Antonio Celano

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Recensione a: Antonio Paolacci, Tanatosi (E-Pop Perdisa, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» l’11 giugno 2012.

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Se c’è qualcosa di veramente peculiare nello stile di Antonio Paolacci è la costruzione di una narrazione sottesa di lineari e nervose strutture concettuali sulle quali poi disporre topologicamente le invenzioni della scrittura. E anche “Tanatosi” (E-Pop Perdisa, 2.90 euro, disponibile esclusivamente in e-book, ma scaricabile dalle principali librerie on-line), l’ultimo racconto dello scrittore felsineo di origini cilentane, in nulla – ci pare – deroghi alla norma. Perché, quando nella narrazione è posta la questione della scelta, della stringente alternativa, il cammino del protagonista, prima lineare, deve dunque necessariamente divaricarsi in quella forma a “Y” della quale fecondità – come maturata coscienza dell’importanza del bivio – non a caso siamo a conoscenza fin dai pitagorici e dai mistici magno-greci. Tanto più se la struttura consente agevolmente a Paolacci di disporre, su un piano di confronto polarizzato, temi che sono già tipici dei suoi romanzi come, ad esempio, il rapporto tra contesto e individuo, tra vecchie e nuove generazioni, tra ordine sociale e rivolta, tra città e periferia. Nel caso di “Tanatosi” anche tra tempo della natura e concitazione della cronaca. Dove qui più che altrove, Paolacci – per la misura breve del racconto e nel confronto complesso tra etologia, psicologia e storia – meglio è riuscito a dire una parola lucida e convincente sul mutamento del nostro tempo, sulla controversa e mai definitiva nascita della coscienza (delle coscienze?) nell’uomo.

Tanatosi nasce da un’eterna opacità della luce solare, dalla rivolta che dilaga folle e apocalittica esplodendo da una crisi socio-economica totale. Molto simile alle immagini di battaglia che guardiamo ancora in tv ogni volta più attoniti, considerata l’implicita promessa che prima o poi possano concretizzarsi ben fuori dagli schermi. Dal macello si sfila un trentenne – in fuga? per darsi tregua e capire? per sondare definitivamente la possibilità di un’esperienza alternativa praticabile, benché ancora sconosciuta? – con ancora in mano una spranga macchiata di ruggine e sangue (come a dire i rossi prodotti delle due storiche rivoluzioni capitalistica e sociale). Il giovane si inerpica in montagna, alla ricerca di un padre là ritiratosi e mai davvero conosciuto dopo l’abbandono molti anni prima di città, famiglia e proprietà. Trova, così, il vecchio immerso nel paesaggio disadorno e privo di orpelli della campagna, adattato a una natura senza tempo capace di condizionare, come in città mai potrebbe, le azioni degli uomini. Uno stato edenico che consente al padre di essere dimentico delle complicate sovrastrutture della “civile convivenza” metropolitana, della sua stratificata “acquiescenza a varie forme di potere”. E tuttavia, mentre l’osservazione della recuperata “animalità” del padre (quel fare amorale, quel decidere senza “sviscerare ragioni e torti”) non dispiace al trentenne, le ragioni e la filosofia di vita del vecchio lo spingono, invece, a demistificare definitivamente quel mondo come l’inganno di una possibilità di riparo dall’apocalisse in corso. Tanto più se, sotto il guardare dall’alto in basso il formicaio umano, si indovina l’abbandono del mondo per sconfitta generazionale epocale, o un colpevole trarsi fuori dal polemos, più o meno accentuato, che ogni società fatalmente comporta.

Accade infatti che sulla via del ritorno il giovane, ancora malfermo sulle sue nuove gambe, sia attaccato da un maschio alfa di lupo, già visto aggirarsi attorno alla catapecchia del vecchio. Tuttavia mai apparendo scosso dalla paura di finire ucciso, quanto rammaricato di farlo in quel contesto ormai respinto. Il protagonista genera così una risposta etologica adattativa alla pericolosa situazione: pur armato della sua spranga rispetta la superiorità del predatore, si sdraia nel fango e mima la morte. Dunque eludendola e, con questa, la pulsione predatoria del lupo. In altre parole definitivamente scomparendo, grazie alla tanatosi (e con una trovata dantesca) da quella dimensione, così precipitandosi in auto verso la città ormai preda dell’inferno.

Come anche per il padre, il giudizio non è meno duro per gli ex consumatori di superfluo che ogni giorno hanno lasciato ad altri, per pigrizia, “il compito di dare una forma ai loro sogni” e ai loro pensieri, tranne poi a ribellarsi al momento del tracollo economico indossando “i panni delle vittime, dimenticando che erano loro, gli ignavi, il motore di tutto”. Pure così, il giovane si lancia in auto contro la polizia che carica alla cieca e gli spara contro, falciandola con una rabbia finalmente animale, se con questo termine siamo disposti a indicare un essere che non ha bisogno di pensare o di capire per sopravvivere, perché agito da un servomeccanismo amorale o pulsionale. Servomeccanismo dunque mai banalmente scatenato, come pure per l’incontro con il lupo, dalla vulgata muscolare “pesce grande mangia pesce piccolo”, ma dalla corretta constatazione che prosegue “il più adatto” all’ambiente. Del resto, al pari del giovane protagonista, anche i gruppi di rivoltosi appaiono agiti dalla stessa reazione etologica, un po’ come le bande umane o di scimmie in atteggiamento territoriale aggressivo analizzate da Eibl-Eibesfeldt. E la resa letteraria che ne fa Paolacci ci pare tanto più convincente se l’autore – rifiutando la linea che da Le Bon, passando per Sighele, fino a Freud ha descritto le folle come puro aggregato e sommatoria di individui – fa propria la visione che da Canetti in poi ha reso la folla come un “corpo unico” dal comportamento e dagli “appetiti” del tutto autonomi e peculiari rispetto a quelli individuali.

E tuttavia si parla di rivoltosi e non di rivoluzionari, di distruzione e non di costruzione, come se anche nel ventre della città la storia fosse chiamata indirettamente in causa se non per essere messa in ombra. Come altrimenti interpretare quei messaggi in esperanto che a un certo punto la radio comincia a diffondere? Certo con la dismissione della “lingua economica” per eccellenza. Salvo poi farne seguire un’altra tanto espressamente pensata per l’intero ecumene, quanto immediatamente straniante di una sostanziale incomprensibilità. Resta, così, alla fine, un pericolo (se l’ambiente è la distruzione) che i due rami di quella “Y” di partenza possano in breve finire per convergere: dalla montagna come stato edenico di partenza alla montagna come resto cui tornare dopo il fuoco.

Written by antoniocelano

giugno 11, 2012 at 9:03 am