiana si guadagnò il suo editore “inutile” di libri e microlibri […] dove la dichiarazione autoironica di inutilità può indicare anche un’ editoria senza utili». Di qui, tra l’altro, una mitopoiesi della figura di Vanni Scheiwiller per certi versi unica nel panorama editoriale dell’epoca che, tuttavia, Ferretti costantemente confronta con la rigorosa ricostruzione delle vicende storiche della casa editrice e della sua singolare personalità.

Basandosi sulle carte dell’Archivio Scheiwiller conservato presso il centro Apice (un repertorio dei quali è offerto al lettore come semplice ricognizione di un fondo molto esteso e per precisare «la figura storica di intellettuale cattolico e liberale» di Vanni) e l’attento studio dei cataloghi (nelle tre parti ideali scelte: 1925-68, 1952-73 e 1952-83) Ferretti ripercorre le vicende di un imprenditore dedito alla costruzione di una sua «paradossale identità» editoriale di proposito rifuggendo, nella strutturazione del catalogo, ogni proposito di «equilibrio e coerenza». Un’identità poliedrica e contraddittoria nel segno della libertà, del gusto e della sperimentazione, propria di un uomo geniale e coraggioso, provocatorio e anticonformista, poco legato alle ideologie e ai partiti. Un editore-autore, ma anche critico-informatore costruttore di uno scaffale «che si rivolge consapevolmente alla parte più elitaria e ristretta della già elitaria e ristretta area di lettura libraria in Italia», nel tentativo di trasformare una marginalità in valore polemico contro una cultura ormai massificata, sia pur all’interno di una chiara scelta antiaccademicistica. E dunque i poeti dialettali, i «maestri in ombra» Sbarbaro e Rebora, la polemica edizione di Céline, la particolare amicizia che lo legò, non senza qualche contrasto, a Ezra Pound.

Ma già qui, di pari passo, alcune scelte ben precise e rivelatorie: la voce data ai narratori dimenticati (La Cava, Savinio, Pizzuto ecc.); le edizioni dedicate agli scrittori più affermati attraverso la scelta di privilegiarne testi minori che possano consentire l’aggiramento dei vincoli contrattuali imposti dalle case editrici maggiori; le polemiche sui premi letterari che rivelano la costante tensione promozionale dell’attività editoriale di Vanni.

Insomma, se gli archivi confermano largamente la figura leggendaria di un editore che «stipula contratti sulla parola […] gira con una borsa pesantissima piena di carte, e porta personalmente i libri nelle librerie di città in città e sempre in treno scrivendo lettere, leggendo testi, correggendo bozze, abbozzando idee grafiche e tipografiche con un frenetico ritmo operativo», vendendo quadri di proprietà nel tentativo di aggiustare i conti di una casa editrice artigianale, Ferretti è sempre attento a evitare l’idea, piuttosto impropria e francamente risibile, di un editore improvvisato, sprovveduto o, peggio, «titano», «matto», «San Francesco», spiritualmente liberato dalla materia e persino «santo bambino» dell’editoria a seconda della vulgata del momento.

In realtà Vanni Scheiwiller fu uomo pragmatico, innanzitutto convinto del libro come prodotto dal valore economico, oltre che culturale, tanto da spingersi a ricorrere, per molte delle sue pubblicazioni e per la quadratura dei suoi conti, a destinatari-acquirenti, ad autofinanziamenti dell’autore, a committenze, a sponsorizzazioni – certo non sempre portate a termine con successo, ma non è questo il punto – senza disdegnare consulenze editoriali anche scomode (vedi quella elargita al reazionario Edilio Rusconi) o risolvendosi, fu vero anche per il grande Giulio Einaudi, per l’insolvenza programmata verso i propri autori. Così come, per contro, i suoi cataloghi dimostrano, qualora ve ne fosse ancora bisogno, precisi sforzi nel tentativo di organizzare e armonizzare produzione, distribuzione, promozione e vendita.

Pure così, va detto, proprio non si riesce a restar distaccati dalle pagine che Ferretti spende, con la sua consueta capacità ricostruttiva, sul saldo costantemente negativo tra ambizioni editoriali e capacità economiche di Vanni, che spingeranno quest’ultimo a stilare un «catalogo dei desideri» che ancor oggi fa malinconia. Ma, proprio per questo, ben più si comprendono gli sforzi di imprimere, a partire dal 1977, una più decisa svolta industriale con il lancio dei Libri Scheiwiller da affiancare e sinergizzare con le vecchie edizioni. L’impresa non manca di palesare, in maniera certo più definita che in passato, un organigramma aziendale, una precisa programmazione delle uscite e del calcolo del fatturato, un più deciso impegno organizzativo nella distribuzione, così come un più aperto ricorso al mecenatismo bancario, alle edizioni realizzate per le aziende e per le istituzioni. Ciò a dimostrare come anche il mito e il fascino incontestabili di una figura come quella di Vanni Scheiwiller abbiano bisogno di vivere mai scollegati dalla generale evoluzione che, proprio a partire dagli anni ’70, andò imprimendo un rinnovato clima produttivo all’editoria italiana.

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ottobre 25, 2010 at 1:34 PM

Racconto: Labirinto centrifugo

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’immaginazione», n. 255 (giugno 2010), p. 18-19.

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Un reportage. Volevo fare un reportage – mi ricordo – e come un matto me ne stavo a un angolo del centro chiedendo ai passanti dove fossero mai i limiti della città e, oltre, cosa poi ci fosse. Ma chi sfuggiva infastidito, chi alzava le spalle. Qualcuno chiamava un agente. Da lì non capivo granché. La città digradava tutta nel tempo, indistinta, dalle colline all’Arno e poi dal centro in lontananza.
La Firenze che cerco invece non è qui, è fuori mappa, fuori dalle pagine di un saggio in una biblioteca, fuori dalla testa dei fiorentini. Sì, certo, questa città non ha confine – l’ho detto – ma ha una frontiera, uno spazio che si dilata e cambia e s’apre la strada in un mondo estraneo. Spazi da attraversare a piedi o con mezzi lenti: niente frenesie, auto veloci. La periferia come esperienza, sangue, carne, vita. Ecco. C’è un posto di questa città che non è fatto di pietra, di Storia, di un Rinascimento di cartone consegnato ai turisti. C’è un posto in questa città dove non c’è l’Uomo, ma i blocchi, i lotti, i palazzi in ferro-vetro. Una terra che nel ventre non ha terra, ma cavi, tubi, cemento, il sangue elettrico. Una campagna sconfitta, atterrita, d’acciaio, dove non ci sono alberi, perché non ci sono radici. Ci sono lingue, dialetti, vernacoli, ma non c’è Dante. E se mai passò di qui, anche da questo inferno, non si vede più.

Tempo fa mi aggiravo a Mestre. Un cielo saturo e indistinto, la testa vagava nel nulla riempito di case, di vecchi, di gente agitata nel volo confuso che fanno le mosche. Presi un mezzo solo per fuggire e più avanti, da qualche parte, l’autobus s’arrestò sulle rive di un mare piatto e salmastro. Dall’argine risalì un mestolone: stava fermo sul ciglio di strada, ci guardava come uno in attesa alla fermata. Così il bus mi parve all’improvviso una cosa fuori posto, una vecchia lavatrice, una tele rotta buttata appena oltre il ciglio della via. Mi ricordai allora di un mondo opposto, un frigo bloccato nell’acqua ghiacciata del Bormida, la notte che mia cugina era morta nell’incidente e se ne stava lì nella camera, vestita di un improbabile rosa, come il suo nome. Cairo Montenotte: l’ossimoro mi apparve dirompente all’improvviso. Col piede scostavo dalla via pietruzze calcinate dal freddo.
Di Potenza mi sovvenne solo dopo, l’autobus pieno di studenti prima di scendere in corteo contro la Falcucci, e mi chiedevo perché diamine mai la gente se ne stesse acquattata dietro le colonne dei palazzi. Fino a quando scesi, ché il vento tagliava la faccia con le lamette.

A Roma, invece, c’era a via degli Ausoni questo amico studente che mi disse «vieni» e io l’andai a trovare e entrai nella corte chiusa dei palazzi, i balconi con le ringhiere sottili di metallo rugginoso. Non un muro imbiancato, tutto era ridotto al suo telaio, al suo scheletro essenziale: una bicicletta senza ruote, una finestra senza vetri, un ombrello senza telo. E questa struttura che mi girava attorno come un mancamento, questa babele che si avvitava come una colonna, aveva il suo Minotauro. Un vecchio dagli occhi sottili, crudeli, una canotta lercia, i calzini, le mutande vecchie con la patta aperta, i testicoli avvizziti. Ci guardava ingobbito dal balcone. Fumava dal naso e la cenere cadeva giù.

A Firenze ci sono le risse e gli omicidi, i matti e gli stupri, i regolamenti di conti, gli scempi edilizi, le fatiscenze come altrove, ma se pensi la città ti scatta come un delirio e il Duomo e le colline fiesolane e i beni artistico/culturali saturano – a un tratto – la testa, la memoria, la coscienza, la nostalgia. E dunque anche il Pacciani io l’ho sempre immaginato alla sbarra cantare improvviso «la mi porti un bacione a Firenzeee!» con seguito di applausi a scroscio e sicuri ritorni turistici.

In via Baracca, sull’insegna del negozio c’era «Ettahoid», adesso c’è «Anour» mi pare, ma apre più tardi. Sulla soglia del negozio una gran barba squadrata. Il macellaio asciuga le mani in un canovaccio lindo. Più avanti, sulla via Pratese c’è una cupolina ottagonale, l’oratorio di Santa Maria Vergine. Non è tra i campi, come a Bolgheri. Fa da spartitraffico, schiacciata da un soprapassaggio, crepata dai motori. Dopo ci sono solo i cinesi, una Firenze che si srotola come una mappa antica, hic sunt leones. Però forse sono io che ci vedo tutte queste cose e altri no, e qui è solo un gran caos e voglio dare un ordine che, insomma, par che ci sia e – se poi t’aggiri dentro – non c’è, e la modernità è solo un gran baccano per distrarre l’attenzione.

Osmannoro. Lungo i viali larghi di questa città altra ma nascosta, cammino nel vuoto surreale, scorro le alternanze di spazi vuoti e capannoni. Ci sono luoghi, qui, in cui le case diradano e i capannoni iniziano, punti dove le costruzioni in muratura non cessano ancora e le strutture in ferro-vetro ancora non trionfano e allora accade che le tipologie si ibridano, le abitazioni ospitano officine d’auto e concessionari. Ci sono un paio di mutande stese nei pressi dell’insegna della banca.
Domenica. Perché sia venuto qui, ora, in questa luce implacabile e vuota, non so dire. Cartelloni muti, macchinari fermi, anche i cinesi sembrano dissolti da questo pomeriggio di primavera. Improvvisi vulcani vomitano dal cemento fiumi di formiche nere.
Dietro una grata c’è un pezzo quadrato di terra. Forse un giardino, nei primi propositi, ma incolto, quasi a dire che lo spazio per disegnarlo questo giardino, per piantarci fiori e per curare l’erba e disporre siepi c’è stato, ma non c’è stato il tempo, il tempo e i soldi per orpelli, belletti ipocriti, utopie da falansterio, decori casalinghi. Sul terreno crescono selvatici i ciuffi di canne, le garighe di inula, se piove le code d’equiseto quando la terra ha memoria dell’acqua, nostalgia del padule che era. Attraverso la grata sfondata entrano furtivi due ragazzi e una ragazza, mi sembrano slavi, portano buste della spesa. Guardo la costruzione che occupano: è piccola, un grumo d’uffici in disuso, con le finestre sbrecciate.

Dall’autobus scende impacciata una vecchia signora, sale una coppia. Sono cinesi, restano in piedi, parlottano aggrappati alla sbarra metallica. Lui segaligno, la faccia tagliata con l’accetta, smorti i suoi pantaloni marroni, smorta la sua camicia a quadri. Anonimo – mi dico – il volto e i vestiti. Ha i tratti tirati, è inquieto, sibila qualcosa a quella che pare essere sua moglie o una parente. Non capisco, ma forse è solo il loro modo di litigare. La donna ha un vestito grigio che non riesco a definire – ma importa? – ha questi capelli neri, forti, spessi, che si porta sulla testa come un buffo copricapo africano, il tetto di una capanna. Le labbra sottili celano due incisivi deformi, ribattono all’uomo con pause improvvise, più perentorie.

Eccoli i controllori: salgono a percorso avviato, come sempre. Parlottano due minuti del più e del meno, come normali passeggeri. Poi attaccano al bordo delle giacche i cartellini. È la loro tecnica, efficace, usata, affinata come quella di un paio di camaleonti. La coppia non fa a tempo ad accorgersi della loro presenza che loro sono già lì, a chiederle il biglietto che non hanno.
L’uomo e la donna subiscono una repentina mutazione. I volti, che prima s’affrontavano, ora sono giustapposti, si distendono, diventano di colpo gioviali, accennano come a un inchino di fronte alle facce inespressive dei tipi, che insistono. Vorrebbero eccepire, farfugliano un paio di parole in italiano imparate chissà dove. Vorrebbero, insomma, non so come, rifiutarsi, ma quelli, ecco, quelli si fanno più fermi, li stringono da presso, esigono e poi emettono un suono che supera il rumore di fondo del mezzo, vibra più delle scosse dell’insieme delle parti metalliche, delle buche della strada, dei seggiolini dove siamo seduti: «prego, documenti». I due s’inchinano, no si piegano, ecco, si
flettono nel loro sorriso finto, ostentato, irritante. Oscillano. Paiono canne di bambù in preda a un vento improvviso, le loro voci come un fruscìo di foglie, gli occhi sgranati, due marionette da teatro imbellettate, da Opera di Pechino. Attorno. Girano attorno una dietro l’altro a passettini, e a passettini dietro di loro i controllori e dietro ancora, a passettini, gli sguardi della gente e finalmente la scena si apre a gesti acrobatici, ai salti, al gong, ai fiocchi delle spade roteanti, alle nacchere e ai piattini sempre più veloci, alle voci flautate, ai lamenti suadenti, i movimenti meccanici, le teste oblique, i mostri blu, i mostri semidivini che chiedono il biglietto, i due cinesi pazzi tra onde di tragedia, che proprio non si possono, non si possono sfuggire.

«Documenti, prego». E tutto si ferma. La farsa finita, il tempo sospeso, la mano che fruga, lenta, i vestiti. Mei Lan-Fang, il volto esacerbato, la bocca aperta, il respiro faticoso che estrae un portafogli. Mei Lan-Fang che si rammarica. Mei Lan-Fang che ha paura, le sue labbra sporcate di ciliegia. E questo tempo interminabile, pari alla cifra infinita che fa cinquanta euro, al tempo infinito che serve a vergare un verbale, al tempo infinito in cui un cervello, due, insomma, si lambiccano all’unisono infinitamente per inventare chissà quale scusa al momento del ritorno, in fabbrica, il capo chino, il capoccia che guarda storto. Oppure sono solo due furbi: ce l’hanno messa tutta per fregare l’Ataf, ma gli è andata male, cinesi di merda. L’autobus improvvisamente stormisce di opinioni da facile democrazia diretta, sul modello dei reality show. E poi la porta si riapre e i due scendono e con loro riprende il tempo e il colore smorto dei panni e romba l’autobus e sgassa e i cinesi, sì insomma, i due, che sono proprio i due cinesi che avevo visto salire (Mei Lan-Fang chi l’ha mai conosciuto?), i due che riprendono il solito colore giallo dei contadini costretti all’industria, costretti al suo ergastolo, a un riscatto che non pagheranno mai, si arrestano un attimo, si guardano in faccia e, mentre il mezzo gli chiude le porte sul muso, alzano il pugno, sì, la memoria per un istante a ravanare in un guazzabuglio di adeguate parole e poi, insomma, poi parte l’invettiva dell’uomo. Fa eco la donna e rincara, ma sempre con voce strozzata, inascoltata, inascoltabile. Sibilata vibrante protesta che l’autobus copre mentre sta sfilando via.

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luglio 19, 2010 at 6:56 am

Recensione a: Ugo Riccarelli, Diletto (Voland, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’immaginazione», n. 253 (marzo 2010), p. 47-48.

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Per una di quelle curiose circostanze che rendono a volte singolare la storia editoriale di un’opera, Diletto – raccolta di racconti che Ugo Riccarelli ha consegnato alle cure del diavoletto Voland – si chiude con un ringraziamento a Valerio Magrelli, per la concessione di alcuni suoi versi, che è un simpatico lapsus. E nondimeno ci si può chiedere se queste storie dedicate al letto non debbano poi tutte trovare un antecedente nell’agrodolce treno magrelliano de La vicevita, mezzo anch’esso così esistenzialmente scomodo, autentica soglia perturbante del nostro vivere moderno.

Il letto, dunque: «Io a letto non sto bene e nei letti è passata una parte della mia vita che non mi piace, così tento di mettere questo fastidio dentro le storie, per poi lasciarle andare lontano da me», dichiara programmaticamente lo scrittore di Ciriè in un’«Appendice» che è pure un carcinoma che il medico annuncia al protagonista essergli nato in mezzo alla fronte. Polisensi e giochi di parole che, del resto, si rincorrono un po’ per tutto il libro: l’«Appendice», appunto, ma pure un numero «50» che è una postazione d’ospedale e un anno di nascita; le decidue avventure filosofiche di un «Desboirtes» che beve e «si beve» soddisfatto Descartes; i «Cartoni» che sono un precario giaciglio di scarti industriali del mondo occidentale e i pugni nello stomaco alla dignità umana dei migranti. Fin su, per li rami, al titolo stesso della raccolta che richiama il diletto dello scrivere di letto.

Un piacere tuttavia senza eros, situazione (oltre che sinceramente scontata) di solito intollerabile su un mobile così tanto caricato di turbamenti e inquietudini. A partire dal mito nel racconto intitolato «Ulisse», dove incontriamo a Itaca un Odisseo prima di Odisseo, e dunque il suo amore per una presaga Penelope già tormentato dal richiamo di brezze d’oltremare. Una fascinazione che Ulisse esorcizza costruendo una possente macchina di autoinganno, il taglio di un olivo secolare che trasforma e modella in talamo nuziale. In altre parole un’ancora senza più nave, la pace abbattuta, una promessa di stabilità che per noi – a conoscenza dei fatti seguiti – subito si colora di un forte senso di malinconia.

Ma poi l’affabulatorio letto riccarelliano non smette di impregnarsi degli umori di altre stanze di vita, dalla culla fiabesca, miracolistica e risarcitoria alla branda ancora un poco di qua dal Muro e dalla Storia. E, come già detto, ai letti d’ospedale, che una certa lunga frequentazione da parte dell’autore ci rende particolarmente veri e familiari. In «50» l’invadente ospite della stanza cede poco a poco la sua iniziale e ostentata sicurezza, lasciando entrare progressivamente il dolore del suo vissuto di coppia e della sua malattia terminale, trasformando il letto d’ospedale in una sorta di luogo dell’abbattimento e dell’abbandono in un finale inestricabile groviglio di amore (per una moglie fulminata nello stesso posto dallo stesso male) e di morte.

Attorno agli stessi temi gira anche «Terapie brevi», ma qui la morte ha le sembianze di una vecchia distesa sul letto con gli occhi rimasti aperti e fissi. Come a dire la disillusione della giovane protagonista che impara a capire, con durezza, quanto sia importante guardare non all’Amore, ma al suo oggetto, in questo caso uno sfuggente marito fedifrago. Tuttavia, se il letto di «Terapie brevi» continua a essere il crocevia ineludibile di amore e morte già attraversato in «50», a restare vacante questa volta è il lettino dello psicanalista al quale la protagonista s’è in un primo momento rivolta per poi sottrarsene, lasciando al terapeuta solo il piacere di poter raccontare i fatti a un collega, riaffermando – malgré soi – la superiorità della narrazione, meglio capace di aderire alla vita in luogo delle vivisezionanti cure analitiche.

Si giunge così, nella disamina dei racconti che paiono più interessanti, alla coppia protagonista di «Malm», un modello di letto Ikea da montare che, per quei giochi di parole di cui sopra, richiama in qualche modo anche qualcosa di decisamente melmoso. La costruzione dell’alcova, comperato per sancire definitivamente la convivenza di una coppia, si ribalta subito, infatti, in una serie infinita di recriminazioni, nervosismi e poi pesanti contumelie. E viene subito il dubbio, nemmeno tanto velato, che il mobile non sia stato che un pretesto per un gioco crudele di cui il risultato non è altro che i pezzi – della coppia, del letto – rimasti sparpagliati per casa come dopo una guerra. Non resta alla fine tra le mani che un monco frammento «T4» a ricordare, sinistro, il modello di un tank d’assalto, un qualche tipo d’esplosivo, la soluzione finale orchestrata ai danni di un amore nato con inemendabili difetti genetici.

Insomma, anche se il tema può apparire occasione ludica, Riccarelli sembra volerci dire che ogni letto è precario, o destinato a restare senza ospite. E finisce per restare vuoto anche quando è abitato da quel «di», quella coppia che (dis)unisce senza eros il letto al diletto. Perché il letto non è mai di Hestia, ma di Hermes, continuamente preda della ventura o dei casi della vita per seguire i quali il giaciglio sempre fatalmente s’abbandona. E del resto Riccarelli senza sosta intreccia le forme del letto con parole che, per loro natura, necessariamente sollecitano la veglia e mai il sonno: «”Ti ricordi la cuccetta che costruisti tu, nel camion Fiat, dietro i sedili?” mio padre annuì. “Mi facevi scendere lì durante i nostri viaggi assurdi per l’Italia, obbligandomi a raccontarti storie perché tu non t’addormentassi […]. Mi sentivo leggero. Mi sentivo bene”».

Alla fine, un breve eterno riposino è concesso solo a Dio.

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aprile 21, 2010 at 9:55 am

Recensione a: Andrea Carraro, Il sorcio (Gaffi, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 239 (maggio 2008), p. 49-50.

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Non aveva tutti i torti Massimo Onofri («Diario», 5.7.2007) quando, interrogandosi sul successo di critica ottenuto dal romano Andrea Carraro, ne lamentava anche il troppo ridotto consenso di pubblico rispetto al reale valore dello scrittore. E una ragione c’è, perché Carraro –lo stile di Carraro– può ben far proprie le parole che, nel Vangelo, Matteo (10, 34) mette in bocca a un Gesù particolarmente duro con i propri discepoli: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» giunta, in questo caso, a dividere i lettori. La scrittura di Carraro è disturbante, mai rassicurante o consolatoria, capace com’è di rivelare il piccolo borghese che è in noi e di porcelo davanti come un gemello mai perfettamente somigliante, eterozigote, ma di cui in ogni istante si riconosce l’inquietante e irritante comune matrice. Una matrice non tanto genetica, ma esistenziale, come la sua tecnica: asciutta e cronachistica nello stile quanto solo apparentemente realistica nella sostanza, continuamente sottoposta ai corrugamenti degli stati psichici del protagonista. Il che pone il lavoro di Carraro nella linea della migliore letteratura italiana, quantomeno quella generatasi dalla crisi dell’uomo borghese otto-novecentesco, ma dagli esiti più estremi e moderni. Soprattutto se si pensa che il romanzo non costituisce un «a sé» dal resto dell’opera di Carraro. Come in una brevissima e personale Recherche, richiamandosi al precedente Non c’è più tempo, l’Autore ci consegna qualcosa che, più che le vicende di un singolo protagonista, rappresentano un vero e proprio tentativo di ricognizione sulla condizione umana.

Il libro è la vicenda di Nicolò Consorti, un impiegato che si dedica con un certo successo anche alla scrittura, relegato dalla sua banca in un distaccamento periferico. In questa sorta di claustrofobico scantinato si ritrova a essere vessato da un collega –soprannominato, appunto, il Sorcio– che lo maltratta con gretta violenza. Ma non è tutto qui, perché la narrazione man mano si allarga fino a rivelarci, della vita del travet capitolino, i dolorosi rapporti con il padre e la madre, con la moglie e il figlio, fino a scavare nella sua giovinezza, vissuta con un gruppo di amici. Il tutto raccontato entrando e uscendo dallo studio di un analista, così come dalla terza e dalla prima persona, dal passato e dal presente, dalla realtà e dalla fantasia, e in un continuo ribaltamento di atteggiamenti sadici o masochistici.

Sì, perché la violenza (non solo quella fisica), nella scrittura di Carraro, mai è dialettica, mai anela a futuri riequilibri sintetici, ma sempre ci si presenta in una sorta di forma organicistica per cui l’aggressore nasconde sempre in sé anche i tratti della vittima, e viceversa. Di più. Sotto questo paesaggio vincolante e dicotomico, si aprono nel protagonista spazi sotterranei dove lentamente stilla e scorre una pece composta di frustrazioni e di offese subite, fatta di uno scarto sempre troppo vivo tra aspirazioni e condizioni reali di vita, magmi che ben presto raggiungono una massa critica e iniziano a premere sulle pareti in cerca di cedevoli sbocchi eruttivi.

Il Sorcio rappresenta tutto quanto Nicolò in apparenza non è: la tracotanza, la rozzezza, l’assenza di ogni complessità e aspirazione creativa. Ma accade che il protagonista, inetto a pararne i colpi, non riuscendo a inscenare mai, nella realtà, la propria forza, la propria capacità di reagire alle vessazioni, paga dei picchiatori per dare una lezione al suo collega che verrà, alla fine, anche trasferito, pur non lasciando nessuna traccia di trionfo in Consorti, ma anzi «l’attesa ansiosa della disfatta che segue tutti i momenti di vittoria».

Intorno a questo episodio (che rinuncia a un facile topos dell’immaginario collettivo che vorrebbe l’uomo di lettere figura alta e distaccata) si dipana una vera a propria ricerca sul passato e sul presente dell’impiegato e sul suo mondo, un’indagine da cui, alla fine, anche tutti gli altri protagonisti paleseranno alla fine, chi più chi meno, quasi fossero usciti dalle pagine di un saggio di scuola lombrosiana, un volto per metà bello e ridente, per metà ferito o deturpato. È il caso del gruppo di amici che Nicolò frequenta durante la sua adolescenza. Un drappello di goliardici pariolini a cui il protagonista si unisce, non a caso, per precedenti delusioni amicali e che frequenta, pur percependo un senso di inadeguatezza sociale e di estraneità ideologica, ma proprio per questo prendendo con più forza parte attiva alle loro feroci scorribande. C’è anche, riprendendo le mosse da Non c’è più tempo, l’eterno conflitto con l’invadente figura del padre, che qui, però, pare un po’ allentarsi. A stemperarla interviene infatti il ricordo del nonno Omero che, a sua volta, ha umiliato e ridicolizzato il figlio di fronte alla famiglia. Peraltro Nicolò pare ora intimorito dalla nascita del figlio Filippo, convinto che possa far scivolare in secondo piano l’attenzione della moglie e della famiglia per le sue «esigenze»: la cura della depressione, a causa della quale si reca settimanalmente dall’analista, e la scrittura, vissuta ora con più acuto senso di colpa. Una scrittura che si caratterizza come il luogo di deiezione del protagonista, la discarica delle contumelie, delle «verità» senza sfumature di Nicolò Consorti che, per questo, come un Mida rovesciato, distrugge uno dopo l’altro tutti i suoi legami più profondi, addirittura riuscendo a guastare il carattere di chi lo legge.

Nel romanzo anche gli ambienti sembrano aderire all’interiorità monca degli uomini. L’ufficio della maga, lo studio dello psicanalista, la discoteca, i quartieri cittadini e i paesaggi, sono tutti più o meno dei posti spogli, tristi, desertici. Soprattutto la banca, lo scantinato dove si trascinano le esistenze di Nicolò e dei suoi colleghi, è un luogo freddamente funzionale, umanisticamente morto. Massimo Maugeri («Il Mattino», 2.10.2007) a tal proposito ha ritenuto utile consigliare che: «per difendersi dal [deserto metropolitano] si potrebbe far riferimento alle note opzioni di Calvino in Le città invisibili: “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”, oppure, “cercare e saper riconoscere che e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”». Ma purtroppo, la disgrazia dell’eroe di Carraro sta proprio in questa impossibilità di uscire dalle due opposte opzioni, condannato com’è a rimanervi in mezzo, eternamente sospeso in una situazione di scollamento narcisistico, antiedenica, pur all’inferno mai abituandosi.

Dunque nessun terribile epilogo, ma anche nessuna ottimistica speranza. È un mondo dove Gesù non nasce o, meglio, dove la sua nascita è dimenticata. Tutt’al più può soccorrere il desiderio. Il desiderio di una catarsi dal senso quasi ultramondano, di una ritrovata purezza, di un po’ di vita appena discosta dai miasmi dell’esistenza e dalla morte.

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marzo 11, 2010 at 3:26 PM

Recensione a: Ugo Riccarelli, Un mare di nulla (Mondadori, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 227 (gennaio-febbraio 2007), p. 43-45.

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Dopo la morte del padre, Ugo Riccarelli deve avere a lungo rielaborato questo evento così doloroso se accade che in Un mare di nulla spazi, tempi e temi che già avevano abitato il suo precedente lavoro subiscono ora l’effetto di mutarsi e disporsi in maniera affatto diversa attorno alle nuove invenzioni narrative che caratterizzano il suo ultimo romanzo.

Si amplia lo spazio d’azione, itinerante tra i paesaggi appenninici toscani, quelli prealpini piemontesi e il brullo Atlante nordafricano. Si contrae l’arco storico entro cui l’intreccio si colloca, ridotto quasi del tutto a quello del ventennio fascista, fino al tragico 8 settembre e, già prima, alla veloce disillusione sulla possibilità di guadagnare un «posto al sole» tra le grandi potenze coloniali europee. Ma, soprattutto, come per effetto di una stringente legge fisica, si riduce il volume dedicato allo sviluppo delle vicende familiari che avevano animato precedentemente Il dolore perfetto, aumentando, all’interno di queste che pur resistono, il peso del rapporto tra il protagonista –il fantasma di un padre trasognato narratore di fatti e memorie– e il figlio, gravemente ammalato, sospeso tra la vita e la morte da una macchina che lo aiuta a respirare.

Un legame di affetto e dolcezza che, nel dar vita ai fatti che il genitore rimemora e tramanda, comporta la presenza di una sorta di doppia voce narrante. La prima, diretta, del figlio, che riporta il racconto dalle parole –che al lettore giungono indirette– del padre, ma che, per quanto mediate (cristallizzate) dalla scrittura, sono le uniche ad avere il privilegio e il potere di ritrarre fedelmente, filtrare o manipolare a piacimento la realtà, di far conoscere al figlio (e al lettore) i fatti, a questo punto non si sa più se veri o falsi, ma non importa, di cui si sostanzia il romanzo. Il che, oltre a richiamare alla mente la mitica genesi della scrittura dall’oralità, richiamando nel contempo la fabulistica superiorità della seconda sulla prima, lascia riflettere anche sul gioco di sincerità e di menzogna, sull’abile equilibrio tra realtà e invenzione che si costruisce quando queste servano a preservare la vita, a lenire il dolore, a dilatare il più possibile il tempo della fine ingannando la morte.

Ed eccezionali, quasi mitologiche (come in ogni romanzo del realismo magico che si rispetti)  appaiono anche le origini di questo «mago imbroglione», nipote di un marinaio, Mondo, uso a solcare la violenta materia liquida e ventosa degli oceani, a sfidarla o a ripararsene imbrigliandone la forza con «incroci di funi che sapevano tenere fermi insieme pali e paranchi, gallocce e ormeggi, solidi come pugni eppure leggeri come sogni, nodi di bitta e corde doppie capaci di reggere la forza di un tifone ma anche di sciogliersi al tirare gentile di un bambino». Abilità che nel protagonista (grazie alla madre, una spigolatrice «annodata» invece alla terra e che lo ha partorito sotto un cavolo) si trasfondono e si mutano nella capacità femminile di legare a sé e di sedurre con la parola, ma che si manifestano anche in qualcosa di più (e con prepotenza, non a caso, al momento della morte di suo padre, il capomastro del paese), cioè nel magico potere delle parole di imbrigliare le onde della paura della morte, fuggendone attraverso il mezzo dell’illusione creato dalla parola. Quasi che il dolore, quando sia troppo forte per esser sopportato, spinga a costruire qualcosa d’altro a lato di una realtà troppo dura, una creazione artistica che serva a lenire i dolori che la vita porta con sé. Una fuga da fermo, non attuata fisicamente, insomma, che si realizza così anche perché, in fondo, «ogni buona illusione», come ogni buona menzogna, ha «bisogno della realtà» del «contatto dei piedi con la terra».

Il resto della famiglia, che il protagonista raggiunge in seguito è, invece –in senso riccarelliano– tipico luogo di scontro tra figure nettamente contrapposte ed estremizzate, ma comunque sempre semplificative di particolari atteggiamenti di vita. È il caso del contrasto tra i due zii «piemontesi», l’uno titanico e volubile inventore, costruttore di macchine bizzarre (metafora della creatività gratuita, ormai un topos dei lavori di Riccarelli), capaci, tra l’altro, di attirare con positivi risvolti la particolare attitudine al culto mistico della tecnica dei nazisti occupanti; l’altro opportunista, violatore del «patto alchemico» col suo maestro a cui ruba, nella speranza di facili e rapaci guadagni, le formule di distillazione più segrete. Tranne poi a spaurirsi per l’arrivo della guerra, del redde rationem apocalittico, e costruirsi in giardino non si sa bene se un rifugio o un enorme loculo dove seppellirsi vivo con la sua angoscia, ma che poi mette meritoriamente a disposizione –come una sorta di piccolo Perlasca in predicato di mondarsi l’anima– di rifugiati, renitenti e perseguitati.

Nel frattempo, l’artistica e creativa menzogna del nostro eroe ha modo di confrontarsi, ben al di fuori degli stretti confini familiari, con quella ben più prosaica e distruttiva che la storia gli riserva. Quella messa in piedi dal regime di Mussolini –ben più temibile e invisibile «grande attore» (per definirlo efficacemente con l’anarchico Camillo Berneri)– che lo spedisce, con tanti altri ignari e raggirati compagni di sventura, in uno dei tanti cubi di sabbia coloniali. Strani scenari che lo vedranno contrastare con umanità e inventiva le terribili brutture della guerra e del deserto, questi sì proverbiali grandi mari della morte in cui perigliosamente avventurarsi. Ed è proprio tra questi flutti, una volta prigioniero dei francesi, che il magico illusionista incontrerà se stesso e il proprio buio abisso interiore, dalle cui onde, questa volta, gli sarà impossibile salvarsi.

Una tempesta perfetta, stavolta, che lo sommerge di odio e amore, e che lo mette nella brutta situazione di lasciarsi vincere, fatalmente, da un istante incontrollato. Odio per lo spietato Laplace, metafora stessa del colonialismo più duro, una sorta di potente stregone che arricchisce il suo antro di inquietanti oggetti, feticci che paiono imprigionare per sempre anime, probabilmente delle innumerevoli vite che il francese ha strappato. Amore che lo lega agli irresistibili occhi berberi di una donna, schiava di Laplace, che spingeranno il protagonista a confrontarsi per la prima volta con una forza superiore alle sue magie. Tanto da scontrarsi più volte con Laplace fino a ucciderlo, uccidendo così anche le sue abilità, fino a perdere il suo stesso amore che si dilegua nel deserto pronunciando come una folata di vento il suo nome, Aisha, sulle cui ali scompare, forse anche incapace, come ogni ex-schiavo, di apprezzare subito la libertà donatagli, di sciogliere velocemente i pesanti nodi col passato.

Non sappiamo, non sapremo mai se, seguendo l’eredità paterna, anche il figlio abbia sentito scrivendo, come nell’esergo di Pessoa che apre al libro, la necessità di superare la sincerità quando si narra, se ci abbia, insomma, anche un po’ lui ingannati. Ma non è questo il punto se la lettura ci avrà avvinto al libro come un nodo stretto, tranne poi a sciogliersi con un soffio al momento definitivo di chiuderlo.

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marzo 11, 2010 at 3:18 PM

Recensione a: Domenico Starnone, Prima esecuzione (Feltrinelli, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 236 (gennaio-febbraio 2008), p. 46-47.

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È un libro complesso e ricco di temi intriganti questo Prima esecuzione di Starnone. A partire dalla constatazione che è un racconto di un racconto.

Uno scrittore assiste a una lite: per futili motivi un uomo insulta ferocemente un’extracomunitaria. Preso a sua volta dall’ira, lo scrittore spintona malamente l’uomo con il rischio di trascendere oltre. L’accaduto genera nell’aggressore sensi di colpa sui motivi che gli hanno lasciato oltrepassare così il segno. In più, le conseguenze provocate dall’alterco non tardano a raggiungerlo attraverso poco chiare richieste formulate dalla figlia dell’uomo da lui affrontato, intanto ammalatosi in seguito al litigio. E qui già i temi, strutturali nella narrazione di Starnone, della colpa (che sempre riverbera il suo male sul corpo), della violenza e della memoria di quest’ultima, che riportano lo scrittore «alle volte in cui era stato definito un bambino buono, un alunno di buona condotta, un buon ragazzo, un buon uomo, una persona buona» pur sapendo di esserlo «solo grazie all’ingabbiamento di una ferocia congenita» pronta a esplodergli dentro.

Sennonché  la narrazione molto si complica per il fatto che lo scrittore va già  da tempo stendendo un suo romanzo, Domanda di risarcimento, dedicato al riaffacciarsi in Italia del terrorismo dopo la stagione degli anni di piombo. Protagonista ne è Domenico Stasi, un vero e proprio doppio della voce narrante, un vecchio insegnante collocato in un precario stallo tra una rabbia di natura politica e una sorta di indifferente distacco e inerzia all’azione. Inerzia a un certo punto messa alla prova dall’incontro con Nina, una vecchia alunna, ora indagata per partecipazione a banda armata e, al contrario, sollecitata da Augusto Sellitto, un altro ex alunno diventato poliziotto grazie alla stessa sete di giustizia trasmessagli dal professore. E va notato che un po’ tutta la narrazione starnoniana è giocata su questo continuo rampollare di opposti da una comune sorgente, quasi una sorta di progressivo aggiustamento del giudizio attraverso un’acquisizione di nuovi punti di vista su un medesimo soggetto.

La donna, in breve, lo incarica in sua vece del ritiro di un misterioso pacco, la pistola contenuta nel quale dovrà servire all’esecuzione di un bersaglio politico.

Tutto il romanzo finisce dunque per sviluppare una complessiva riflessione attorno al tema della violenza, della necessità politica di una «violenza difensiva» e/o, come si sarebbe detto in altro clima storico, di un’«azione diretta» violenta dei «buoni» contro le ingiustizie del mondo. Ciò pur nell’assoluta chiarezza di orizzonte storico in cui il racconto si colloca, che è quello odierno. Quanto descritto mai ci dice, infatti, di cellule terroristiche, di azioni a mano armata, di contrapposte posizioni politiche o di scontri ideologici (né si è dimenticato l’effetto di vero e proprio straniamento creatosi alla notizia dell’omicidio D’Antona proprio poco prima dello scoccare del nuovo millennio). Il romanzo, insomma, non subisce derive giallistiche o tipiche dell’intrigo a fosche tinte politico-complottarde. Positivamente il libro ci sembra, invece, più figlio del distacco operatosi verso gli anni di piombo (con buona pace della «sindrome di Peter Pan» di cui ancora è affetta parte di quella militanza), più coinvolto com’è nelle relazioni e nelle lacerazioni esistenziali che Starnone man mano lascia detonare nei personaggi, più giocato sulle polisemie e sottili ambivalenze generate dalle parole.

Stasi non è un personaggio a tinte decise, come oggi (soprattutto nel cinema) si tende a rappresentare i militanti che presero parte alle vicende degli anni ’70. Tuttavia resta sempre in lui, dibattuto tra opposte forze e dubbi, la provocazione quotidiana di ragioni paradossali (politiche e personali) che pure lo spingono a schierarsi per una troppo inflessibile aspirazione a una sorta di laica santità e alla giustificazione di quanti siano alla ricerca di un Paradiso in terra generato dalla violenza degli oppressi. Stasi è un cattivo maestro improvvisamente spinto a passare ai fatti, sollecitato a uscire dal guscio piccolo borghese delle buone maniere e di una violenza costantemente dressata che non gli risparmia sfide di coerenza e una continua sensazione di inadeguatezza dovuta all’età, ma anche al fatto che è uno studioso, un contemplativo. Di più. Stasi è un personaggio che cerca disperatamente di riaffermare, sul piano ideologico e personale, una coerenza resagli difficoltosa da un mutato contesto storico-sociale.

A questo punto, non meraviglia se pure il romanzo, alla ricerca costante di una sua coesione narrativa, inizia a manifestare un certo malessere. Procedendo nella sua stesura, la scrittura comincia a mostrarsi in tutta la sua precarietà, la struttura a sfaldarsi tra le mani del suo autore (e del lettore con lui) come un pezzo di scisto particolarmente friabile. Accade, infatti, che il romanzo, a furia di tagli e riscritture, si è trasformato in una «piovra tentacolare», troppo problematica, troppo ricca di temi e piste appena abbozzate e abbandonate, vittima di derive saggistiche, di cul de sac narrativi, di dialoghi e narrazioni improvvisamente goffi alla rilettura dello scrittore.

L’indagine sui perché di tale viluppo a questo punto si divarica. Su un piano esterno all’opera, infatti, si colloca il giudizio di Starnone che pone un problema di forma storica del romanzo. Prima esecuzione sarebbe così «un racconto di un racconto mai compiuto. Non [una] metanarrazione, ma una forma di narrazione che funziona solo per quei temi che non possono avere un compimento narrativo pieno. Il segno che oggi c’è una difficoltà a portare avanti una narrazione su specifici temi. In questo caso la violenza». E ciò per l’assenza di un modello già pronto, dovendosene sperimentare, giocoforza, uno all’interno dell’inadeguata narratività novecentesca.

Su un piano interno, invece, investe in pieno il lavoro dell’autore-demiurgo, il quale si trova, invece, a dover usare, per scrivere, i materiali della sua memoria e, in mancanza d’altro, della sua quotidiana esperienza delle cose. Così l’atto di uccidere, che lo scrittore mutua da ricordi di anni prima. Pagine, quelle dedicate alla morte data a un capitone e poi a un pollo, scritte magistralmente e che dell’atto restituiscono, nell’impastarsi di verbo e sangue («forse il culmine dell’orrore è nell’insorgere del discorso che lo dice»), la ferocia tensiva e lo stravolgimento emotivo. Un registro dagli esiti infine scartati, inadeguato e notevolmente sovraccaricato com’è di senso rispetto alla freddezza richiesta nel premere un grilletto in nome della Giustizia per la «moltitudine degli schiavi del Disotto», tuttavia limpidamente sgorgato, invece, dalla contraddittoria furia omicida che lo ha investito al momento di difendere l’immigrata. Sennonché questa operazione continua di travaso e interpolazione dà il colpo di grazia al già precario equilibrio del romanzo operando pure uno scambio tra i mondi e i piani di riferimento di Prima esecuzioneRichiesta di risarcimento. Ma la letterale catastrofe non si arresta qui, se l’invenzione irrompe alla fine nella realtà, trasmutando identità, rubando e ribaltando i ruoli per cui, nell’incalzante finale, più non si capisce chi sia il mandante dell’omicidio e chi lo sceneggiatore il quale, sperimentando opposte teorie «comportamentistiche» sull’insegnante, a questo punto lo ha ridotto a una cavia chiusa tra le pareti trasparenti di un impossibile romanzo.

Alla fine nulla resta indenne. Anche le parole («prima», «domanda»,  «esecuzione», «risarcimento»)  come particelle colpite da un bombardamento atomico, si scindono e si trasmutano rivelando finalmente agli occhi del lettore la propria ambiguità di senso.

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marzo 11, 2010 at 2:59 PM

Recensione a: Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa (Garzanti, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 223 (luglio 2006), p. 48-50.

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Ad Andrea Cortellessa, già autore di una recente monografia su Ungaretti e ora curatore del volume dedicato a Elio Pagliarani, non sarà certo sfuggita la spiccata abilità recitativa che ha accomunato, quasi un richiamo da un capo all’altro del secolo trascorso, l’autore di Sentimento del tempo a quello di Lezione di fisica. Rauca e graffiata, la voce di Pagliarani, ma con un fondo caldo e pastoso di pipa («pacifico bisonte/sì, ma non sempre») che ogni tanto si offre all’ascoltatore, se faticosamente riesce a rintracciarla in cd dedicati o in alcuni siti Internet. Una recitazione altamente performante, ben capace di modulare fascinosamente pause e timbri elaborati inseguendo quella forma-forza teatrale in grado di rompere «le stratificazioni del pubblico» o costruendo i suoi «recitativi drammatici plurilinguistici», meglio, polifonici, così «epici del quotidiano». E verrebbe voglia, a questo punto, di ripercorrere le parole quasi mitopoietiche di «Storia di amicizia e poesia»: vivo ricordo lasciato da Walter Pedullà a un numero dell’«Immaginazione» (190/2002) dato alle stampe in occasione del settantacinquesimo genetliaco del suo grande amico. Un intervento teso a rimarcare lo stretto legame tra scrittura e vita in Pagliarani proprio attraverso la mediazione di voce, recitazione e gestualità teatrale. Gesti da direttore d’orchestra a disegnare ghirigori, indignati o larghi nel movimento del braccio; piegamenti delle ginocchia «per abbassare il volume fino al soffio di una parola» facendo «ballare tutto il corpo». Un urlo che si nullifica nell’afasia metonimica di un verso per riprendere poi il vento con successivi, modulati, passaggi lirici. «Mai il dramma ha avuto tanto bisogno dell’orecchio per essere recepito. I ritmi di Pagliarani drammatizzano ogni modo di pensare e di parlare».

Questi ricordi anche per restituire un possibile ritratto tridimensionale (versi, voce, gesti), di un poeta «avaro» di tratti autobiografici ma più degli altri capace di uscire fuori dal semplice ambito della parola consegnata al foglio, più bisognoso di essere recitato dall’eventuale lettore a voce alta (un peccato non poter proporre una consistente raccolta di versi con la sua recitazione «allegata», magari in cd, dei versi di questo bravissimo interprete). Una voce e, aggiungeremmo, una versificazione ultimamente, invero, un po’ penalizzate, almeno a giudicare dai cataloghi e dagli scaffali in libreria, assieme a tante altre che aderirono al Gruppo 63 o che, limitando il campo alla sola poesia, fecero parte del ristretto novero dei Novissimi (eccezion fatta per il solo Sanguineti).

L’iniziativa di Garzanti di riproporre in un’unica soluzione, e con la preziosa introduzione di Cortellessa, tutte le poesie dal 1946 al 2005 prima disseminate nel tempo in un certo numero di edizioni tra loro scollegate, consegna all’autore una sorta di dovuto omaggio o di premio ideale alla carriera ancora, peraltro, di là dall’essere conclusa (e certi, ormai, che «l’opera gli sopravviva» più «di una sola luna»). L’importanza dell’operazione spicca ulteriormente se si pone mente al fatto che non si tratta di un’edizione critica dei testi del poeta di Viserba («ce ne vorrà, per rendere conto della complessità di processi testuali da cui si stratifica la folgorante polifonia di Elio!» ha molto opportunamente commentato all’uscita del volume Tommaso Ottonieri), ma di una raccolta più esaustiva possibile (inclusiva anche dei versi sparsi, ma non di quelli inediti) che permetta, a volo d’uccello, di darne una prima valutazione complessiva. E probabilmente dovremmo anche chiederci se, considerato il momento di sofferenza che la poesia in genere va patendo per le oggettive condizioni in cui versa il suo attuale mercato editoriale, un’edizione «ispessita» potesse rappresentare la soluzione più utile per far circolare meglio l’opera di Pagliarani. Un’opera, come si è già detto, viva, aperta, che si tradirebbe nella lettera non rispettandone la materia ancora fluida e di utile dialogo con i lettori e i poeti delle generazioni più giovani. Vale, insomma, per Pagliarani proprio ciò che, in un convegno bolognese sul Gruppo 63 (i quali atti sono stati pubblicati da Pendragon), ha recentemente affermato Andrea Cortellessa parlando dell’attualità di Antonio Porta: «Quel che invece interessa, e molto, è il fatto che diversi giovani poeti […] vedano proprio in Porta un modello non tanto in senso formale, istituzionale (cioè linguistico, strutturale), quanto operativo e relazionale». E, poco più avanti, chiosando Giuliani: «più che la testualità in senso stretto conta, infatti, l’attivazione di relazioni di senso tra il testo e chi lo legge, e niente affatto invece (come in molta teoria della letteratura in quegli anni) la feticizzazione linguistica dei testi in quanto tali […]».

Dunque un testo, questo, che raccoglie la produzione di Pagliarani nell’arco di un sessantennio, privo di apparati di note e, soprattutto, di varianti sia pure utilissime a seguire la travagliata e lunga gestazione di alcuni poemi. Un handicap controbilanciato oltre che dalla godibile introduzione, da alcuni preziosi interventi di commento autoesegetico o memorialistico prodotti dall’autore stesso. Ma anche dalla riproposizione aggiornata, in una sorta di ideale parallelismo con la raccolta dei versi, di pezzi critici prima dispersi in volumi e riviste letterarie. Per il lettore, la comoda consultazione di un convivio o produttivo e informale dialogo, insomma, tra Pagliarani e i suoi critici, da Pasolini a Fortini, da Luperini a Sanguineti ecc. Una scelta, del resto, già fatta da altri editori occupatisi dello stesso poeta: basti pensare alle appendici critiche presenti nel volume Mondadori curato, anni fa, da Alberto Asor Rosa (La ragazza Carla e nuove poesie).

Al curatore, invece, il compito di ricostruire la topologia, l’evoluzione morfologica dei testi dell’intera parabola poetica percorsa da Pagliarani. Impossibile riportarne qui tutto il complesso lavoro analitico che, pur confrontandosi con le più tradizionali argomentazioni critiche, ha un suo piglio originale. Basti dire, prima di porgerne al lettore solo i punti salienti, che il saggio di Andrea Cortellessa percorre (e ripercorre) i luoghi della poetica di Elio Pagliarani di tanto in tanto soffermandosi e attendendo, con accurate trivellazioni, a saggiarne in profondità i testi, alla ricerca delle molteplici fonti e delle sottese strutture poetiche, plastiche, stratificate, metamorfizzate. Oppure ricercandone sulla difficile superficie gli improvvisi addensamenti intorno ad alcuni toponimi rivelatori del moderno (nel senso datocene da Walter Benjamin) o ad alcune tecniche di costruzione del testo, rivelatrici dell’orizzonte circostante.

La città, a esempio, e La ragazza Carla. Nella fattispecie la Milano da Pagliarani vissuta da «metecio», la metropoli dal cielo di lamiera in cui si aggira, appena sotto, un’umanità-massa degradata. Una città di parole, dalle complesse stratificazioni ottocentesche e futuriste che, deiettata definitivamente la campagna circostante, si appresta a costruirsi come orizzonte pedagogico dai risultati non univoci (adattarsi o estinguersi?) della ragazza Carla. Un «romanzo» di formazione, questo poemetto, che apre interrogativi non consueti per un testo poetico, fondandosi su un gioco di voci e punti di vista che hanno fatto parlare di una sua strutturale «plurivocità» (e che richiama a importanti pagine dedicate da Michail Bachtin al punto di vista del narratore). Una situazione chiaramente riassunta, nella specifica situazione storico-letteraria italiana, anche dal Fausto Curi di «Mescidazione e polifonia» (ancora in «l’Immaginazione» 190/2002). Elio Pagliarani coglie infatti, secondo Curi, in un momento di crisi della lirica e del linguaggio in procinto di affacciarsi sulla definitiva crisi del soggetto, un mutamento non stilistico ma funzionale della poesia, accreditando a quest’ultima la funzione di distacco tipico della narrazione e importando nel componimento lirico una «plurivocità individuale» e una «pluridiscorsività sociale» tipiche della forma-romanzo. «Non è tanto la langue nella sua ricca inerzia a interessare a Pagliarani quanto sono gli atti di parole a premergli. Per lui, prima di essere comunicazione, la poesia è messa in scena della lingua, la lingua-in-funzione» che è costruzione artificiale, montaggio. Montaggio che richiama, ecco un altro toponimo del moderno visitato da Cortellessa, al cinema, alla tecnica cinematografica. Montaggio (non collage) che destruttura ogni ordine sintattico in un linguaggio saturato dal nuovo, quasi improvviso, scatto del conflitto di classe seguito al dopoguerra e sforbiciando, per dirla con Alessandra Briganti, i «materiali desunti dagli stereotipi del dramma popolare legati alla mimesi neorealista» per ricostruirli in una «serie collegata al modello di scrittura epica espressionista». Montaggio che trova il suo momento di esaltazione, come segnalato da Asor Rosa, in anni di nuova crisi della produzione lirica (siamo tra il ’64 e il ’68), con Lezione di fisica. Una versificazione insolitamente lunga e un momento dopo spezzata, majakovskijana, a «organetto», che si struttura in ritmi nuovi che costringono a una lettura, a una recitazione di taglio teatrale. Uno spazio dove si accumulano aggregati di versi che, ci illustra Cortellessa, rifiutando la suturazione e rinunciando parzialmente alla narratività, si sovrappongono o giustappongono stratificando la loro contraddittorietà semantica. Una tecnica che, con Fecaloro, registra un’ulteriore evoluzione verso una disposizione pressoché casuale dei versi (Cortellessa, non a caso, si richiama all’action painting) che lasciati decantare svilupperebbero una sorta di dissolvenza o nebbiosità questa volta più vicina a certe tecniche fotografiche. E, del resto, proprio il modo della versificazione rende la Lezione capace di accogliere in sé i materiali e la materia (la fisica anche come cosa tangibile, corpo) di cui è costituito: i nuovi linguaggi scientifici, non solo legati alla fisica, ma anche alla medicina, ad alcune risultanze della psicoanalisi (Reich, Fachinelli). Complessivamente una lezione che avviene in un’aula claustrofobica, dove serpeggia il terrore di un conflitto nucleare, dove si ritrova, insomma, ancora una volta il cielo basso, di lamiera, della città della ragazza Carla. Un cielo senza più nulla di manzonianamente provvidenziale, ma che, proprio per questo, resta pure l’unico luogo dove poter ancora sperare, l’unico posto dove può ancora realizzarsi uno scarto morale individuale o tentare una spinta istintiva, «etologica», scrive Cortellessa, alla resistenza, alla sopravvivenza.

L’amarezza di un’epocale sconfitta storica resta, semmai, depositata in La ballata di Rudi, proprio, guarda caso, il poemetto di più lunga gestazione di Elio Pagliarani. Un’opera epica, aperta, sintetica di un quarantennio, infinitamente stratificata nell’accumulo dei linguaggi ancora segnati dalle ferite dell’ultimo conflitto mondiale fino al dissolvimento di quella durezza di vita (inclusiva della possibilità di un suo riscatto morale) che fin qui avevamo colta intatta in tutti i lavori del poeta di Viserba. Dissolvimento segnato, tra l’altro, dalla nuova ambiguità degli stessi rapporti materiali di vita, causa, da un lato, la smaterializzazione delle merci, dall’altro la matura società dei consumi di massa capace di «affogare nella roba» vecchie e nuove generazioni. L’epico svolgersi della Ballata condannato a restare opera eternamente sospesa, epocalmente incompiuta, non esistendo più un orizzonte di valori condiviso né un soggetto a cui trasmetterlo. Un panorama in cui nemmeno un tentativo di ribellione può prodursi se non come mero atto volontaristico. Una constatazione che, secondo Cortellessa, riavvicina sensibilmente l’ultimo Pagliarani alle posizioni del Pasolini «luterano» e «corsaro», fustigatore della società del benessere, a una versificazione più rabbiosa, più legata a una tecnica del Cut-up, che rivela, probabilmente, una difficoltà in più di comunicazione e l’eclissi di quel «soggetto collettivo» di cui Pagliarani era solito essere espressione.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 2:48 PM

Recensione a: Beppe Lopez, La scordanza (Marsilio, 2008)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 245 (marzo 2009), p. 54-55.

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È stato scritto, tra le note stampate nel risvolto di copertina del volume di Beppe Lopez, che La scordanza accompagnerebbe il passaggio del protagonista Niudd’ «attraverso il Sessantotto da un Paese arcaico, innocente e autoritario, a un Paese moderno, in fase di smaniosa “liberazione individuale e collettiva”» fino alla profonda crisi morale, sociale e politica in cui cade la penisola a partire dagli anni ottanta. Il meccanismo narrativo di Lopez sarebbe quello non di «una storia individuale, intimistica, “borghese”», ma quello di offrire «una metafora del paese: dalla miseria al benessere, dall’analfabetismo alla cultura, dal dialetto all’italiano, dai cafùrchi alle antiche case restaurate, dal Sud piagnone e vittimista alla Roma potente e prepotente» («La Gazzetta del Mezzogiorno», 30.9.2008).

Sennonché  una metafora siffatta dovrebbe comunque tenere conto di vicende individuali o collettive vissute sullo sfondo dei principali avvenimenti storici o almeno influenzate dalle grandi passioni sociali e politiche del Novecento. Tanto che sempre il risvolto di copertina anticipa al lettore una prima parte del romanzo (intitolata «Andata») dedicata ai temi «dell’emancipazione, della speranza, delle utopie». Ma le vicende del gruppo familiare che si avviano (siamo a Bari negli anni venti) con l’unione tra la contadina Momen’ e il commerciante Antonio ’Ndramalonga restano piuttosto estranee alle principali vicissitudini del secolo anche in chiave locale (avvento del fascismo, guerra e ritorno della democrazia, lotte contadine e operaie, boom economico e avvio del consumismo di massa ecc.) per convergere attorno alle storie che stanno alla base della nascita e della formazione sentimentale e sessuale del giovane Niudd’. Il che declassa la metafora, una volta privata delle chiavi di comprensione dei meccanismi socio-politici che dovrebbero generarla, a una serie di fatti frammentariamente allusivi e dalla genesi poco intelligibile. Non è un caso che l’unica ricostruzione delle grandi aspettative di riscatto sociale incarnate nella figura di Di Vittorio può intervenire a romanzo ormai più che avviato (siamo a pagina 83) e in modo del tutto episodico e scollato dal restante andamento del racconto.

Certo resta la bella e dolorosa storia personale e familiare di Niudd’. E con La scordanza Lopez si dimostra, se mai ve ne fosse ancora bisogno, scrittore abile nel tessere trame, nel disegnare personaggi, nel dare vita a dialoghi assolutamente godibili. Ma proprio la decisione di prestarsi forse a toni più immediatamente affabulatori consegna gli avvenimenti a una dimensione sostanzialmente atemporale, pur non volendo negare nella maniera più assoluta un’ambientazione calata in un mondo povero, arcaico, dove è rappresentata un’innocenza spesso preda della durezza e dell’indifferenza dei rapporti umani. Scelta di un registro che finisce per ostacolare, peraltro, anche una trattazione più approfonditamente psicologica dei probabili «rodimenti interiori» e delle ambizioni di un protagonista che, a parte qualche accenno ai suoi sogni e alla sua gavetta nei giornali locali, ritroviamo nel ’75 quasi di colpo a Roma, ormai lanciato verso la carriera giornalistica.

È questa la parte che chiude la prima sezione dell’opera e che, invero seguendo sempre più il personale che il politico, anche tra accenni alla vita di redazione e a frequentazioni femministe, ci narra della liberazione sessuale vissuta dal protagonista (quel «fare cich-e-ciach dentro a letti diversi») che lo porterà a lasciare la moglie (emigrata per lui abbandonando brillanti prospettive professionali a Bari) dopo la nascita della figlia Saverin’.

Con la seconda parte del romanzo (il «Ritorno») giungiamo ai Duemila. Niudd’ torna definitivamente a Bari a bordo di una Errequattro rossa dopo aver venduto l’appartamento romano e letteralmente bruciato tutte le tracce del suo passato, della sua memoria. È ormai la storia di un uomo colpito da una tragedia familiare terribile che, affiorando mano a mano nel romanzo, gli renderà impossibile ogni altra fiducia nel futuro. È la metafora (questa sì) della crisi di un intellettuale colpito e disilluso dalla fine del processo di democratizzazione e di riscatto delle classi popolari in cui s’era identificato, simboleggiato dall’assassinio di Moro. Imbevutasi di scordanza, «l’Italia non ha più avuto la storia che voleva e si meritava».

Qui lo scarto con i toni della prima sezione si fa più pronunciato. Attraverso i ricordi e il monologo interiore, più stringente si fa il legame con i fatti socio-culturali dell’ultimo trentennio, la sofferenza e i rammarichi personali rincorrono quelli per la sconfitta politica, le primitive motivazioni progressiste-egualitarie riconvergono certo verso la ricerca di una diversità legata alle radici, ma anche verso spinte a tratti fortemente involutive.

Però accade che proprio l’eccessivo accumulo di ricordi e analisi non diluite per tempo nel romanzo provocano ora uno stile prolisso, a tratti diaristico o cronachistico, altre volte saggistico. Davvero a tratti si ha la sensazione di leggere due libri giustapposti che quasi richiedono altrettanti tipi di lettore. Né soccorre, soprattutto in questo frangente narrativo, la scelta del dialetto operata da Lopez per l’intera stesura del romanzo. Pur senza voler adottare i netti giudizi di Massimo Onofri sulla «retorica del sublime basso» c’è da chiedersi se e in che maniera il «dialetto» sia in grado di raccontare e spiegare i processi di modernizzazione del Paese senza soverchie goffaggini e inadeguatezze. Tanto che nei frangenti in cui Niudd’ rilegge i pochi appunti salvati dal rogo rievocando i passaggi politici più significativi dei settanta/ottanta (fin nella mimesi della terminologia politica e ideologica allora in uso), la coloritura dialettale si spegne infatti pressoché del tutto.

Il che dice quanto sia difficile raccontare in un unico affresco tutto il Novecento, tutta la sua frammentata complessità e le sue controverse continuità con un unico sguardo e con un unico linguaggio (dialetto, lingua nazionale, politichese che sia).

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 2:36 PM

Racconto: Mr. Suicide

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’Immaginazione», n. 214 (agosto 2005), p. 9-12.

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Sì, insomma, il 29 Ingromarket era ancora là, l’autista si leggeva il giornale e allora mi sono accesa un cicchino. Saranno passati quattro o cinque minuti, sì, poi ho incominciato a incazzarmi perché st’autobus non parte ed ero già montata su. Là davanti già qualcuno cazziava il conducente e allora mi sono fatta le cose mie. Però ho sbuffato. Qua c’è gente che va a lavoro mica a Gardaland, ogni santa mattina! Poi si lamentano che nel 29 di gente ce n’è poca. E grazie! se ne salgono tutti sul 30 che almeno fa lo stesso tratto per un pezzo fino al palazzo dell’IBM e parte in tempo. Oh, io insomma c’avevo il responsabile che veniva da Roma per briffarci sul controllo di gestione e in un’occasione così non si può mica fare tardi. Ero imbufalita a bestia! Firenze del cazzo. E dire che una dopo che ha studiato giù finisce a trovarsi lavoro in questa merda di città. A misura d’uomo, dice. Che stronzate! Milano era meglio, era. Vuoi mettere le possibilità. Poi c’è il mio uomo a Milano… La prima volta che l’ho incontrato sono dietro le scartoffie, carichi, scarichi per tutte quelle Lettonie Estonie e Lituania e gli faccio: “dimmi che sei un angelo e sei venuto a liberarmi da questo carcere del caucaso” e lui si è messo a ridere e ha detto sì e poi siccome stava due giorni ci siamo messi insieme. Poi sono salita io nel week-end successivo e ora ci si telefona e ci si vede ma non si può nemmeno dire perché lui è un nostro cliente e se lo sanno in azienda mi segano.

Vabbé, insomma, ’sto benedetto autobus ha preso per la strada dove c’è il tribunale dei minori e poi ha fatto un sinistra destra, al solito, tirando per Porta a Prato dove sale altra gente. Quando montano su mi verrebbe da gridargli: “O ’he vu vulete tutti su codesto autobus?”. Il fiorentino mi sta sul culo. ’He vu vulete… vu? E se la tirano con ’sta c e ’sta t e ’sto vu che dopo dieci minuti che soffi e aspiri ti senti stonata tipo muccapazza. No no, chiuso. Con ’sta parlata è impossibile farci pubbliche relazioni. Come se i fiorentini poi andassero d’accordo con qualcuno. Proprio di default non vanno d’accordo. Lo dice pure il mio uomo che è nei computer che gli abitanti si chiuderebbero tra le mura forever, a sud ma pure a nord. E poi giù a rincoglionire come i senesi, che a furia di accoppiarsi tra di loro nascono tutti mongoli, dice…

Insomma, la faccio breve. Più avanti, dopo la deviazione del percorso solito che anche quella fa perdere un sacco di tempo, c’è via Mercadante che c’è il ristorantino e le autorivendite… sì, insomma, dove c’è Stefan che fa angolo e la Grazia dice sempre che non ci andrebbe mai perché c’è le cose troppo a poco e si litiga con quell’altra, come si chiama, che gli dice invece che proprio per questo se, per dire, una prende un capo che poi si rovina non ce lo piange… ecco, se vai di là per via Toselli dove quell’idiota di rumeno s’è fatto infilare nel tritatutto della nettezza, poi esci in piazza Puccini e c’è il pontino, non mi ricordo mica se è sul Mugnone. Comunque è un ruscellino di cacca che c’ha più zoccole a giro che acqua. Scavalchi e poi segui tutti quei palazzi con i fiori alla finestra, il primo sexy shop, il negozio di divani tipo di classe e le filiali di banca. Insomma, proprio lì, alla fermata successiva ci sono le vetrine di un negozio carinissimo che c’ha le cose dell’Alessi. Come mi fanno impazzire! Ci sono i cestini d’acciaio con gli omini King Kong… tutti quei bambini che si tengono per mano e a me mi viene voglia di averne uno tutto mio. Insomma, una volta gliel’ho detto pure a mia mamma che mi andava di scodellare un marmocchio. Già. Uuuh, quella s’è incazzata a morte! Quasi quasi mi ci manda dalla rabbia… e non sei sposata e quando la metti la testa a posto e finiscila di dire tutte ’ste fesserie e che aspetti a trovarti una persona colla testa a posto e la città a voi giovani vi fa venire le fantasie… ooh, oh! calma e gesso che ho solo scherzato! Così si sclera!

Insomma, vabbé, a un certo punto, ho ripreso a guardare un po’ la gente che era nell’autobus e chi ti vedo? Non era Peppino? Il paesano mio. Allora era lui che si litigava coll’autista. Con quella faccia da sfigato che si ritrova. Sempre triste, sempre incazzato, sempre dentro a quel suo impermeabile nero che sembra gobbo, sempre colla barba e la testa a terra come un lampione… ma se era furbo a quest’ora non faceva lo schiavo alla ditta di spedizioni. Col lavoro che aveva prima… ma poi se l’è fuffato. Ma insomma, quando non c’è amor proprio, non c’è voglia di lavorare… Secondo me sarà anche buono ma un po’ se la tira. Fa il filosofo, fa. C’ha pure la faccia bianca.

Insomma, sì, l’altro giorno lo trovo al Dolce Vita. Un posto figooo! Un sacco di gente ganza! Però lui sempre una faccia che manco se gl’era morta la mamma… M’ha appena cagato e poi è andato via, mani in saccoccia nel suo impermeabile come se avesse fastidio di tutto. Tanto è così anche quelle poche volte che si fa vedere al paese.

Insomma, nell’autobus gli faccio un sorriso per salutarlo. Ha risposto appena, il bastardo. Cazzone… Vabbé allora ho incominciato a sentire la Giovanna e la Lorenza che parlavano vicino a me tutte scandalizzate ché avevano sentito la figlia raccontargli le cose che succedono a Castel Ruggiero. Sì, insomma, e mi è tornato in testa quando ho raccontato a Davide e Antonio che là sopra c’ero stata quando stavano facendo le riprese per un film e c’erano un sacco di finocchi tutti nudi a giro insieme ai nudisti soliti e allora anche noi ci siamo spogliati e ci siamo sdraiati sulla riva del laghetto e i miei amici mi hanno visto e hanno cominciato a sfottere: madonna che patonza che c’hai, mado-onna che patonza! Però poi Davide mi ha gridato che là non ci andava che era un posto del cazzo e lo faceva vomitare e quell’altro rideva come se avevo ammaccato chissà quali palle…

Insomma, a quel punto sono montati su i controllori e chiedono i biglietti. Che facce di merda, pareva che erano usciti dal carcere. Uno modello Sandokan con i capelli tutti a mazzetti, lordi che è una bellezza, un altro col melone e una barba tipo mi sono svegliato mò mò. Insomma, tutti e due con una faccia alla che me ne fotte che te lo raccomando. Hanno messo su il cartellino e hanno cominciato a fare il giro, ma tanto di cinesi non ce n’erano… sì, quelli che li vedi che vanno in giro all’Osmannoro e quando li beccano senza biglietto stanno tutti muti e sorridono e fanno moine e poi scendono e stramaledicono i bigliettai ma sempre gridando a bassa voce che sembra che si strozzano rafanculo stlonzi rafan-cuu-lo!! Insomma, alla fine della fiera non si vanno a fermare da Peppino? Tira fuori il biglietto, lo rigira, fa segno, gesticola un poco e quell’altro, il controllore, coll’occhio spento che fa sì sì colla testa modello asino. Allora ho pensato che mi sa che se lo stavano inchiappettando. Insomma, dopo quella risposta a culo il paesano s’è incazzato e ha protestato, ma quell’altro se see! faccia di tolla gli ha consegnato la multa come se era su un altro pianeta. Intanto però eravamo arrivati alla seconda deviazione. Sì sì, quella dopo la caserma dell’Istituto Geografico Militare in via Torello Baracchini. O Flavio Baracchini? Vabbé, tanto era sempre più tardi e quell’autista fottuto continuava ad andare a due! Ma cazzo, perché ci mettono sempre a lui? Non lo possono spostare a un altro orario, a un’altra corsa? E ho pensato mannaggia a me che non avevo preso il 30, uffa! Insomma, dopo la rotatoria e il sottopassaggio l’autobus s’è fermato alla centrale delle poste e io dal posto di dietro guardavo i manifesti attaccati al divisorio di cemento dall’altra parte. Un bambino tipo albanese giocava da solo nel campetto di palla a canestro di via Gemignani. I manifesti erano del circo, di scuole di karatè, di mostre e di politici. A un certo punto l’autobus ha aperto le porte e i controllori se ne sono scesi parlando. E mi ricordo che ho guardato un manifesto che c’era un vecchio colla coppola e sotto scritto benvenuti nell’era dell’ottimismo e ho sentito come un’ansia e mi s’era bloccato il respiro proprio quà. Insomma, sì, poi ho sentito gridare aspetta aspetta! L’autobus ha mezzo piantato e l’autista smadonnando ha riaperto la porta. Peppino s’è precipitato fuori. Chi lo sa perché mi sono alzata e sono andata a spiare dal finestrino di dietro. Mentre ’st’autobus s’allontana ho guardato che Giuseppe s’è avvicinato ai controllori, ha tirato fuori la pistola e ha camminato veloce verso di loro col braccio steso a fianco. I tipi si sono bloccati hanno parlato con Giuseppe ma Giuseppe ha alzato la pistola e ho pensato che mo’ scherza e poi cazzo mo’ li accoppa, ma poi è successo che Peppino s’è puntato di colpo la pistola alla testa e s’è sparato e m’è sembrato di vedere come una cosa che volava a lato verso i manifesti. Poi ho visto il bambino che si girava dalla parte del cemento e la palla saltava sul cerchio di ferro del canestro e faceva canestro e Peppino è caduto per terra.

II

– Senta, scusi, mi spiega perché ogni volta che c’è lei questo autobus parte sempre in ritardo?… Come sarebbe a dire che siamo in orario se lei doveva partire alle 8 e 5 e invece sono già e 11! Così anche oggi mi farà fare ritardo! Glielo spiega lei alla mia azienda che ogni volta che è alla guida sforo di almeno un quarto d’ora?… Protesti? Ma se sono giorni che parlo con le ragazze del numero verde e gli dico che lei è un cialtrone e che non siete capaci di assicurare un servizio uno! No, anzi, non volete assicurare nemmeno un servizio, non volete assicurare un bel niente… Non le interessa?… Che lei faccia solo il suo mestiere ne dubito, visti i risultati…

Ma sì, ma sì, tanto questo che soddisfazione ti dà, il cerebroleso! Via almeno s’è deciso a partire… Troppo recupero. Così la faccenda del permesso per andare in banca si mette male. E anche lì, se hai un certo conto basta la telefonata, invece a me a pappagallo, con quella risatina saputa del cazzo: “ma ’un lo sa? è la prassi, e per il codice i clienti devano venire direttamente qui in filiale… sa, signore, e c’è la privacy e c’è le truffe e c’è…” Ma cristo, truffa che? Non lo vedono che sul mio conto ci sono rimasti solo 108 euro e virgola? Come non sapessero che ci vuole mezza giornata per uscir fuori da questo buco d’Osmannoro. Cazzo, 108 euro… e ora come faccio… ma io di telefonare ai miei, quelli non mi danno più un centesimo e forse nemmeno ce l’hanno… e io coi telefoni ho già dato… cinque anni a sentir latrati, le richieste stronze dei fanatici di gadget, le assurdità, le confusioni, le tariffe, gli abbonamenti, le fasce, gli ordini… basta, basta! basta al full time, basta al tempo indeterminato, ma è vita senza mai una gratifica, un bravo o un “toh, sciala, un aumentino”? Cazzo, un altro po’ invece e finisco barbone sotto la Feltrinelli, tra i cartoni, a chiedere l’elemosina in ginocchio col cartello al collo: “vengo di terroиia, prego sigиiore carithà”!

Va beh, va beh, facciamola finita, dai… Piazza Puccini… cos’è quello? “Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini”… una mostra. Ma con che ci vado?… ci vorrebbe un’altra vita… già, perché no? mostre, teatri, cinema, libri… ce  ne vorrebbe un’altra venuta meglio, magari… e poi trovare un panorama chiaro e caldo con questa luce dolce che resta tra i pioppi e l’acqua, che bacia le fioriere a pergolato sui palazzi dove c’è ancora la Firenze della metà dei sessanta… quante volte mi ci portò papà? due forse, ma tempo dopo, e mi parlava della mitica Marzocco, dei Vallecchi e ora non c’è più nulla… più avanti no… lungo via Baracca i muri scuri o scorticati, le pompe di benzina… però adesso alla fermata c’è il negozio con gli oggetti della Alessi… il vecchio Firebird di Venturini… il piccoletto di Giacon… guarda lì che denti, gialli di rabbia e la catena al collo fino al tappo… blu, come tutta l’acqua pesante di stress che lascerà andar giù, piano per vortici, fino alla fogna. Mr. Suicide… e ogni volta che gli tiri il collo lui resta impiccato tra il mondo di sopra e quello di sotto ed è sospeso e non è vivo e non è nemmeno morto… ogni volta apre solo una porta verso il basso, come un guardiano… e se è così, quando sarà mai stato che ho cominciato a fare il tira-tappo… forse dopo Roma, quando a un tratto per lei non sono stato più nulla. Non più un sussulto, non più un batticuore, nemmeno un amico per cui valesse la pena di superare qualche paura.

A Roma… l’aria dolce del mattino, la pioggia alle spalle lungo il viale dei Prati Fiscali, tra i filari di platani… ma tutto, forse, era evocato solo dal tenerti le mani, le dita così leggere, più mature delle mie. Ti chiesi a casa come va, ma io sprofondavo tra le efelidi e i tuoi capelli neri. Sprofondavo per la prima volta senza ostacoli, senza imbarazzi o accorgimenti… lungo la teoria di negozi che costeggiava i viali siamo entrati a comprarci dei panini. Sulla porta del market due clown strozzavano lunghi palloncini per i bimbi… Poi la sera sul Gianicolo, tra le chiese nella luce ocra dell’antico, tra putti e piccioni e aquile e visioni apocalittiche. E ancora più giù tra le ville, le strade, tra i giardini che rispondevano al nostro silenzio. Giù, fino al traffico caotico dei lungotevere la notte. E ancora a perdersi fino a Piazza Navona come se ci fosse stato impedito per troppo tempo bere una città intera, la musica, due birre. Nel tuo giubbotto di pelle nera mi parlavi della voglia di imparare a fumare prima o poi, che non c’eri riuscita nemmeno al liceo… l’ultimo tuffo fu nel buio in albergo, i fruscii, le chiacchiere, i gemiti e la tivù accesa senza sonoro, solo per imprimere il buio di qualche fugace colore, innestati come le marze che incastrava un giorno zia Anna in campagna, stretti di morbide fruste di rosso vincastro e schizzi di pece e pezzi di sacco e poi il tintinnio dei tuoi bracciali d’acciaio e un giorno mi hai parlato a telefono e mi hai detto che non potevi più darmi…

– Eh? sì… il biglietto? sì… dove… eccolo. Accidenti… mi scusi, uffa, ho dimenticato di marcarlo. Son salito e mi sono distratto a parlare con l’autista… Oh, oh, calma eh! lo so che non le interessa, chi le dice nulla, faccia questa multa… no, scusi, guardi: è un carnet per quattro corse e se osserva bene risulta che gli ultimi tre giorni ho vidimato regolarmente… Va bene, va bene, invece se voi ogni giorno mi mettete in difficoltà con i vostri ritardi chi vi multa a voi?… E allora se deve fare il suo lavoro lo faccia e si risparmi commenti non richiesti. Ecco, grazie, grazie a lei…

No, cazzo, 41 euro… no basta. E ora basta!

– Aspetta, aspetta! ferma, devo scendere!… e vaffanculo anche te con quello sterzo là!… Ohé! facce di cazzo, fermi!… sì sì, proprio a te, faccia di cazzo, e anche a te!… aah, e com’è, ora che hai visto il ferro ti s’è bloccata la parlantina?… calmo? toh! ecco fatto… e il colpo è in canna… insomma per voi chi sono, uno dei tanti incontrati per strada, uno a cui dare tutto in una volta e togliere tutto in una volta… e zitto, cazzo, che c’è da capire? non sono un utente, sono una persona porta rispetto quando parlo! Ma ora ve lo risolvo io il problema… tanto anche per voi due uno è meglio che sparisca, no? non sono un cane, voglio rispetto… tutto per inseguire una gatta sulla ferrovia, travolto dalla littorina che poi l’hanno smantellata due anni dopo, capito? e poi mio padre lo dette a una vecchia che con la carriola andò a buttarlo al fiume ma già da prima il cane era scemo perché se ne stava tutto il tempo con una pietra o un bastone in bocca anche se nessuno glieli buttava… ora ci penso io… se ne stava tutto il giorno vicino alla meta delle felci con quella croce addosso che gli tritava i denti e ne poteva fare a meno di perdere la testa per te che tre giorni fa ti ho vista in quel locale pieno di figli di papà con quell’essere sì lo so che è solo un amico ma che me ne frega quell’essere sudaticcio che non so se somiglia più a un angioletto boccoluto o a un troll che si rasa le orecchie per non farsi riconoscere che parla solo del più e del meno e spara stronzate sul tecnologico… ah, adesso mi capite… con quella bocca che sembra una checca francese… ma io la odio, io ti odio e ora sei soddisfatta solo se tolgo il disturbo. E basta!

E poi ho visto mio nonno. Spingeva le vacche fuori dai cerri per la campagna e nel prato stava il Duomo, la sua massa imponente tra il sambuco, la cicoria e qualche stracco turista tedesco. Il mio mondo è venuto a naufragare qui, il mio mondo perfetto e dimentico nelle tre dimensioni del tempo, avvolto in una calma arcaica dall’odore serale di stazzo e proporzioni architettoniche. E in tutto questo tu non ci sei più e non ci sono più nemmeno io. L’equilibrio che mi davi non c’è più. E finita è anche quella rabbia tanto forte che era solo amore.

III

UFFICIO COMMERCIALE

Gestione Segnalazioni Esterne

prot. uscita 2376

OGGETTO: segnalazioni telef. Uff. Recl.

prot. arrivo n. 3124/04

Egregio Signor Forastieri,

con la presente vorremmo ringraziarLa per quanto segnalatoci presso le operatrici del nostro numero verde e per l’opportunità che ci offre di ricordare come il nostro servizio si svolga nelle strade cittadine con le difficoltà di viabilità che tutti conoscono bene e che penalizzano in primo luogo la nostra Azienda.

Come da Lei segnalato le corse della linea da lei citata in oggetto transitano spesso in ritardo, ritardo che spesso costringe i nostri operatori a riorganizzare gli orari anche in modo immediato, per ridurre al minimo il disagio che ciò causa all’utente.

Questo problema potrebbe essere risolto accrescendo le corsie delle nostre linee protette dalle altre correnti di traffico, problema che ci vede impegnati insieme ai competenti uffici delle Amm. Com. del territorio da noi servito, nell’elaborazione di una proposta complessiva.

Nel particolare delle vie che transitano per via Baracca vorremmo ricordarLe i lavori stradali che ormai da mesi impegnano la viabilità obbligandoci a ritardi non sempre recuperabili.

Rimaniamo a sua disposizione e Le inviamo distinti saluti.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:57 PM

Pubblicato su L'Immaginazione, Mr. Suicide

Racconti: Con le mani nelle tasche

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’Immaginazione», n. 242 (ottobre 2008), p. 6-7.

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Ce ne stavamo mani nelle tasche, alle volte per minuti interi, affacciati ai vetri ampi del capannone. Borse, i cinesi di fronte facevano borse, e li vedevi ostinati come formiche, i visi tirati che s’affaccendavano brigavano cosavano, mai un sorriso, sempre fissi al pezzo o stanchi morti loro e quelle eterne camicine troppo larghe con le maniche tirate su, fino in cima al gomito. Rideva solo quella mamma che se ne stava col piccino, chissà perché, sempre nel cortile di cemento. Girava in tondo e lo ninnava, girava in tondo e questi ti sfornavano scatole e scatole di borse da ingolfarci interi camion, girava in tondo e questi ti portavano fuori tonnellate di strisce di pelle di scarto, girava in tondo e questi ostinati, a catena di montaggio. Quante volte ci avremo discusso sopra, con le mani in tasca? Figlia dei padroni, figlia dei sorveglianti, sorella moglie puttana, so io, di qualcuno?

Mani in tasca guardavamo la roba accumularsi lì dentro anche se i vetri erano lisci di grasso, di fiato, di manate, mai una volta che, tiè!, ci spruzzo il Brill. C’erano cucine, tavoli da lavoro, letti cose oggetti e mai, non uscivano mai, e avevamo l’impressione, noi davanti agli spaghetti scotti e al Tg, che loro continuassero pure dopo le 17, dopo le 18, dopo le 20, dopo mezzanotte, ché il mondo non si poteva fermare se non si fermavano loro e a noi ci girava la testa e ci fumava i coglioni.

E anche quando con le mani sui computer o al pezzo non li spiavamo, loro continuavano e un odore peso entrava e ti diceva che stavano mangiando, un puzzo e sapevi che erano a un certo punto del processo di lavorazione, un olezzo e pensavi, con matematica certezza che questi qua avevano aperto le finestra per arieggiare, ché nemmeno loro forse più ne potevano.

Con le mani in tasca si restava basiti a guardare questa cosa che vedevamo fare quando arrivavano i fornitori. No, mica quelli che a valanga ti scaricano il cuoio i punti e i rocchetti, seee. Arrivavano questi tipi e portavano dei pesci che parevano carpe, ma più lunghe e sfilate. Salivano sul tetto e appendevano all’aria questi cosi. E poi lì a farli seccare e noi si stava male solo a guardarli si stava e menomale dopo un paio di giorni non li vedevi più, scomparsi spariti volatilizzati, i pescioni. Parcheggiavano i camion, portavano su le oche già spennate e le appendevano fuori dalla finestra a dei ganci e qualche mio collega, con le mani in tasca, mi diceva ma porcoddùe, mi diceva questo collega che veniva da fuori, ma allora non c’è mica più rispetto sa’? E santamadonna, che c’è l’aviaria! Venivano i fornitori con i polli che poi sparivano pure quelli dopo due, dopo tre giorni che se ne stavano là a prender aria mentre loro dalla finestra buttavano sotto di tutto, cartoni, tubi, pezzi di borse scartate, buste di patatine, ossi di porco, tutto dalla finestra, nemmeno fossero stati a Shangai.

Dalla finestra guardavamo il muro che ci divideva e solo Liborio se ne fotteva e diceva che per quanto gli riguardava, noi si stava in Italia e loro erano in Cina. E per scherzare diceva che se andavi di là era come se tu entravi e ti trovavi in Cina e avevi fatto un milione di chilometri in due metri e agitava vicino all’occhio pollice e indice aperti a ganascia come se volesse svitare qualcosa, ma era solo per dirti che secondo lui aveva detto una cosa fina, la bestia. O Liborio, e la battuta s’è bell’e capita, ma mica ride nessuno, ché qui siamo tutti sgomenti, sai, tutti sgomenti angosciati, come cazzo fanno questi a campare così. E allibiti guardavamo mani in tasca questo muro che ci sembrava un foglio, eppure era meglio che ci fosse, come quello a Sarajevo, noi di qua loro di là. E poi quando Liborio non c’era ci si chiedeva se Liborio alla fine non aveva ragione non aveva, e ci veniva il dubbio se eravamo noi che non li volevamo tra le palle o loro che se ne stavano chiusi inchiavardati che quasi sembrava c’avessero paura anche di darci fastidio. E tanto più restavano dentro tanto più ci parevano cinesi, tanto più se ne stavano sulle loro tanto più ci parevano più gialli di prima, più formichine di prima, più Fumanciù e Bruslì di prima.

Dalla finestra si sbirciava con le mani occupate in qualcosa di lavorativo che dacci sotto, diomadonna, che questi producono a macchinetta e prima o poi ci mandano via, ci sloggiano pure noi che con le borse false non ci s’incastra nulla. Risparmia e risparmia che le banche dell’Osmannoro scoppiano di ien e poi si comprano il capannone come tutti gli altri che si sono mangiati e ci spediscono via, ché se Hitler la guerra l’avesse fatta così, a tappe, certo avrebbe vinto e basta. Questo lo diceva Arturo, uno quasi alla pensione che se la tirava con la storia e noi però, sulle prime, non ci avevamo capito nulla di nulla di cosa voleva dire.

Invece, se ne sono andati loro.

Una mattina, mani in tasca, dai cinesi è arrivato uno di qui. Berciava di continuo, i capelli radi lunghi ricci untuosi, le scarpe gonfie e storte attorno agli zamponi screpolati. E le mani dalle tasche le abbiam levate, ché quello doveva essere il padrone, ma quello vero, del capannone in affitto. E parlava con l’unico cinese col macchinone laccato che fumava come un ossesso e tutti gli altri intorno gli sorridevano gialli, soprattutto quando al bar pagava il conto e loro capo chino e sorrisi di gruppo. E in un giorno, in un baleno, così poi la raccontava agli altri Arturo, son spariti come i Tatari nella notte delle purghe staliniane e qualcuno del magazzino gli ha detto: cazzo racconti, fascista che sei di merda, maremmalurida. Ma a parte il fatto di difendere Baffone per pura sintonia, erano incazzati solo perché sapevano sega loro chi fossero i Tatari e la Crimea – le capre – e i camion pigiati di gente muta e rassegnata. Partiti come gli zingari. Carriaggi e masserizie e mogli e piccini e monchi storpi zoppi (che pure quelli lavorano) come dietro al flauto magico. E il capoccia con l’unto in testa e lo zampone deforme rideva con la buzza che sobbalzava aguzzina, sobbalzava, e srotolava uno striscione LOCALE IN VENDITA 055/114671 STUDIO RAGIONIER DEGL’INNOCENTI, CAMPI BISENZIO (FI).

Con le mani in tasca il giorno dopo guardavamo oltre e oltre lo sporco del vetro c’era solo il vuoto. E nel vuoto saltavano topi che sembravan cani, ma all’improvviso ci parvero meglio i cinesi, che eravamo pure tristi e pensavamo a quel bambino in quale squallore avrebbe ninnato con gli occhi che quando sono chiusi sono ancora più a mandorla di quando sono aperti, povero tittino. E chi ha pensato che chissà quando poteva fare lui un figlio, chi alla rata del mutuo o al cocoprò, chi che parliamo tutti il pratese il sestese o il fiorentino e ce la tiriamo a bestia ma alla fine per metà siamo tutti terroni anche noi, pure gli studenti del polo scientifico nuovo che hanno fatto a due chilometri da qua.

Però, nemmeno una settimana dopo qualcuno ha urlato oh! oh-oh-oh, i marziani! e c’erano questi omini con le tute bianche e le mascherine e le bombole per la disinfestazione che si aggiravano nel caldo tropicale del padiglione che uno per l’afa s’è pure sbottonato tutto, s’è sdraiato su una panca, sveniva e forse voleva anche morire, ma gli astronauti amici suoi glielo hanno impedito e l’hanno rianimato, diobòno. Sembrava una scena di un film tipo quelli con tutta la gente nel treno piombato che pare sudata distrutta per il virus sfuggito. Poi, dopo due mesi di chiuso, da quel vuoto altri omini hanno cavato camion di roba inutile, pezzi di ferro tubi di metallo borse difettose vetri rotti scatolame scatoline scatolette scatoloni scaldabagni vecchie brande immondizie a non finire. Una settimana ci hanno messo, e quando hanno finito, con le mani in tasca se ne stavano in cortile e si dicevano l’un l’altro uff, l’è finita, maremmatrògola!

Giorno per giorno, con le mani nelle tasche, abbiamo seguito tutta la ristrutturazione. Venivano uomini giacchecravatta che parlavano sul tetto, dietro le vetrate o giù in cortile, una mano in tasca e l’altra che gesticolava. Il giorno dell’apertura a frotte bimbe bellissime cosce autostradali e litri di profumo e culi da disturbo, belle belle che non lavoravi più nulla e tutto uno spreco ché lo stilista leopardato, pare, è buco perso. Allora hanno messo i vetri fumé. Però mani in tasca, mani in taschissima, abbiamo scoperto, un giorno, che tutta la truppa di slave e rumene e bulgare e polacche e ucraine e chi più ne ha più ne metta, andava in bagno al piano terra e i vetri lì non li avevano oscurati no, che sembrava un film di Alvaro Vitali. E allora un responsabile indignato è andato di là a parlare in Cina… ma mica è più la Cina, fava di un Liborio che non sei altro. Certo, è sempre come andare a casa di cristo, ma adesso pare una babele che non ci si capisce più e ti devi portare trentacinque vocabolari tascabili bilingue. Insomma, un responsabile è andato dove doveva andare e glielo ha detto, guarda che si vede tutto, ma il dirigente loro, che cinese non è ma capisce una sega nulla lo stesso, ha fatto un breve sondaggio tra le bimbe, è tornato e ha dichiarato papale papale che guardate che loro non vi vedono mica. Sicché Arturo, mani in tasca, ha spiegato che era né più né meno come lo sbarco in Normandia quando gli americani le prendevano da orbi, maremmassassina, e i tedeschi le tiravano e ci coglievano senza mirare che erano più in alto e la rifrazione li aiutava. Manco a dirlo stavolta nessuno ha detto nulla e gli abbiam creduto, ché soldatoràian s’è visto tutti, ma è piombato il padrone (quello nostro) mani in tasca e ci ha detto: cazzo sono quelle mani nella tasca e vi licenzio se non fate un cazzo, dio d’un dio. E se n’è tornato via, avendo esaurito la sua funzione. Tempo due giorni c’erano i vetri sprangati, ma non giù nel cesso dello stilista, no, da noi, e insomma, mani in tasca o no, a quel punto fuori non abbiamo più visto nulla e pedalare.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:42 PM

Recensione a: Valerio Aiolli, Ali di sabbia (Alet, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n.  240 (giugno-luglio 2008), p. 48-49.

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Non sono molti i romanzi storici dedicati alle vicende del colonialismo italiano. Recentemente qualche pagina dell’ultimo Riccarelli, la prova di Carlo Lucarelli e poco altro. Gianfranco Franchi, addirittura, volendo procurare termini di paragone in grado di aiutare qualche internauta a orientarsi nelle tematiche affrontate dal fiorentino Aiolli, ha dovuto ricordare Tempo di uccidere, il capolavoro uscito dalla penna di Ennio Flaiano ben sessant’anni orsono.

Certo, la fase colonialistica italiana fu lungi dall’essere una marcia trionfale, sempre così troppo politicamente sofferta, tarda e poco caparbia (soprattutto dopo le disfatte subite), mai tutto sommato impostasi oltre una rapsodicità priva di una solida regia strategica che andasse al di là di qualche bel proclama di conquista di lande marginali in continenti esotici. Tuttavia non risparmiò violenze e sofferenze, rappresaglie e resistenze sia ai popoli aggrediti che a un esercito, al solito, male armato ed equipaggiato. Una fase, insomma, feroce e incrudelita sullo scenario delle operazioni, strategicamente velleitaria ed economicamente poco remunerativa. Tanto da suscitare episodi di rimozione storica costruiti intorno alla sollecitazione di percezioni autoassolutorie, poi confluite nel più complessivo «mito del bravo italiano», colonialista tutto sommato bonario e incruento.

È troppo presto per stabilire se le rinnovate riflessioni dei narratori sulle vicende del nostro colonialismo costituiscano una tendenza duratura o una solida nicchia all’interno della ritrovata vitalità del romanzo storico. Né questa può dunque essere la sede per comprenderne, eventualmente, le origini e i perché più profondi. Al massimo, su un piano ipotetico e più legato alla cronaca, si potrebbe forse richiamare il nostro coinvolgimento militare nelle vicende intervenute sullo scacchiere iracheno-afghano, che possono aver contribuito a rimuovere localmente qualche blocco mnemonico e psicologico nella realizzazione di ambientazioni storiche meno comode e scontate per il lettore, meno disposte a fuggire dai nodi irrisolti della nostra identità culturale e nazionale.

Sennonché il richiamo al concitato andamento tattico della guerra in Iraq e in Afghanistan torna qui comunque utile anche per chiarire il fatto storico attorno a cui ruota tutto il romanzo di Aiolli, fondato intorno a un noto episodio di «fuoco amico»: l’abbattimento avvenuto il 28 giugno del 1940, nei pressi di Tobruk, del Savoia Marchetti S. 79 pilotato da Italo Balbo.

Aiolli dunque sceglie per il suo romanzo non solo un’ambientazione, ma una figura storica ben precisa, un pioniere del volo compromesso col regime e tuttavia dalla stazza caratteriale autonoma, a volte in urto col duce e, per certi versi, contraltare al suo mito. Tanto da essere sbrigativamente «promosso» governatore della Tripolitania e della Cirenaica. A Balbo, l’Autore giustappone nella cabina di comando, al momento della fatale partenza, Settimio, una figura del tutto virtuale. E un po’ tutto il romanzo pare avere questo andamento giocato per contrasti, una costante tensione tra il pesante e il leggero, tra la storia e la quotidianità, tra la gravità e il volo. Su tutto la sabbia del deserto, duale nella sua stessa essenza: materia di sogno, volatile al primo alito, eppure gora, pantano da non poterne più uscire vivi.

Settimio è il figlio nato da una relazione proibita tra la moglie di un ufficiale e un tenente appassionato di storia del volo. La relazione si sviluppa nel 1915, all’interno di un fortino coloniale mal costruito per la difesa, dove gli italiani sono costretti ad asserragliarsi. Intorno, impalpabili e pericolosi come la sabbia del deserto, i nemici, gli «arabi» decisi a vendicare la violenta giustizia sommaria prodotta dall’insipiente condotta bellica delle truppe italiane. All’interno del fortino, tutta la difficile dinamica sociale tra ufficiali e soldati, tra italiani e ascari, tra uomini e donne, tra militari e civili: è l’allegoria di una società poco moderna e autoritaria, rigida nei suoi compartimenti stagni, incapace di sollecitare ogni qualsivoglia spirito di sincera collaborazione. La locale Caporetto è dunque inevitabile ma, prima che si consumi la tragedia, la donna fugge riuscendo poi a consegnare, in Italia, il frutto della relazione a Lucia, consorte legittima del tenente. Con quest’ultimo si spegne intanto il tentativo di una storia del volo che da tempo il militare va scrivendo per appunti, in attesa di un momento più propizio di pace che per l’uomo non arriverà mai.

Lucia cresce come suo il bimbo che ben presto rivela, sulle orme del padre, un’irresistibile passione per gli aerei che lo porterà al fianco del governatore della Libia nell’ultimo decollo. Sia per il tenente che per il figlio Settimio vale insomma l’avventura del volo, intellettualmente o praticamente perseguita, come aspirazione profondamente radicata nell’animo umano, conquista ardimentosa di nuove frontiere. Sforzi tuttavia sempre pervertiti o tarpati dalle dure ragioni della guerra, anche quelle che spingono a ingaggiare battaglia per proteggere la vita.

E del resto Balbo è ora il padre putativo di un uomo rimasto orfano e senza certe radici, così come un’Italia mutilata dalla Grande Guerra si abbandonerà alle mani autoritarie di Mussolini. Un’Italia dalla società nel frattempo semplificatasi, che coltiva sogni di rinnovata agiatezza economica, del tutto disposta a tollerare una buona dose di repressione purché i nemici della quotidianità non si palesino davanti alle sue mura. Pochi si salveranno da quest’inganno. Tra questi Lucia che, a un certo punto, partito il figlio e rimasta sola, decide di riappropriarsi del passato, improvvisamente stanca di «quella vita per interposta persona [il duce, appunto] che fino a quel momento era stata naturale e bella e giusta [e] di colpo le sembrò inutile e vuota e soprattutto falsa». La quotidianità esce allora da una riposta zona d’ombra per farsi vita vissuta in prima persona e perciò arma e strumento proto-resistenziale. Non più fragile fortino illusoriamente tranquillizzante, ma luogo che, nonostante la paura, coraggiosamente ricollega il quotidiano con la storia. Che non è ancora rivolta e tuttavia è già spazio di riappropriazione di un’identità malamente ad altri consegnata.

Ali di sabbia è un romanzo dalla scrittura senza sussulti, dolce come le colline fiorentine dove vive l’Autore, anche di fronte al dramma e alla tragedia o quando la storia forza le trincee difensive della quotidianità, portandovi la morte. E Aiolli gioca col tempo dei personaggi e degli avvenimenti, spezzandolo e risolvendolo in una narrazione che, altrimenti, avrebbe potuto correre il rischio di rivelarsi didascalica.

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marzo 11, 2010 at 12:29 PM

Francesca Duranti, Come quando fuori piove (Marsilio, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione»,  n. 235 (dicembre 2007), p. 47-48.

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Capita spesso di notare, a chi si imbatte in italiani che per i casi della vita dividono l’esistenza più o meno equamente tra il loro paese d’origine e uno stato estero, una superiore esigenza di rigore morale, di insofferenza per le italiche debolezze caratteriali. Succede che il continuo confronto tra le strutture economiche e socio-politiche dei due mondi frequentati finiscano per sollecitare una maggiore aspettativa verso un radicale mutamento del modo di viversi degli italiani, una spinta endogena che sia capace di cambiarne definitivamente il codice genetico politico e sociale. A ciò pare non faccia eccezione Francesca Duranti, scrittrice di successo che si spartisce ormai da lungo tempo tra Lucca e gli Stati Uniti: «Lì, [a New York] percepisco quel sentimento diffuso di una patria che è e sarà sempre in formazione, a cura, spese e responsabilità dei cittadini. Non qualcosa che, come è successo a noi, ci è caduto sulle spalle da un’altura misurabile in due millenni e mezzo, e che così com’è, non ci si può fare niente tranne costantemente lamentarsi e dare la colpa a qualcun altro». La dichiarazione risale al 2003, ma probabilmente proprio questa è la cornice entro cui ha potuto prender forma Come quando fuori piove, romanzo scritto con stile chiaro e piano in un intreccio che ci restituisce un’allegoria sociale sulle italiche debolezze, sulle difficoltà di una seria e definitiva modernizzazione del Paese, ma anche su una costante presenza della speranza che il panorama possa, prima o poi, grazie all’impegno di qualcuno, iniziare a cambiare.

Le atmosfere sono rese già a partire dal titolo, che richiama alle mnemotecniche del gioco d’azzardo, sempre sospeso tra abilità e fortuna, e a quel sottile senso di claustrofobia delle sale da poker che pervade nello stare per ore al chiuso, magari non sempre con gente gradita e comunque mai bendisposta verso il successo altrui.

Silvia, la protagonista del romanzo, laureanda in Scienze Politiche, si imbatte per caso in tv in una figura tanto dimenticata dagli italiani da esser oggi quasi sconosciuta, quella di Mario Segni. Si butta, così, in una tesi a lui dedicata, che le riporta alla memoria l’enorme seguito ottenuto dal politico tra il ’90 e il ’93 e il successivo catastrofico dissolvimento del suo progetto. Progetto che la porta all’improvviso, con piglio tutto femminile, a paragonare tali vicende a una serie di oscuri fatti familiari e personali: «Mettere a confronto il colossale crack di quella speranza con il fallimento di quello che a casa mia viene chiamato “Progetto” è stata un’idea balorda che mi è venuta mentre cercavo il titolo per la tesi di laurea». Tuttavia Silvia, anche in questo caso, riesce a ricordare poco dell’accaduto e decide, con metodi da ricercatrice di storia orale, di intervistare le figure familiari che animano le «Cento Stanze» –così è chiamata la villa (un riuscito disegno della quale campeggia sulla copertina realizzata dalla figlia della scrittrice, Maddalena) dove abitano tre nuclei familiari imparentati, ma in perenne litigio e dissenso– a partire dal padre. Viene così a sapere che la villa è stata vinta a carte dal nonno, dispotico contadino agiato, ma anche abile giocatore e ammesso, per questo, nella società economicamente improduttiva del suo tempo, quella nobiliare. Di qui, invece di involarsi verso crescenti fortune, la vita della famiglia, bloccata dalle eccessive aspirazioni di status del capostipite, si trascina avanti stancamente tra mediocrità, fallimenti e crescenti dissapori.

Val la pena di notare che fin qui, come in seguito, l’incedere del romanzo pare assumere in più punti una descrizione pendolare delle vicende, quasi che quel già citato senso del viaggiare, dello spostarsi tra due o più fuochi per poi tornare a una base fissa, sia strutturalmente trasmesso dall’autrice a tutto il romanzo. E dunque, ad esempio, la descrizione delle curve per cui si inerpica l’auto che porta a casa la protagonista (che si spartisce tra Milano e Lucca) e che lascia scoprire di volta in volta, allontanandosi o avvicinandosi come per effetto di uno zoom, parti diverse della villa di proprietà; la ricostruzione delle alterne fortune del gioco in cui si impelaga il capostipite della famiglia e che gli permettono alla fine di vincere le «Cento Stanze» perdendo tutto il resto; il continuo recarsi di Silvia dai singoli familiari nel tentativo di recuperare la memoria storica delle vicende del caseggiato, ma anche di risolvere il «giallo» delle vicende del clan a esso legato. Giallo che in inizia a chiarirsi dopo una serie di vicissitudini che vedono dibattersi i tre tronconi della famiglia nel tentativo, non riuscito, di disfarsi dello scomodo condominio.

Giungono, così, i primi anni ’90 e l’eterna impasse della scollata e litigiosa famiglia subisce uno strattone. Sempre a causa di un nuovo azzardo, la maggioranza dei millesimi del condominio finisce nelle mani del giovane rampollo Davide, che finalmente tenta di realizzare il progetto di trasformare la villa in un «resort di lusso con scuola di alta gastronomia». Ma la salute del nuovo aspirante capofamiglia si aggrava velocemente, precipitandolo nella schizofrenia e il progetto sfuma, semplicemente perché altri non sa calzarlo e portarlo avanti. Cosa può aver fatto ammalare così Davide? Ogni familiare sbotta a Silvia la sua parziale, interessata, mezza verità. Ma questo continuo rimestare nelle vicende oscure della famiglia apre poi botole che sprofondano la protagonista (e il lettore con lei) in un crescendo di pusillanimità, rancori personali e immoralità che la tramortiscono. Ma Silvia è un’altra tempra e caparbiamente resiste, fino a provare a raccogliere, in un finale dalle tinte politiche, la bandiera di Davide lì dove lui l’aveva lasciata cadere.

È già stato segnalato quanto la presentazione del libro come «romanzo politico» sia quantomeno parziale, di quanto non tenga conto dei risvolti sociali della trama. E certo, nonostante la protagonista propugni, non verbalmente ma in ogni suo atto, che il personale è politico e viceversa, una certa ritrosia verso l’uso del termine potrebbe venire oggi dai mutati contesti socio-politici in (di) cui l’autrice scrive. Che sono quelli in cui certe prove si affrontano con occhio forzatamente più disincantato e incerto di qualche decennio fa. In Come quando fuori piove è diffuso un marcato pessimismo sulla natura umana, e la vita –le decisioni importanti della vita– non si sa mai se siano definitivamente improntate a una ragionevole probabilità di successo o a una sventata stupidità, un sogno che diventa «di movimento in movimento incubo o immagine di felicità». Alla fine non resta che l’ottimismo della volontà: «Il faut cultiver notre jardin». Di questi tempi comunque una scelta forte, se il giardino altro non è che un angolo in grado di rispecchiare il mondo.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:20 PM

Recensione a: Tullio De Mauro, Dizionarietto di parole del futuro (Laterza, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione»,  n. 229  (aprile 2007).

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Guardando alle ultime prove di Tullio De Mauro, H. G. Wells probabilmente vi riconoscerebbe qualche somiglianza con le gesta del protagonista di uno dei suoi più famosi romanzi, sempre indaffarato com’è a portarci tesori dal suo continuo spostarsi nel tempo. E infatti, appena spentasi l’eco di Parole di giorni lontani, prima sua prova letteraria, Tullio De Mauro torna dal futuro (sia pure molto prossimo) con questo Dizionarietto, raccolta di brevi schede concernenti 84 termini (ma se si contano i rimandi e i confronti interni i lemmi sono molti di più) già presentati a puntate sul settimanale «Internazionale» e ora qui riproposti in un’unica soluzione all’attenzione del lettore. In omaggio al periodico, si tratta di «parole che nascono e vivono, loro, o le loro strette affini, in diverse lingue del mondo; parole che siano, insomma, “internazionalismi”», ma soprattutto che siano, sulla scorta dell’indicazione di Bruno Migliorini, parole «d’uso incipiente»: un po’ l’idea bussola dell’agile volume, ripresa e approfonditamente spiegata nel saggetto dedicato ai neologismi che chiude il libro (intitolato «Dove nascono i neologismi?», relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei nel 2005 e apparsa negli atti del convegno Che fine fanno i neologismi?, pubblicato da Olschki l’anno dopo).

In queste pagine Tullio De Mauro individua un «processo di innovatività permanente», una sorta di grande corrente convettiva di rigenerazione di una lingua basata sul ricambio continuo tra lessemi obsolescenti e neologismi. La produzione dei secondi, dunque, come «parte profonda e ineliminabile» della capacità vitale di una lingua, «bisogno linguisticamente autonomo di nuove espressioni, di nuove accessioni di morfi già esistenti». Neologismi che, però, in polemica anti-referenzialista, si affermano sulle parole obsolete aderendo in modo nuovo e diverso agli stessi referenti sottesi e mai segnalandone una definitiva sostituzione.

Va da sé che più è robusta e complessa la corrente convettiva, più questa risente dello sviluppo «socioculturale produttivo», più sono importanti i processi di produzione di nuovi lemmi, per cui non sarebbe inutile, suggerisce l’Autore, cercare di tenere analiticamente distinte le parole nuove sviluppatesi in ristretti ambiti linguistici tecnico-specialistici («Neoformazioni») o di vita breve («Nonce words» o «Occasional words») da quelle già chiamate «Neologismi» o «parole d’uso incipiente», colte cioè nel momento in cui il processo di una loro potenziale più larga diffusione o definitiva affermazione accelera per sopravvenute condizioni favorevoli. Un discorso che consente di apprezzar meglio anche le potenzialità delle «neosemie» come motore sinonimico delle parole (nel senso saussuriano e wittgensteiniano) o come utile mezzo di registrazione degli scarti di significato intervenuti nell’uso dei lessemi nel loro tentativo di offrire strumenti «contro l’inesprimibile».

Chissà quali saranno i tempi di gestazione dei singoli lemmi contenuti in questo Dizionarietto delle parole del futuro (probabilmente dalla Laterza preferito a Dizionarietto delle parole d’uso incipiente per favorire una più immediata percezione del contenuto del libro da parte del lettore non specialista) prima di entrare in pianta stabile in un qualsiasi vocabolario dei più noti. Ad esempio, dacché De Mauro lo registrò nel 2005, «Sudoku» potrebbe essere già giunto a tale traguardo e «Burnout» (2004), viste le inquietanti notizie che ci giungono giornalmente dal mondo della scuola sulle condizioni di salute (mentale) del corpo insegnante, farsi avanti con ottime possibilità di successo. Affermazione che, con il maturare dei cambiamenti climatici in corso, potrebbe arridere anche, ma speriamo di no, a «Vertisuolo» o, a seguito dei recenti sviluppi bellici, a «Drone», termine questo, peraltro già ampiamente circolante fuori dai ranghi del mondo militare grazie alle saghe fantascientifiche e all’adozione successiva da parte del vasto popolo della «Generazione Nintendo». Basti pensare alle seguitissime puntate sugli aggressivi «Borg» (droni assimilanti, «viventi» in navi-alveare agli ordini di una regina) che datano la loro presenza sullo schermo, nella serie Star Trek-Next Generation, già dal 1987 (vedi la doppia puntata «Incontro a Fair Point») o i diffusissimi, violenti giochi virtuali come Warhammer: Dark Crusade prodotto recentemente dalla specializzata THQ, ecc.

Insomma, un Dizionarietto stimolante e utile per districarsi tra neologismi di nessuna reperibilità nei comuni vocabolari e di significato oscuro, incerto o vago (spesso si tratta di neosemie createsi all’ombra delle lingue anglosassoni, ma con salde radici nella tradizione latina o greca). Un volumetto che, pur potendo sembrare molto lontano per impianto e «digeribilità» dai gustosi ricordi partenopeo-capitolini di Parole di giorni lontani, ne conserva tuttavia il garbo, la misura e, soprattutto, il piglio ironico (e qualche polemica in punta di penna) comune alle opere meno tecniche di Tullio De Mauro. Vedi alla voce «Invaiatura», «Cantierare» e «Retrorunning».

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marzo 11, 2010 at 12:17 PM

Recensione a: Laura Bocci, Sensibile al dolore (Rizzoli, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 233 (settembre 2007), p. 44-45.

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Pur nella differenza di toni, di senso e di stile, è già stata rilevata da Novella Bellucci («L’indice», n. 3/2007) una «comune discendenza» nella molteplicità e nella ricchezza di temi tra Di seconda mano, libro rivelazione di Laura Bocci, e il più recente Sensibile al dolore: il primo, caratterizzato da forme mescidate principalmente di saggio e narrazione; il secondo, romanzo polifonico costruito da tre voci femminili.

E tuttavia ci pare possa essere rilevato almeno un altro dato di continuità strutturale in più, quasi un atteggiamento mentale di fondo che riesce a tenere legate saldamente le prove apparse a due anni di distanza l’una dall’altra. Ci pare, insomma, che l’Autrice continui a proporci, in più punti del suo romanzo (e stavolta per bocca di una delle sue voci narranti), quell’atto e quella fatica del tradurre, nelle sue fondamentali operazioni di attraversamento e empatia, quella disponibilità a trasferirsi «armi e bagagli nel libro stesso, e poi a restarci dentro», già spiegata all’interno del suo primo testo dedicato, appunto, al particolare mestiere di «tradurre letteratura». In Sensibile al dolore non si tratterebbe ovviamente di tradurre un testo in un altro, quanto dell’arte ben più difficile di portar dentro, sempre attraverso le parole, una vita in un’altra –addirittura due in un’altra–, di portare alla coscienza, rivivendolo e filtrandolo in un altro sistema emotivo e culturale, il dolore vissuto da altri, condividendolo e lenendolo pur senza mai riuscire a estinguerlo. E tutto questo in un libro coltissimo che perciò invita alla lettura e alla rilettura, dalla scrittura densa e tuttavia urgente, capace di coinvolgere e di irritare, dai toni sempre perfettamente aderenti alle psicologie e alle esistenze di personaggi complessi e lacerati. Tanto da spingere addirittura alla scelta di caratteri tipografici diversi per ognuna delle protagoniste: per il diario di Anna, ad esempio, uno della famiglia dei Courier, dalle forme squadrate –Modern face o, come avrebbe detto il grande Aldo Novarese, «bodoniane»– e con aste sottili e eleganti, che con le spaziature larghe e invase di bianco si lasciano leggere peggio, ma bene sanno rendere lo stile da appunti provvisoriamente ricavati da un blocco note informatico; per le parole di Maria P., poi, un Monotype corsiva dal sapore antico e con qualche gotico contorcimento, che sembra incidere nella carta con la punta dura e affilata di un pennino metallico. Cosa che consente, tra l’altro, di farsi anche una rapida idea visiva della differenza caratteriale tra le donne che via via si danno il cambio in una narrazione costruita come una sorta di matrioska, dagli incastri modulari ma tutti estremamente ben collegati in un’unica struttura.

La storia è questa: una donna che viaggia in una cuccetta ferroviaria incontra casualmente una sconosciuta che risponde al nome di Anna, la quale decide di leggerle il diario da cui si apprendono uno spirito dalle complesse stratificazioni anche ideologiche e una vita segnata da alcune esperienze psicanalitiche fallite. Qui il lettore viene a scontrarsi con una quantità davvero notevole di temi e problemi affrontati: il femminismo e la crisi del ruolo maschile, la psicanalisi come strumento di liberazione e nel contempo come strumento storico del dominio maschilista, il rapporto corpo mente ecc. Tutti temi e spunti di riflessione teorica oggi sottoposti a una particolare pressione critica e di revisione, ma che comunque agitano e polarizzano dicotomicamente Anna, sovrapponendosi e interagendo con una personalità già per altri versi segnata, qui profilando e contestualizzando coerentemente del personaggio gli anni di crescita e di formazione.

Sparendo nella notte, Anna lascia in dono alla donna il resto dei fogli raccolti in una cartellina e una serie di ritagli di giornale. Tra queste carte segue l’incontro casuale di Anna con uno psichiatra, con il quale instaura subito un rapporto singolare soprattutto per una donna che, come ha ben sintetizzato Filippo La Porta, ha deciso «di vivere in un mondo svuotato del maschile». Un transfert dai connotati sentiti dalla paziente come decisamente simbiotici e emotivamente coinvolgenti, pur rimanendo nei canonici binari previsti da ogni buon manuale del paziente. Insomma, «una relazione che non esito a definire d’amore, anche se forse qui l’amore è da intendersi come una specie di protesta, o di resistenza vitale delle parti sane contro una sofferenza profonda, un dolore terribile subìto –impotente e senza mezzi di difesa– nella prima infanzia», che si può tradurre per Anna negli abusi sessuali subiti da un amico dei nonni, ma anche nel rapporto difficile e poi quasi interrotto da una madre che praticamente ha finito per emarginarla. Lentamente, aiutata dalla psicoterapia, ma pure coinvolta dalla sua personalità e dalla sua «presenza fisica», il trauma affiora dirompente dopo un lungo silenzio e viene finalmente detto e oggettivato, anche se esso difficilmente potrà essere compensato da un pieno superamento delle ferite ricevute per così lungo tempo. Siamo a un passaggio importante: aleggia qui il tema canettiano delle parole sensibili al dolore e tornano alla memoria i rilievi, ovviamente originati da un diverso contesto clinico, di Eugenio Borgna, recentemente così riassunti da Raffaele Crovi: «il silenzio non è mai una terapia della malattia mentale; sono le parole o le immagini i media del ritrovamento dell’identità soggettiva». Ma parole mai neutre, anzi impregnatesi nel lungo silenzio di un dolore grandissimo, di cui più non perderanno la cifra e il peso, che dopo la «guarigione» al massimo potranno essere trasmutate in nubi malinconiche di rimpianto o di rammarico.

Dai ritagli di giornale si evince poi che Maria P., un’irriducibile personalità borderline sempre in compagnia di un cane malandato e di una sporta piena di libri, incontrata da Anna nella sala d’attesa dello psichiatra, ha accoltellato quest’ultimo.

Sia i fogli che i ritagli interrompono bruscamente qui la loro narrazione. La donna decide, spinta da un coinvolgimento di cui non riesce a liberarsi, di costruire un finale comune per i protagonisti (incluso, non a caso, lo psichiatra). Un finale dove per tutti varrà l’accettazione del dolore e la convivenza con esso, l’accettazione di questa sua ineliminabilità dai percorsi della vita di ognuno di fronte alla quale anche l’analisi deve dichiarare i propri limiti. Per cui vale l’osservazione molto ben centrata di La Porta (espressa in una pagina web di www.avvenimentionline.it) secondo la quale, nel romanzo, si «potrebbe quasi configurare un primato della scrittura sulla psicanalisi: lo scrittore infatti, al contrario dell’analista, non si pone un obiettivo, non intende “guarire”, ma solo vuole aderire all’esistenza senza pretendere di curarla». Ma questo primato, aggiungeremmo, finisce per investire positivamente anche quell’atteggiamento inizialmente richiamato, simile al tradurre, al filtrare in modo del tutto particolare il dolore delle vite altrui, riuscendo alla fine in qualche modo a compierlo e, nel contempo, a superarlo. E ciò attraverso la scelta di un passo più decisamente creativo che afferra le vite e le cronache lasciate monche per deciderne un finale tra i molti possibili, quasi che il vero travaglio del romanzo iniziasse da qui, provandosi la scrittura a costruirne –e a costruirsi, dopo una lunga stagione di crisi non ancora invero risoltasi– una possibile via d’uscita positiva.

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marzo 11, 2010 at 12:16 PM

Recensione a: Dora Albanese, Non dire madre (Hacca, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 252 (gennaio-febbraio 2010), p. 55.

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A dar retta al titolo, il tema del libro dell’esordiente materana Dora Albanese dovrebbe essere quello della madre. O delle madri. Perché in effetti, a partire dalle vicende di una ragazza madre in una comunità meridionale, la raccolta di racconti man mano svolge i legami di ogni madre alle proprie madri, nella costruzione di una famiglia sempre più estesa capace di far proprie via via le esperienze della nonna Anna, di una vecchia che si aiuta per caso a traversare la strada, di un uomo che vuol diventare donna, di una figlia che vive a Parigi, del rapporto mistico e misterioso con una terra pure essa madre carnale. Percorsi individuali che pure sanno farsi, nella scrittura dell’autrice, costruzione e memoria di una biografia collettiva.

In realtà il tema forte sotteso alle brevi narrazioni di Dora Albanese è appena più a monte. È il cordone ombelicale: viscerale legame che avvince tutte le protagoniste –come fossero una sola– alle genitrici, alla loro terra d’origine o d’approdo, alla comunità, ai padri, ai loro compagni e mariti, ai figli, alle reti di relazione intessute. E il dilemma resta sempre lo stesso: continuare a pompare ossigeno e vita attraverso quel cordone oppure definitivamente reciderlo. In ogni caso sempre facendo una scelta coraggiosa di autonomia («Io però, a un certo punto, mi sono imposta di non dire più madre, di non cercare mai più l’aiuto di mia madre; perché una figlia che diventa madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità per dare spazio al suo bisogno di riscatto») o di assunzione di responsabilità che obbliga a uscire fuori da se stessi nel comprendersi come parte di un tutto che, alla fine, implica sempre una crescita e un certo quotidiano eroismo («Ho deciso di perdonarlo, perché gli sbagli non li ha fatti solo lui. E poi tutti oramai si arrendono al primo problema, tutti gettano la spugna, ma la coppia è una cosa seria, una vera scommessa. Stare insieme è soprattutto riuscire a perdonare, finché è possibile, tutte le mancanze»).

Argomenti, questi, non disgiunti dallo sguardo nuovo e individuale con cui le donne della scrittrice materana colgono il mondo, meno lacerate come sono dal confronto –pendolare e non gerarchizzato– tra il «profumo della legna bruciata» del paese e una Roma luogo di emigrazione, ma pure patria elettiva. Per cui alla fine ci si può sentire più estranei (quasi che si fosse migrati da fermo) in presenza delle famiglie di origine –nel frattempo passate dalla cultura contadina a una dimensione compiutamente piccoloborghese– e più aperti rispetto a un recupero senza patemi della tradizione. Oppure più adattati e liberi a Roma. È uno sguardo, insomma, che finisce per essere positivamente meticcio, periferico e ancora una volta autonomo anche rispetto al puro legame geografico.

Anche così –anzi a volte proprio per questo– non mancano poi durezze nelle occasioni e nelle scelte di vita, non mancano le malattie, i dolori del parto, gli amori consunti, le ferite subite dai padri, la decadenza fisica della vecchiaia, un corpo giovane che pare già adulto e provato. Ma tutto ciò indica solo che il luogo privilegiato dall’analisi culturale è passato dai corrugamenti orografici a quelli del corpo. Corpo come spazio le cui manifestazioni morali sono sempre prima leggibili come disagio fisico.

Ma il malessere, persino lo sfacelo del corpo non è mai definitivo in Dora Albanese: non è la morte, non ne è l’annuncio, bensì ciò che precede la vita. Non è decomposizione, sono i tremori irriflessi, i capelli unti, gli sgradevoli sudori della pelle, un vecchio callo raschiato via fino al vivo della carne. Sono gli involucri del serpente che ha imparato a lasciarsi dietro le stagioni.

Non è un caso che a un certo punto l’autrice parli del duende. Per García Lorca nel ballo, nel canto, nella scrittura, il duende non è una tecnica, non è un pensiero –almeno non solo– ma è un lottare la vita, è uno stile, il sangue. Il duende affonda le sue radici in un limo nero e misterioso, è spirito occulto, ma è anche –per concludere– «il costante battesimo delle cose create, una freschezza inedita». Il duende è, insomma, una forza che procede dal buio alla luce. Meglio, è una luce che procede nel buio. È per questo che dal dolore di Dora Albanese si riemerge continuamente «riacciuffando la vita» dalla notte, la memoria dalla morte. E, per questo, è un dolore di cui si può necessariamente dire solo dopo che è stato attraversato, che resta cicatrice benefica nella memoria personale o condivisa, che nella scrittura un poco decanta pur senza definitivi distacchi emotivi. Il tutto narrato, come bene spiega la nota introduttiva in bandella, con «una lingua sospesa tra oralità e letterarietà, continuamente scossa da innalzamenti lirici e da velocizzazioni quasi automatiche».

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marzo 11, 2010 at 12:02 PM

Recensione a: Franco Buffoni, Zamel (Marcos y Marcos, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 251 (dicembre 2009), p. 49-50.

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Una cappa omofobica aleggia sull’Italia. E dunque imboscate e schiaffeggiamenti a singoli e coppie gay, aggressioni, accoltellamenti. È il clima reso possibile dall’oscurantismo e dall’arretratezza culturale con cui oggi nel nostro paese si affronta il nodo dei diritti omosessuali e, più in generale, della diversità. Complici il Vaticano e una classe politica costretta con fastidio a rivelare la propria inadeguatezza di fronte a un problema di modernità posto dalle direttive europee e dall’azione legislativa in tema di diritti omosessuali promossa da paesi all’avanguardia quali la Spagna.

Sono questioni che investono con forza i rapporti tra collettività omosessuale ed eterosessuale, ma non mancano di spingere in avanti anche il dibattito interno alle singole comunità di riferimento.

Un importante contributo in tal senso lo dà certamente Zamel, libro pubblicato per i tipi della Marcos y Marcos, editore senza etichetta ma da sempre sensibile alle problematiche del mondo omosessuale. Nato in un primo momento come saggio, Zamel è una non fiction novel ricca di dialoghi e scambi epistolari, di cogitazioni storiche e filosofiche intorno al tema. Uno stile peraltro molto indovinato che si richiama a una robusta tradizione filosofica, politica e letteraria, nel contempo permettendo l’analisi e la corretta divulgazione di una gran quantità di temi storici, antropologici e culturali (si attraversano davvero, in poco più di duecento pagine, tutte le vicende di repressione, autorepressione e liberazione attraversate dagli omosessuali nel mondo occidentale).

L’autore del volume è Franco Buffoni, ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate nonché giornalista. Poeta affermato (esordisce già nel 1978 su «Paragone») e traduttore tra l’altro di un’importante raccolta dedicata ai poeti romantici inglesi, è uno di quei saggisti capaci di evadere dall’ambito angusto dell’accademia, riuscendo pure come scrittore di racconti e di romanzi.

Già con Reperto 74 (Zona Editore) Buffoni aveva acutamente osservato che oggi «non è alla domanda su cosa sia l’omosessualità o su come si “diventi” omosessuali che occorre rispondere, bensì – e molto più dignitosamente – su come siano le sessualità e su come si vivano e su come si vivessero un tempo». La prospettiva non è ormai più, insomma, l’omosessualità come senso di colpa o malattia, evidentemente da curare, ma «una condizione desiderabile. Una forma di vita, una cultura». Nella matura consapevolezza che ciò «che siamo è molto poco in confronto a ciò che potremmo diventare» e che lo spostamento deciso di accento richiama all’impegno e al tentativo di approdare infine a una visibile e autosufficiente comunità lgbt (lesbo-gay-bisex-transgender) «forte dei suoi valori e delle sue pretese di parità di trattamento giuridico» al tempo capace di rendere improcrastinabili una serie di leggi antiomofobiche in grado di mutare definitivamente il costume comune.

È il discorso di fondo, questo, che coinvolge anche i due protagonisti Aldo ed Edo: il primo, un uomo di mezza età ritiratosi a vivere sulla costa tunisina; il secondo, in Tunisia a seguito di una delusione amorosa, impegnato nel movimento gay per i diritti civili e autore di un libro sulla cultura omosessuale che sta scrivendo. Nonostante la sua maggiore esperienza –è lo stesso Buffoni a descriverlo–: «Aldo pensa, sente, preferisce in modo tradizionale: si deve agire, non se ne deve parlare, se non svagatamente per ingelosire le “amiche”». Aldo è frocio, si pensa come una donna mancata. Edo pensa invece che «il progresso, la nuova frontiera per gli omosessuali è la relazione paritaria tra i gay» in cui a governare è l’amore. Ma sempre con un’avvertenza implicita di modellizzazione, se «in molti giovani omosessuali Aldo e Edo continuano a coesistere».

In realtà la storia è la ricostruzione degli ultimi giorni di Aldo. Dopo aver conosciuto Edo, Aldo, dopo una serie infinita di rapporti occasionali, pare finalmente accettare una relazione più stabile con Nabil, un giovane magrebino che lo ricambia. È la situazione che fa esplodere la contraddizione in cui Aldo si attarda: la cultura omofobica che ha paradossalmente introiettato lo spinge infatti a sentire con fastidio il proprio ruolo sessuale attivo e a chiamare il giovane amante zamel (in arabo la parola è fortemente volgare, è il marchio di una condizione di maschio passivo che la cultura locale semplicemente nega come impossibile). È il peso morale intollerabile, la parola che uccide. Nabil assassina Aldo. Tuttavia, durante il processo, il cortocircuito creato dalla specularità dei due mondi culturali cui appartengono Aldo e Nabil viene totalmente e volutamente nascosto, la pesante condanna comminata per ragioni del tutto accidentali.

Si è detto all’inizio che il libro di Buffoni spinge sia i gay che gli etero a fare i conti con se stessi e con la modernità. Come Edo, l’autore può gridare a tutti: «Aldo! Entra nella modernità! Deciditi!», convinto che «la modernità è una sola ed è fatta di aeroplani e pillole del giorno dopo, di emancipazione femminile e omosessuale, di informatica e di procreazione assistita», e che non si può accettare a pezzetti ingegnandosi a lasciare il resto fuori dalla porta.

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marzo 11, 2010 at 10:43 am

Recensione a: Cristiano Ferrarese, 1976 (Hacca, 2008)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 246 (aprile-maggio 2009), p. 47.

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«… è necessario essere altri rispetto al mondo del quotidiano…». È in questa programmaticità che si coglie la cifra di 1976, secondo volume della «Trilogia dei matti», esordio narrativo di Cristiano Ferrarese. Non perché i pazzi –come scrive molto opportunamente al riguardo Andrea Di Consoli–, secondo un abusato luogo comune dell’antipsichiatria, siano rivoluzionari, quanto perché i loro sguardi, deformanti e incrostati di sofferenza, sono al contempo un luogo e un punto di vista irriducibili. Insomma la follia, i manicomi e ogni altro luogo di contenzione come momenti particolarmente adatti a metaforizzare una realtà come quella che precedette il ’77 in Italia. Un luogo spoglio e privo di colore che Ferrarese rende in una sola pennellata dai toni eliotiani: «una terra desolata e desolante dove si ride e si piange e non si riesce più a distinguere il buio dalla luce…», lasciando irrompere un sistema binario dove si trasmutano non solo lo spazio e il tempo –per cui non si sa bene se V., l’eroina della narrazione, ci parli di quegli anni o dei nostri–, ma pure i ruoli e i confini della realtà e dell’allucinazione. Dunque i deliri e le visioni di sangue della voce narrante, ma anche l’Austerity del «moriremo democristiani», il Sudamerica crudo di Videla, l’arresto di Curcio e il «suicidio» della Meinhof, la bomba a Brescia e lo scandalo Lockheed, una natura stuprata dalla diossina e a sua volta terribile vendicatrice di se stessa in Friuli. Come a dire: il delirio è la realtà, la realtà è il delirio; il potere della follia e la follia del potere.
Nel frattempo, 1976 realizza pure un salto di maturazione rispetto al suo antefatto 1967, dalle atmosfere più cupamente incubiche e mistiche, violente e gotiche. Non che in 1976 manchino anche di questi risvolti, soprattutto le tinte mistiche, ma qui risultano più sublimate e meglio articolate, meno pesanti. E l’immediata mimesi della violenza schizoide si vira ora in una rabbia di passione civile e politica «in nome di tutti i refrattari ad ogni potere bieco e opportunista», di cui V. si imbeve, facendosene piena interprete.
Ma, allora, chi è V.? è una ragazza doppiamente reclusa, costretta sulla sedia a rotelle e rinchiusa in un carcere (ma potrebbe essere un manicomio, oppure un convento nato dalla penna settecentesca di un libertino francese o ancora solo un parto della sua mente). A volte, con l’aiuto di un vecchio (il padre, il potere, un poliziotto, una nemesi, nessuno?) si ritrova a farsi spingere invece in un hangar enorme e vuoto, pure questo un luogo desolato dove di solito ciò che può volare è posto forzatamente a riposo. Qui, pervasa dalla visione del fratello (C., lo schizofrenico protagonista di 1967), ossessionata da violenti deliri di morte e di sesso con il padre e con una poliziotta legata al fratello (e di qui tutta una serie di connettivi déjà-vu con il volume precedente di Ferrarese), V. graffita col sangue immagini liberanti, dall’ispirazione cineticamente convulsiva alla Bacon.
Chi è dunque V.? una matta certo, dalla vita povera e inferma, ma anche una profetessa, una Cassandra. Meglio. Una versione femminile di Laocoonte, perfettamente lucida nella denuncia di un potere di volta in volta monolitico o proteiforme, repressivo o narcotico, e perciò continuamente dilaniata dai denti e ingoiata dalle teste del serpente dell’Isola di Tenedo. V. è una moderna Teresa D’Ávila, una mistica ai tempi della Controriforma, una corda continuamente tesa tra il fango e la levitazione, tra le esperienze soprannaturali e il diabolico. Un’invasata di Dio, un’estatica dedita all’isolamento e alle flagellazioni, rapita dalle fantasie autoerotiche col divino. Tuttavia una mistica pericolosa perché non contemplativa, ma missionaria, in grado di diffondere un verbo di profonda libertà. Una santa delirante capace però di guardare lucidamente in faccia il mondo e di individuarne le radici infette.
Rispetto a 1967 anche il modo di narrare in parte evolve, in alcuni punti frammentandosi maggiormente, rendendosi ancora più singhiozzante, per poi coagularsi improvvisamente in pezzi più estesi, spesso di denuncia e d’invettiva. Il che sembra molto ben adattarsi alla narrazione stessa, a renderne i ritmi e la sostanza. Molto si è detto, infine, sull’ascendenza céliniana dell’abbondante presenza di puntini sospensivi nella scrittura di Ferrarese, tuttavia qui forse solo un tic maniacale e ossessivo delle dita, un fastidioso ma necessario rumore di fondo creato dai chiodi o da una cucitrice ossessivamente impegnata a saldare alla meno peggio brandelli di realtà viva, ma tenuti assieme come un mostruoso Frankenstein.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 9:51 am