Antonio Celano

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Recensione a: Laura Bocci, Sensibile al dolore (Rizzoli, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 233 (settembre 2007), p. 44-45.

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Pur nella differenza di toni, di senso e di stile, è già stata rilevata da Novella Bellucci («L’indice», n. 3/2007) una «comune discendenza» nella molteplicità e nella ricchezza di temi tra Di seconda mano, libro rivelazione di Laura Bocci, e il più recente Sensibile al dolore: il primo, caratterizzato da forme mescidate principalmente di saggio e narrazione; il secondo, romanzo polifonico costruito da tre voci femminili.

E tuttavia ci pare possa essere rilevato almeno un altro dato di continuità strutturale in più, quasi un atteggiamento mentale di fondo che riesce a tenere legate saldamente le prove apparse a due anni di distanza l’una dall’altra. Ci pare, insomma, che l’Autrice continui a proporci, in più punti del suo romanzo (e stavolta per bocca di una delle sue voci narranti), quell’atto e quella fatica del tradurre, nelle sue fondamentali operazioni di attraversamento e empatia, quella disponibilità a trasferirsi «armi e bagagli nel libro stesso, e poi a restarci dentro», già spiegata all’interno del suo primo testo dedicato, appunto, al particolare mestiere di «tradurre letteratura». In Sensibile al dolore non si tratterebbe ovviamente di tradurre un testo in un altro, quanto dell’arte ben più difficile di portar dentro, sempre attraverso le parole, una vita in un’altra –addirittura due in un’altra–, di portare alla coscienza, rivivendolo e filtrandolo in un altro sistema emotivo e culturale, il dolore vissuto da altri, condividendolo e lenendolo pur senza mai riuscire a estinguerlo. E tutto questo in un libro coltissimo che perciò invita alla lettura e alla rilettura, dalla scrittura densa e tuttavia urgente, capace di coinvolgere e di irritare, dai toni sempre perfettamente aderenti alle psicologie e alle esistenze di personaggi complessi e lacerati. Tanto da spingere addirittura alla scelta di caratteri tipografici diversi per ognuna delle protagoniste: per il diario di Anna, ad esempio, uno della famiglia dei Courier, dalle forme squadrate –Modern face o, come avrebbe detto il grande Aldo Novarese, «bodoniane»– e con aste sottili e eleganti, che con le spaziature larghe e invase di bianco si lasciano leggere peggio, ma bene sanno rendere lo stile da appunti provvisoriamente ricavati da un blocco note informatico; per le parole di Maria P., poi, un Monotype corsiva dal sapore antico e con qualche gotico contorcimento, che sembra incidere nella carta con la punta dura e affilata di un pennino metallico. Cosa che consente, tra l’altro, di farsi anche una rapida idea visiva della differenza caratteriale tra le donne che via via si danno il cambio in una narrazione costruita come una sorta di matrioska, dagli incastri modulari ma tutti estremamente ben collegati in un’unica struttura.

La storia è questa: una donna che viaggia in una cuccetta ferroviaria incontra casualmente una sconosciuta che risponde al nome di Anna, la quale decide di leggerle il diario da cui si apprendono uno spirito dalle complesse stratificazioni anche ideologiche e una vita segnata da alcune esperienze psicanalitiche fallite. Qui il lettore viene a scontrarsi con una quantità davvero notevole di temi e problemi affrontati: il femminismo e la crisi del ruolo maschile, la psicanalisi come strumento di liberazione e nel contempo come strumento storico del dominio maschilista, il rapporto corpo mente ecc. Tutti temi e spunti di riflessione teorica oggi sottoposti a una particolare pressione critica e di revisione, ma che comunque agitano e polarizzano dicotomicamente Anna, sovrapponendosi e interagendo con una personalità già per altri versi segnata, qui profilando e contestualizzando coerentemente del personaggio gli anni di crescita e di formazione.

Sparendo nella notte, Anna lascia in dono alla donna il resto dei fogli raccolti in una cartellina e una serie di ritagli di giornale. Tra queste carte segue l’incontro casuale di Anna con uno psichiatra, con il quale instaura subito un rapporto singolare soprattutto per una donna che, come ha ben sintetizzato Filippo La Porta, ha deciso «di vivere in un mondo svuotato del maschile». Un transfert dai connotati sentiti dalla paziente come decisamente simbiotici e emotivamente coinvolgenti, pur rimanendo nei canonici binari previsti da ogni buon manuale del paziente. Insomma, «una relazione che non esito a definire d’amore, anche se forse qui l’amore è da intendersi come una specie di protesta, o di resistenza vitale delle parti sane contro una sofferenza profonda, un dolore terribile subìto –impotente e senza mezzi di difesa– nella prima infanzia», che si può tradurre per Anna negli abusi sessuali subiti da un amico dei nonni, ma anche nel rapporto difficile e poi quasi interrotto da una madre che praticamente ha finito per emarginarla. Lentamente, aiutata dalla psicoterapia, ma pure coinvolta dalla sua personalità e dalla sua «presenza fisica», il trauma affiora dirompente dopo un lungo silenzio e viene finalmente detto e oggettivato, anche se esso difficilmente potrà essere compensato da un pieno superamento delle ferite ricevute per così lungo tempo. Siamo a un passaggio importante: aleggia qui il tema canettiano delle parole sensibili al dolore e tornano alla memoria i rilievi, ovviamente originati da un diverso contesto clinico, di Eugenio Borgna, recentemente così riassunti da Raffaele Crovi: «il silenzio non è mai una terapia della malattia mentale; sono le parole o le immagini i media del ritrovamento dell’identità soggettiva». Ma parole mai neutre, anzi impregnatesi nel lungo silenzio di un dolore grandissimo, di cui più non perderanno la cifra e il peso, che dopo la «guarigione» al massimo potranno essere trasmutate in nubi malinconiche di rimpianto o di rammarico.

Dai ritagli di giornale si evince poi che Maria P., un’irriducibile personalità borderline sempre in compagnia di un cane malandato e di una sporta piena di libri, incontrata da Anna nella sala d’attesa dello psichiatra, ha accoltellato quest’ultimo.

Sia i fogli che i ritagli interrompono bruscamente qui la loro narrazione. La donna decide, spinta da un coinvolgimento di cui non riesce a liberarsi, di costruire un finale comune per i protagonisti (incluso, non a caso, lo psichiatra). Un finale dove per tutti varrà l’accettazione del dolore e la convivenza con esso, l’accettazione di questa sua ineliminabilità dai percorsi della vita di ognuno di fronte alla quale anche l’analisi deve dichiarare i propri limiti. Per cui vale l’osservazione molto ben centrata di La Porta (espressa in una pagina web di www.avvenimentionline.it) secondo la quale, nel romanzo, si «potrebbe quasi configurare un primato della scrittura sulla psicanalisi: lo scrittore infatti, al contrario dell’analista, non si pone un obiettivo, non intende “guarire”, ma solo vuole aderire all’esistenza senza pretendere di curarla». Ma questo primato, aggiungeremmo, finisce per investire positivamente anche quell’atteggiamento inizialmente richiamato, simile al tradurre, al filtrare in modo del tutto particolare il dolore delle vite altrui, riuscendo alla fine in qualche modo a compierlo e, nel contempo, a superarlo. E ciò attraverso la scelta di un passo più decisamente creativo che afferra le vite e le cronache lasciate monche per deciderne un finale tra i molti possibili, quasi che il vero travaglio del romanzo iniziasse da qui, provandosi la scrittura a costruirne –e a costruirsi, dopo una lunga stagione di crisi non ancora invero risoltasi– una possibile via d’uscita positiva.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:16 PM