Antonio Celano

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Recensione a: Dora Albanese, Non dire madre (Hacca, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 252 (gennaio-febbraio 2010), p. 55.

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A dar retta al titolo, il tema del libro dell’esordiente materana Dora Albanese dovrebbe essere quello della madre. O delle madri. Perché in effetti, a partire dalle vicende di una ragazza madre in una comunità meridionale, la raccolta di racconti man mano svolge i legami di ogni madre alle proprie madri, nella costruzione di una famiglia sempre più estesa capace di far proprie via via le esperienze della nonna Anna, di una vecchia che si aiuta per caso a traversare la strada, di un uomo che vuol diventare donna, di una figlia che vive a Parigi, del rapporto mistico e misterioso con una terra pure essa madre carnale. Percorsi individuali che pure sanno farsi, nella scrittura dell’autrice, costruzione e memoria di una biografia collettiva.

In realtà il tema forte sotteso alle brevi narrazioni di Dora Albanese è appena più a monte. È il cordone ombelicale: viscerale legame che avvince tutte le protagoniste –come fossero una sola– alle genitrici, alla loro terra d’origine o d’approdo, alla comunità, ai padri, ai loro compagni e mariti, ai figli, alle reti di relazione intessute. E il dilemma resta sempre lo stesso: continuare a pompare ossigeno e vita attraverso quel cordone oppure definitivamente reciderlo. In ogni caso sempre facendo una scelta coraggiosa di autonomia («Io però, a un certo punto, mi sono imposta di non dire più madre, di non cercare mai più l’aiuto di mia madre; perché una figlia che diventa madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità per dare spazio al suo bisogno di riscatto») o di assunzione di responsabilità che obbliga a uscire fuori da se stessi nel comprendersi come parte di un tutto che, alla fine, implica sempre una crescita e un certo quotidiano eroismo («Ho deciso di perdonarlo, perché gli sbagli non li ha fatti solo lui. E poi tutti oramai si arrendono al primo problema, tutti gettano la spugna, ma la coppia è una cosa seria, una vera scommessa. Stare insieme è soprattutto riuscire a perdonare, finché è possibile, tutte le mancanze»).

Argomenti, questi, non disgiunti dallo sguardo nuovo e individuale con cui le donne della scrittrice materana colgono il mondo, meno lacerate come sono dal confronto –pendolare e non gerarchizzato– tra il «profumo della legna bruciata» del paese e una Roma luogo di emigrazione, ma pure patria elettiva. Per cui alla fine ci si può sentire più estranei (quasi che si fosse migrati da fermo) in presenza delle famiglie di origine –nel frattempo passate dalla cultura contadina a una dimensione compiutamente piccoloborghese– e più aperti rispetto a un recupero senza patemi della tradizione. Oppure più adattati e liberi a Roma. È uno sguardo, insomma, che finisce per essere positivamente meticcio, periferico e ancora una volta autonomo anche rispetto al puro legame geografico.

Anche così –anzi a volte proprio per questo– non mancano poi durezze nelle occasioni e nelle scelte di vita, non mancano le malattie, i dolori del parto, gli amori consunti, le ferite subite dai padri, la decadenza fisica della vecchiaia, un corpo giovane che pare già adulto e provato. Ma tutto ciò indica solo che il luogo privilegiato dall’analisi culturale è passato dai corrugamenti orografici a quelli del corpo. Corpo come spazio le cui manifestazioni morali sono sempre prima leggibili come disagio fisico.

Ma il malessere, persino lo sfacelo del corpo non è mai definitivo in Dora Albanese: non è la morte, non ne è l’annuncio, bensì ciò che precede la vita. Non è decomposizione, sono i tremori irriflessi, i capelli unti, gli sgradevoli sudori della pelle, un vecchio callo raschiato via fino al vivo della carne. Sono gli involucri del serpente che ha imparato a lasciarsi dietro le stagioni.

Non è un caso che a un certo punto l’autrice parli del duende. Per García Lorca nel ballo, nel canto, nella scrittura, il duende non è una tecnica, non è un pensiero –almeno non solo– ma è un lottare la vita, è uno stile, il sangue. Il duende affonda le sue radici in un limo nero e misterioso, è spirito occulto, ma è anche –per concludere– «il costante battesimo delle cose create, una freschezza inedita». Il duende è, insomma, una forza che procede dal buio alla luce. Meglio, è una luce che procede nel buio. È per questo che dal dolore di Dora Albanese si riemerge continuamente «riacciuffando la vita» dalla notte, la memoria dalla morte. E, per questo, è un dolore di cui si può necessariamente dire solo dopo che è stato attraversato, che resta cicatrice benefica nella memoria personale o condivisa, che nella scrittura un poco decanta pur senza definitivi distacchi emotivi. Il tutto narrato, come bene spiega la nota introduttiva in bandella, con «una lingua sospesa tra oralità e letterarietà, continuamente scossa da innalzamenti lirici e da velocizzazioni quasi automatiche».

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:02 PM