Antonio Celano

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Recensione a: Antonio Paolacci, Salto d’ottava (Perdisa Pop, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Agosto 2010.

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La vita in graffiti di MET l’invisibile

Salto d’ottava (Perdisa Pop, 2010), seconda prova del cilentano (ma bolognese d’adozione) Antonio Paolacci, è un romanzo dall’apertura potente che incede epicamente con anafore e accumulazioni, compatto nella trama, soprattutto convincente nella sua sostanziale bicromia: il color ruggine di una fabbrica dismessa (il “Rottame”) che precipita improvviso in una tonalità di sangue rappreso; il tuono grigio e sordo dell’esistenza e di una città “che colpisce dentro, nella carne come una smania” a cui non si può sfuggire. Colori e tonalità che sono pure il linguaggio moderno e complesso di un romanzo sull’identità, ma poi anche sulla morale (le ingannevoli scatole cinesi della maschera e della verità a essa sottesa), sull’individualismo, la società, i graffi della memoria.

Rispetto al primo Flemma niente più storie intrecciate. L’eroe che campeggia nella storia quasi del tutto da solo è Matteo, anche quest’ultimo narrativamente piegato in due da un unico colpo (la tendenziale linearità della vita curvata in una sorta di chiusa “U” temporale): un solo cadavere che è un buco nero densissimo e dall’irresistibile accelerazione gravitazionale.

Matteo. Persona sedicenne, Persona in skateboard. Matteo di famiglia ricca e perdigiorno appena adolescente, uno skater che riempie con lo spray i muri della vecchia rugginosa fabbrica, il «Rottame», nel limbo che è tra stazione e città. “Met”, graffita ossessivamente, come spinto dall’oscura coscienza di un’identità precaria. Met che fa suo però uno stile sottoculturale (“il mito dei reietti che bevono e fumano e scopano”) con cui crede possibile cambiare il mondo, uno skate per mutare gli ostacoli in opportunità. “Quello che ancora non sa è che la sua maleducazione è stata disegnata per lui, pensata dopo un’analisi di mercato, decisa da una Corporation e rifilata a lui da una campagna pubblicitaria in parte occulta”. Un bisogno di futuro diluito ad arte in un eterno presente.

Intorno al “Rottame”, la notte, gay e spacciatori, un mondo di uomini dalla doppia vita.

Un giorno, nella fabbrica, Matteo scopre un cadavere, scopre che è uno skater come lui, vestito come lui (stesse Converse, stessa felpa, stesse scuciture e strappi…), che ha la sua stessa posticcia identità. Ha la testa spaccata, ma scoprire come è morto o chi lo ha ucciso presto perde d’importanza. Nello spazio della vecchia fabbrica ora dilatato dalla paura, tocca improvviso il fondo di qualcosa che lo rivela nella sua limitata pochezza rispetto a un tuono sordo e smanioso d’improvviso più grande che non gli lascia dire l’orrore a nessuno.

La sera va a un concerto – si stordisce di droga e sesso – cerca di aggrapparsi alla sua identità che sa ormai infranta. Ancora intontito Matteo torna alla fabbrica, prende la decisione di occultare il suo facile doppio, di occultare il conflitto tra ciò che forse sa di essere, ciò che non è, ciò che forse sarà o potrà essere.

Ritroviamo Matteo molti anni dopo: non ricorda il suo compleanno, la sua età, il suo cognome. Si ritrova in vestiti costosi, un divorzio alle spalle (che è un altra liquidazione del suo passato), una piccola casa di produzione cinematografica lasciatagli dal padre ricchissimo, la maschera di uomo arrivato in una casa perfetta e asettica. Pure “Matteo Qualcosa” resta un uomo segnato, difficile ai rapporti sociali, dietro l’ufficialità una doppia vita fatta di luoghi equivoci e eccitanti appuntamenti via web. Matteo vive come se l’intera atmosfera del “Rottame” gli fosse rimasta appiccicata. In parte come Davide, il protagonista di “Flemma”, Matteo non manca di capacità di leggere lucidamente squarci del suo mondo e del suo tempo, ma senza la forza di trarsi fuori, ogni giorno un salto d’ottava, una nota che continua a ripetersi uguale benché con toni più acuti, che non produce melodia. Un’umanità, tra l’altro, fatto di finte trasgressioni, di contatti anaffettivi, di uomini con la maschera (protervi e insinceri anche sotto quella), di tentativi di sfuggire a se stessi.

In questo contesto Matteo è un uomo che resta in attesa di qualcosa, smarrito, irrisolto. Fino a quando il regista Campestri (scartando sulle solite produzioni da cassetta della casa) lo affascina con la proposta di un documentario sulla fabbrica dismessa, sulla sua storia e la possibilità di un suo recupero: un problema annoso e pure irrisolto, una ferita enigmatica nell’identità della città (che nulla ha a che fare con i cascami della vita notturna e morbosa della fabbrica). Matteo prima dell’inizio delle registrazioni deve ritrovare il coraggio di fare i conti con il cadavere nel “Rottame”: necessità, perché il documentario possa realizzarsi senza intoppi, ma di più lo stringente, improcrastinabile confronto con l’adolescenza, la possibilità che questo presente esteso torni a frammentarsi nelle tre forme del tempo, che l’alba possa nascere nuova sia pure con il suo carico di difficoltà.

Due ultime considerazioni. La prima stilistica. E si è già detto che la narrazione di Paolacci si precisa e si dispone su una sorta di spazio piegato con un punto comune e due “code” vicine a toccarsi (e non a caso l’adolescenza del protagonista è narrata in terza persona singolare, e l’età adulta in prima persona singolare, come a riprodurre distacco e simultaneità). Tuttavia Paolacci fa di più (perché lo fa ponendosi previamente un problema di sguardo e costruzione con un’accuratezza che credo gli venga dai suoi studi sul cinema): frantuma ad arte lo scorrimento narrativo e ne distribuisce i tasselli come in un paziente mosaico o un collage-frattale di cui può collocare pensosamente pezzo accanto a pezzo. E dunque le istantanee sulla vita del protagonista adolescente si alternano a quelle dell’adulto e così i ritmi narrativi, le informazioni e le analisi. Paolacci scrive un romanzo solo apparentemente realista, invece continuamente innervato di flussi di coscienza, pensieri e stati emotivi che costruiscono la scena percettivamente e in maniera necessariamente limitata. Il lettore è così avvertito di confrontare sempre il singolo tassello al contesto che mano a mano si costruisce.

L’ultima considerazione è sullo sguardo. Nel suo smarrito peregrinare tra uomini, identità e situazioni, Matteo incontra Doris, una studentessa che fa la escort (con regole molto definite) per pagarsi gli studi, eppure personaggio paradossalmente non doppio, anzi onesto nella sua scabra e fredda visione della vita: “Gli equilibri si fondano sui ruoli… C’è chi comanda e chi ha bisogno di essere comandato. A letto o per strada è la stessa cosa. Nessuno davvero aspira all’uguaglianza, e tanto meno all’imparzialità, mi spiego? Perché dove non esiste imparzialità non esiste limite”. Il che – sia detto incidentalmente (ma non tanto) qui e per il resto del libro – di Paolacci coglie il sicuro sguardo morale mentre dice, senza moralismi isterici o oscuri intenti politici, una parola definitiva e dura sull’uomo del tardo evo berlusconiano.

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Written by antoniocelano

agosto 29, 2010 at 9:27 PM