Antonio Celano

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Storia di Momo, che fece le stelle

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La fiaba che ho scritto per i bimbi della prima elementare dell’Istituto «L’Immacolata» di Livorno è stata illustrata da Federica Casapieri e letta, venerdì 27 maggio 2016, da Luciana Liliucci. Carmen Giardino ci ha aiutato a mostrare ai piccoli i pannelli con i disegni a graffito su cartoncino nero. 

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“Crack!… Toc!… Bang!… Dleng! Sguish! Pluff!… Bong!”…

Nella città lontana lontana di Pecenera, proprio ai confini dell’antica contea di Nerofumo, si ascoltano sempre strani rumori…

Direte: – “Ma come sono operosi gli abitanti di questa città, sempre a lavorare, martellare, piallare, impastare, tagliare!…”.

E invece no!

Allora penserete: – “Ma come sono fastidiosi questi abitanti di Pecenera sempre a batter casse, grancasse e casseruole, dar fiato a trombe e tromboni, far squillare campanelli e pure vecchie sveglie…”.

E invece no!

E poi, insomma, poi insomma un po’ vi arrabbierete: – “Ma che traffico in questa città piena di gente indaffarata per non si sa che cosa: auto che passano, camion che trasportano, motorini che sfrecciano!…”.

E invece? Invece no…

E allora – uffa! – cosa direte, bambini? Cosa direte, eh? eh? Boh!… che mal di testa!

Ohi ohi! Ricominciamo da capo, allora. Per bene.

C’era una volta, ai confini dell’antica contea di Nerofumo, la città lontana lontana di Pecenera. Ma c’era? Sì che c’era! Ma, chissà perché, nessuno l’aveva mai vista. E il colmo è che nemmeno chi ci abitava l’aveva mai vista. Era brutta? No!… cioè sì… Era bella? Sì!… cioè no… Vattelappesca!… Com’era, come non era, in quella contea la luce non esisteva: e non dico solo quella di lampade e lumini, che ci aiutano a fare i compiti d’inverno o a prender sonno, se abbiamo strizza la notte. A Pecenera non c’era nemmeno il giorno né la Luna quando, certe volte, sorge grande grande con il suo faccione e pare voglia gareggiare con la luce tiepida del Sole. E se qualcuno avesse chiesto a un abitante cosa fosse, ad esempio, la luce dolce di un tramonto sul mare con le sue ombre lunghe lunghe, quello sarebbe cascato dalle nuvole, semmai avesse potuto scorgerle viaggiare nel vento. Insomma, bambini, il buio era così buio e il pesto così pesto che nessuno aveva mai visto qualcuno e gli abitanti si riconoscevano tra loro solo dalla voce, se si incontravano… no, anzi, se si scontravano!

“Tronck!”

– Ahiiii, ma che craniata!

– Eh, mi scusi!

– Ma che scusi e scusi, stia più attenta!

– Sì, lo so, ha ragione, ma è che non l’avevo vista!

– Se è per questo, nemmeno io…

– Ma lei… mi faccia pensare… Lei non è il ragionier Francesco Ernesto Panfilo Nontivedo de Nigris? Eehh, ho un buon orecchio io, sa? L’ho riconosciuta dalla voce!

– E lei, scommetto, è la signora Pieranna Maria Giovancorvina Lanotte! A-ha! Ora che le tasto il naso pieno delle sue inconfondibili verruche pelose, la riconosco anch’io! Sa, le offrirei volentieri un caffè… se solo vedessi dov’è un bar!

– Non si incomodi, ragioniere. Ci penso io a offrirgliene uno fatto con la macchinetta di casa, di quelli buoni buoni. Ovviamente, appena casa l’avrò ritrovata. Sa, son tre giorni che giro, ma appena infilo il portone giusto – ci conti! – le telefono…

E così s’andava avanti tutto il tempo: testate, sportellate, gomitate, pentole cadute, bicchieri rotti e inciampi di tutti i tipi. Insomma, una gran confusione di rumori e di fracassi: “Crack! Toc! Bang! Dleng! Sguish! Pluff! Bong!”. Tutto il santo giorno, giorno che poi non c’era, perché, si sa, era buio di continuo e la gente dormiva sempre o era sempre sveglia, e ognuna alla sua ora. Non c’è dubbio, era proprio un bel problema: nessun gallo dava il suo chicchirichì all’alba, non c’era lo zirlo dei merli al mattino né le cicale frinivano a mezzogiorno, se era caldo. Persino i passeri e i pettirossi se ne stavano muti e straniti sugli alberi, tra foglie e rami che nessuno vedeva. Che tristezza! Anche i bambini non giocavano mai a “palla avvelenata” e a “un-due-tre stella!”, vi pare giusto?

In quella città, viveva un bimbo che tutti chiamavano Momo. Nessuno lo aveva mai visto, ma se vi fosse stata luce, avrebbe visto i suoi capelli un po’ ribelli e due occhi grandi grandi, a volte birichini e curiosi, a volte dolci e assorti. Fin da quando era nato, Momo, ben protetto dal tepore delle braccia della mamma, ascoltava volentieri le favole che il babbo gli inventava, considerato che i libri, là, in tutto quel buio pesto non era possibile scriverli, figuriamoci leggerli! Che fantasia aveva quel papà, che avventure meravigliose gli raccontava! Tanto che a Momo pareva di vederli quei pirati e quelle navi, gli arrembaggi, i duelli. Riusciva persino ad ascoltare i mari in tempesta, la carezza del vento sulla pelle e, sulla testa, il chiarore inviato dalle stelle…

Le stelle?

– “Babbo babbo, hai detto stelle! Cosa sono le stelle?” – chiedeva Momo, sempre con maggior curiosità.

– “Eehh!” – sospirava il suo papà, cercando le parole – “Cosa sono? Sono… buchi, buchi nella volta di tutto questo buio, lassù in alto, quando alzi il viso, anche se ora non vedi niente…”.

– “Che bello, babbo!” – esclamava Momo, al colmo dell’emozione – “E a che servirebbero tutti quei buchi?”.

– “Ma a far uscir fuori la luce delle stelle, piccolo mio…” – sorrideva sotto i baffi il papà di Momo.

– “La luce? E cos’è la luce delle stelle?”.

– “E chi lo sa, mio piccolo Momo, ma io quella luce la immagino come mille e mille perle brillanti cucite lassù, fatte per illuminare almeno un po’ le cose che ci stanno qui attorno e riconoscerle, per farci ritrovare se ci allontaniamo, per farci orientare se perdiamo il sentiero…”.

Era proprio buffo il babbo di Momo. Che storia bizzarra! Ma era tanto l’amore di quel piccolo per il suo babbo, che Momo finì per convincersi che quella cosa, la luce, da qualche parte doveva pur esserci! Tanto che il bimbo ne parlò entusiasta a scuola, agli amici, e tutti gli altri piccoli presero a canzonarlo.

Figuriamoci: – “Momo s’inventa le cosee!” gli cantilenavano dietro. Oppure: “Momo è mattoo!”. O ancora, peggio: “Momo è bugiardoo!”. Ma Momo, in cuor suo, custodiva con fede quella parola di speranza che il babbo gli aveva regalato. Vedere grazie alla luce. Da qualche parte doveva pur esserci. O poteva essere inventata? E lui, al momento giusto, avrebbe saputo riconoscerla? Chissà…

Ma come sempre accade in tutte le storie belle e in tutte quelle brutte, avvenne che il babbo, per il suo lavoro, dovette partire di nuovo:

– “Babbo, questa volta dove andrai?”.

– “Molto lontano, figliolo, ma mamma resterà con te”.

– “Tornerai presto?”

– “Questa volta non lo so, Momo mio, ma non così presto, avrò molto da fare…”.

Per Momo furono momenti molto tristi. Il tempo passava e passava e la nostalgia del babbo si faceva sempre più forte. Che voglia di rivederlo, di riabbracciarlo, di sentirlo di nuovo raccontare di pirati, di mare e di quelle strane stelle!

Come fu e come non fu, a un certo punto, il bimbo riempì il tascapane col cibo in dispensa, baciò la mamma che dormiva, accostò l’uscio e si mise in cammino nel buio. Uscì dalla città, seguì meglio che poté la via e, una volta percorso tutto il sentiero, entrò nel bosco che gli stava di fronte. Momo cercava di scacciare la paura e, quando il sonno lo vinceva, si rifugiava sempre sulla cima di un albero, perché gli animali della foresta – che non ci vedevano, ma avevano un olfatto finissimo – non potessero sorprenderlo sul più bello del sonno. Il bosco, però, sembrava non aver fine, Momo faticava per non perdere la direzione. Cammina cammina, il bimbo, che chissà da quanto tempo andava avanti, in pensiero anche per la mamma che sicuramente l’aspettava, s’accorse che il suo tascapane era ormai vuoto. Disperato e stanco, Momo si lasciò cadere su un grosso masso.

S’era appena seduto che improvvisamente sentì: – “Tock!”… “Tock!” – e poi: “Tock ! Tock! Tock!”.

– “Chi è là?” – Urlò Momo, tutto impaurito. Il rumore si arrestò all’improvviso e tutt’attorno si fece un gran silenzio.

– “Chi sei tu, invece!” – rispose una voce che pareva venire dalla pietra sulla quale s’era messo – “Sai, è un’eternità che vivo qui e mai nessuno si era spinto fino al margine del bosco!”.

– “Sono Momo”– disse allora il bimbo rivolgendosi alla pietra – “E tu? Sei un masso parlante? Non ne ho mai visto uno e scusa, ma mi hai fatto un po’ paura…” – aggiunse timido timido.

– “Ah ah ah ah!” – si sentì ridere come in una caverna – “Una pietra parlante! Ah ah ah! Questa è bella!”. Poi, la voce continuò: – “Allora Momo, cosa sei venuto a fare fin qui?”.

– “Signor Masso, sono venuto a cercare la luce delle stelle!” – disse il bimbo tutto fiero di sé.

– “La luce? Le stelle? Mai viste, caro mio, almeno qui. Sei sicuro di aver fatto la strada giusta? In tutto questo buio impenetrabile è facile perdere la strada e tu, dalla voce, mi sembri proprio un bambino…”.

– “Non lo so” – rispose allora Momo – “ma le cerco perché so che il mio babbo quando le vedrà, tornerà presto a casa”.

– “Sei sicuro?” – domandò la voce.

– “Certo che sì, nessuno mi crede, solo il mio babbo saprà per certo le ho trovate io!”.

– “Se le cose stanno così…”. Momo si sentì afferrare sotto le braccia da una forza incredibile.

– “Stupida pietra, lasciami!” – Urlò il bambino scalciando. Ma quelle braccia possenti lo misero a sedere.

– “Non sono una pietra…” – disse allora la voce – “Mi chiamo Johannes e sono un boscaiolo: tanto tempo fa venni fin qui per starmene solo, lontano da tutti, perché non avevo figli. Ora sono vecchio, però ho sempre saputo che se avessi avuto un bimbo forte e coraggioso come te, prima o poi sarebbe venuto a cercarmi”. E le ruvide mani dell’uomo si posarono con speranza sulla piccola testa di Momo.

Il vecchio boscaiolo diede al bimbo tutto quello che aveva da mangiare, benché fosse povero e, prima di lasciarlo andare, diede al bambino un dono: – “Questo aculeo l’ho tolto una volta a un grosso istrice che veniva da lassù, dalle montagne che ora vuoi salire, ed è stato sempre il mio portafortuna: ora è tuo, vedrai che al momento giusto ti servirà!”. Così detto, alla fine, i due si abbracciarono e si salutarono.

Ripreso il cammino, Momo prese a salire il fianco di un’alta collina e la marcia si fece più faticosa. Era forte, ma anche quei monti sembravano infiniti. Verso la cima, ormai sotto la volta del cielo, Momo si guardò intorno: tutto era notte, come sempre, una notte eterna e infinita. Fu allora che Momo sorrise, come avrebbe sorriso il papà, ed ebbe un’idea! Subito stese le mani davanti a sé: pensò al buio, che lassù era spesso come una parete, ma soffice, e immaginò. Immaginò a suo modo come potevano essere le stelle.

“Che scemo! Perché non ci avevo mai pensato prima?” – esclamò il bimbo tra sé e sé! – “Il buio sono solo le cose che si nascondono nella nostra testa per non farsi vedere!”. Così, giunto sulla cima dei monti, Momo afferrò l’aculeo d’istrice che il boscaiolo gli aveva regalato e lo piantò con tutta la forza che aveva nel muro notturno del buio… fu allora che – man mano che il bimbo andava allargando quei fori – da dietro cominciò a filtrare qualcosa che non s’era mai vista, leggera e dorata; una lama che, pizzicando un po’ gli occhi, si mise a carezzare i rami e a colorare un poco le foglie.

Molto più da lontano, dalla città di Pecenera, gli abitanti videro con loro grande stupore accendersi uno, due, cento, mille minuscoli puntini dorati e tremolanti. E rapiti ormai dal profilo visibile dei monti, i bimbi – d’un tratto ricordando pentiti il loro amico – esclamarono in coro: “Ma allora è vero! Momo sta facendo le stelle!…”. Fu così che, alla luce che andava schiarendo la notte, il babbo tornò e avvenne che i grilli, anche loro sorpresi da tanta bellezza nel cielo, per la prima volta si misero a cantare dolcemente insieme.

Pannello 3

Illustrazione di Federica Casapieri

Lettera per Rosa

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La notizia della tua morte in un incidente d’auto mi raggiunse in un giorno di qualche anno fa. Un giorno come tanti, un giorno che non appunteresti mai sul calendario perché lo stai vivendo come tutti gli altri, in ufficio. Pure, la tua fine, è stata per tutti noi eccessiva come i tuoi momenti di felicità, come le tue ansie, la natura del tuo stesso spirito che era fatto per uscire fuori, costruirsi fuori, con gli altri.

E così, man mano che con mia moglie ci avvicinavamo a Cairo Montenotte, tutto partecipava della tua scomparsa. Le strade si facevano strette, difficili, irrazionali, ricavate in angosciosa scacchiera da grigie abitazioni e sciatte fabbrichette dall’aria dismessa. «Cairo». «Montenotte». Mai ho trovato un accostamento più manicheo, stridente, di elementi geografici. Un’utopia esotica e una sagoma nera, la luce al suo zenit e un buco nero capace di inghiottirla. Un mondo ostile perché assente, da dimenticare solo col lavoro o da accendere trovando un amore capace di ridare un colore, un senso al grigiore architettonico. Poteva aiutarti anche quella tua irresistibile, insopportabile voglia di confusione.

Tu non eri emigrata, eri solo fuggita in uno dei tanti posti sbagliati che potevano sceglierti dopo la tua decisione di trasferirti. Volevi solo avere la possibilità di confrontarti con le persone, rapportarti era la tua misura, oppure anche stordire la vita in mondi altri dove l’arrivo coincide con la massima lontananza dal proprio mondo. Perché, vedi, i nostri paesi non sono adatti a contenere le ansie, i sorrisi e gli spigoli di ragazze come te. Ai nostri paesi non piacciono le increspature: sono pericolose, perché vengono troppo da dentro, si manifestano con spontaneità. Tuttavia, al di là della sopportazione di questo obbligato metro, non eri altro che l’azione del tormento e tu le scarpe strette le avresti sentite dovunque…

Cairo, dicevo, ma anche Cengio, simbolo quanti altri mai di una natura stuprata e avvilita. Tutto partecipava della tua morte, appunto. Passando accanto al Bormida gelato come un movimento rappreso, una lavatrice ferma in mezzo al guado. Mi chiedo chi l’abbia buttata lì, mi chiedo quanto sia spesso il ghiaccio, quanto morta la terra, quanto gelida tu, il tuo viso di cera lievemente ingiallita. Un alito freddo, implacabile, sembra abbia soffiato dappertutto. Una morsa che prende prima alle dita, passiamo buona parte del tempo a battere le mani alla notte e al nulla. Neve dai bagliori vitrei, lividi lampioni al neon, un po’ di ghiaia irregolare sul bordo dell’asfalto calcinato.

Tuo padre si è preoccupato di noi, del nostro alloggio, di tutto. Ci racconta con forza insospettata di te, dei tuoi ultimi saluti, dello schianto… per un attimo penso che gli abbiamo portato solo, come si dice, «fastidio». Ma poi mi accorgo che dentro è solo un fantasma che cerca di distogliere lo sguardo dal baratro, che cerca di non restare una statua di sale, che combatte con il suo essere stato padre. In seguito, stento a riconoscere, per un attimo, tua sorella: mi spiazza, il dolore le ha dipinto la tua maschera in faccia, si aggira con le tue sembianze, ti veste, ti calza, mi impietrisce, mi lascio abbracciare, sarò apparso imbarazzato… Tua madre il giorno dopo ti guarda, ti interpreta, in un secondo ridà alle tue forme irrigidite movimento. Solo una madre può farlo. Come una medium in trance legge le tue ossa gettate alla rinfusa sul tavolo. Dà il responso: «È arrabbiata». Ma in fondo è arrabbiata lei, arrabbiata a morte, perché, insomma, le si sei polverizzata tra le mani scaraventandola a mille chilometri di distanza senza nemmeno lasciarle il tempo di sceglierti un vestito acconcio in armadio, senza nemmeno il tempo di trovare un pensiero meno articolato sulle note del dolore, perché una figlia non può morire così, di punto in bianco, come una telefonata che ti toglie il respiro…

Inizio a prendere appunti sulla tua morte quasi un anno dopo, a Galdo di Lauria, durante una serata danzante di beneficenza, in una situazione apparentemente paradossale. Scrivo su un pezzo di cartoncino durante un’occasione che, penso, non avresti perso se fossi ancora stata qui. A me non piace molto, a te, invece, piaceva ballare, scatenarti, ridere, poi sederti, chiacchierare o scherzare. Ricominciare dopo un sorriso o un momento in cui lo sguardo è rimasto assorto, giochicchiando con una mollica di pane tra le dita. Ti ricordo al mio matrimonio saltare allegramente sulle note di «Siamo i Vatussi», un motivo per te, non ti ci vedevo, infatti, a ballare i «lenti» anche se, poi, avrai ballato anche quelli. Pure, penso con un certo rammarico, che l’unica fotografia che ti scattarono in quell’attimo venne male. L’asta di un telone ti copre gran parte del viso e non aiuta il ricordo. O forse, quella ripresa non è che la metafora della mia incapacità di capirti fino in fondo.

Quel giorno che con le auto salivamo tutti al Sirino per la festa e tu tenevi ostinatamente il viso fuori del finestrino, rischiando di farti sbranare la faccia dai rovi sporgenti sulla via, io come gli altri ti ritenni, al momento, sopra le righe. Con la lontananza sopravvenuta in seguito, non mi hai lasciato la possibilità di raccontarti cosa di te apprezzavo, che è proprio quella tua libertà istintiva, afferrata senza condizioni, che con il tempo mi ha rivelato, come la decantazione di un vino, un mio certo fondo limaccioso di convenzionalità.

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Pubblicato su «Il Sirino».

Written by antoniocelano

febbraio 4, 2012 at 2:11 PM

Pubblicato su Lettera per Rosa

Racconto: Labirinto centrifugo

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’immaginazione», n. 255 (giugno 2010), p. 18-19.

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Un reportage. Volevo fare un reportage – mi ricordo – e come un matto me ne stavo a un angolo del centro chiedendo ai passanti dove fossero mai i limiti della città e, oltre, cosa poi ci fosse. Ma chi sfuggiva infastidito, chi alzava le spalle. Qualcuno chiamava un agente. Da lì non capivo granché. La città digradava tutta nel tempo, indistinta, dalle colline all’Arno e poi dal centro in lontananza.
La Firenze che cerco invece non è qui, è fuori mappa, fuori dalle pagine di un saggio in una biblioteca, fuori dalla testa dei fiorentini. Sì, certo, questa città non ha confine – l’ho detto – ma ha una frontiera, uno spazio che si dilata e cambia e s’apre la strada in un mondo estraneo. Spazi da attraversare a piedi o con mezzi lenti: niente frenesie, auto veloci. La periferia come esperienza, sangue, carne, vita. Ecco. C’è un posto di questa città che non è fatto di pietra, di Storia, di un Rinascimento di cartone consegnato ai turisti. C’è un posto in questa città dove non c’è l’Uomo, ma i blocchi, i lotti, i palazzi in ferro-vetro. Una terra che nel ventre non ha terra, ma cavi, tubi, cemento, il sangue elettrico. Una campagna sconfitta, atterrita, d’acciaio, dove non ci sono alberi, perché non ci sono radici. Ci sono lingue, dialetti, vernacoli, ma non c’è Dante. E se mai passò di qui, anche da questo inferno, non si vede più.

Tempo fa mi aggiravo a Mestre. Un cielo saturo e indistinto, la testa vagava nel nulla riempito di case, di vecchi, di gente agitata nel volo confuso che fanno le mosche. Presi un mezzo solo per fuggire e più avanti, da qualche parte, l’autobus s’arrestò sulle rive di un mare piatto e salmastro. Dall’argine risalì un mestolone: stava fermo sul ciglio di strada, ci guardava come uno in attesa alla fermata. Così il bus mi parve all’improvviso una cosa fuori posto, una vecchia lavatrice, una tele rotta buttata appena oltre il ciglio della via. Mi ricordai allora di un mondo opposto, un frigo bloccato nell’acqua ghiacciata del Bormida, la notte che mia cugina era morta nell’incidente e se ne stava lì nella camera, vestita di un improbabile rosa, come il suo nome. Cairo Montenotte: l’ossimoro mi apparve dirompente all’improvviso. Col piede scostavo dalla via pietruzze calcinate dal freddo.
Di Potenza mi sovvenne solo dopo, l’autobus pieno di studenti prima di scendere in corteo contro la Falcucci, e mi chiedevo perché diamine mai la gente se ne stesse acquattata dietro le colonne dei palazzi. Fino a quando scesi, ché il vento tagliava la faccia con le lamette.

A Roma, invece, c’era a via degli Ausoni questo amico studente che mi disse «vieni» e io l’andai a trovare e entrai nella corte chiusa dei palazzi, i balconi con le ringhiere sottili di metallo rugginoso. Non un muro imbiancato, tutto era ridotto al suo telaio, al suo scheletro essenziale: una bicicletta senza ruote, una finestra senza vetri, un ombrello senza telo. E questa struttura che mi girava attorno come un mancamento, questa babele che si avvitava come una colonna, aveva il suo Minotauro. Un vecchio dagli occhi sottili, crudeli, una canotta lercia, i calzini, le mutande vecchie con la patta aperta, i testicoli avvizziti. Ci guardava ingobbito dal balcone. Fumava dal naso e la cenere cadeva giù.

A Firenze ci sono le risse e gli omicidi, i matti e gli stupri, i regolamenti di conti, gli scempi edilizi, le fatiscenze come altrove, ma se pensi la città ti scatta come un delirio e il Duomo e le colline fiesolane e i beni artistico/culturali saturano – a un tratto – la testa, la memoria, la coscienza, la nostalgia. E dunque anche il Pacciani io l’ho sempre immaginato alla sbarra cantare improvviso «la mi porti un bacione a Firenzeee!» con seguito di applausi a scroscio e sicuri ritorni turistici.

In via Baracca, sull’insegna del negozio c’era «Ettahoid», adesso c’è «Anour» mi pare, ma apre più tardi. Sulla soglia del negozio una gran barba squadrata. Il macellaio asciuga le mani in un canovaccio lindo. Più avanti, sulla via Pratese c’è una cupolina ottagonale, l’oratorio di Santa Maria Vergine. Non è tra i campi, come a Bolgheri. Fa da spartitraffico, schiacciata da un soprapassaggio, crepata dai motori. Dopo ci sono solo i cinesi, una Firenze che si srotola come una mappa antica, hic sunt leones. Però forse sono io che ci vedo tutte queste cose e altri no, e qui è solo un gran caos e voglio dare un ordine che, insomma, par che ci sia e – se poi t’aggiri dentro – non c’è, e la modernità è solo un gran baccano per distrarre l’attenzione.

Osmannoro. Lungo i viali larghi di questa città altra ma nascosta, cammino nel vuoto surreale, scorro le alternanze di spazi vuoti e capannoni. Ci sono luoghi, qui, in cui le case diradano e i capannoni iniziano, punti dove le costruzioni in muratura non cessano ancora e le strutture in ferro-vetro ancora non trionfano e allora accade che le tipologie si ibridano, le abitazioni ospitano officine d’auto e concessionari. Ci sono un paio di mutande stese nei pressi dell’insegna della banca.
Domenica. Perché sia venuto qui, ora, in questa luce implacabile e vuota, non so dire. Cartelloni muti, macchinari fermi, anche i cinesi sembrano dissolti da questo pomeriggio di primavera. Improvvisi vulcani vomitano dal cemento fiumi di formiche nere.
Dietro una grata c’è un pezzo quadrato di terra. Forse un giardino, nei primi propositi, ma incolto, quasi a dire che lo spazio per disegnarlo questo giardino, per piantarci fiori e per curare l’erba e disporre siepi c’è stato, ma non c’è stato il tempo, il tempo e i soldi per orpelli, belletti ipocriti, utopie da falansterio, decori casalinghi. Sul terreno crescono selvatici i ciuffi di canne, le garighe di inula, se piove le code d’equiseto quando la terra ha memoria dell’acqua, nostalgia del padule che era. Attraverso la grata sfondata entrano furtivi due ragazzi e una ragazza, mi sembrano slavi, portano buste della spesa. Guardo la costruzione che occupano: è piccola, un grumo d’uffici in disuso, con le finestre sbrecciate.

Dall’autobus scende impacciata una vecchia signora, sale una coppia. Sono cinesi, restano in piedi, parlottano aggrappati alla sbarra metallica. Lui segaligno, la faccia tagliata con l’accetta, smorti i suoi pantaloni marroni, smorta la sua camicia a quadri. Anonimo – mi dico – il volto e i vestiti. Ha i tratti tirati, è inquieto, sibila qualcosa a quella che pare essere sua moglie o una parente. Non capisco, ma forse è solo il loro modo di litigare. La donna ha un vestito grigio che non riesco a definire – ma importa? – ha questi capelli neri, forti, spessi, che si porta sulla testa come un buffo copricapo africano, il tetto di una capanna. Le labbra sottili celano due incisivi deformi, ribattono all’uomo con pause improvvise, più perentorie.

Eccoli i controllori: salgono a percorso avviato, come sempre. Parlottano due minuti del più e del meno, come normali passeggeri. Poi attaccano al bordo delle giacche i cartellini. È la loro tecnica, efficace, usata, affinata come quella di un paio di camaleonti. La coppia non fa a tempo ad accorgersi della loro presenza che loro sono già lì, a chiederle il biglietto che non hanno.
L’uomo e la donna subiscono una repentina mutazione. I volti, che prima s’affrontavano, ora sono giustapposti, si distendono, diventano di colpo gioviali, accennano come a un inchino di fronte alle facce inespressive dei tipi, che insistono. Vorrebbero eccepire, farfugliano un paio di parole in italiano imparate chissà dove. Vorrebbero, insomma, non so come, rifiutarsi, ma quelli, ecco, quelli si fanno più fermi, li stringono da presso, esigono e poi emettono un suono che supera il rumore di fondo del mezzo, vibra più delle scosse dell’insieme delle parti metalliche, delle buche della strada, dei seggiolini dove siamo seduti: «prego, documenti». I due s’inchinano, no si piegano, ecco, si
flettono nel loro sorriso finto, ostentato, irritante. Oscillano. Paiono canne di bambù in preda a un vento improvviso, le loro voci come un fruscìo di foglie, gli occhi sgranati, due marionette da teatro imbellettate, da Opera di Pechino. Attorno. Girano attorno una dietro l’altro a passettini, e a passettini dietro di loro i controllori e dietro ancora, a passettini, gli sguardi della gente e finalmente la scena si apre a gesti acrobatici, ai salti, al gong, ai fiocchi delle spade roteanti, alle nacchere e ai piattini sempre più veloci, alle voci flautate, ai lamenti suadenti, i movimenti meccanici, le teste oblique, i mostri blu, i mostri semidivini che chiedono il biglietto, i due cinesi pazzi tra onde di tragedia, che proprio non si possono, non si possono sfuggire.

«Documenti, prego». E tutto si ferma. La farsa finita, il tempo sospeso, la mano che fruga, lenta, i vestiti. Mei Lan-Fang, il volto esacerbato, la bocca aperta, il respiro faticoso che estrae un portafogli. Mei Lan-Fang che si rammarica. Mei Lan-Fang che ha paura, le sue labbra sporcate di ciliegia. E questo tempo interminabile, pari alla cifra infinita che fa cinquanta euro, al tempo infinito che serve a vergare un verbale, al tempo infinito in cui un cervello, due, insomma, si lambiccano all’unisono infinitamente per inventare chissà quale scusa al momento del ritorno, in fabbrica, il capo chino, il capoccia che guarda storto. Oppure sono solo due furbi: ce l’hanno messa tutta per fregare l’Ataf, ma gli è andata male, cinesi di merda. L’autobus improvvisamente stormisce di opinioni da facile democrazia diretta, sul modello dei reality show. E poi la porta si riapre e i due scendono e con loro riprende il tempo e il colore smorto dei panni e romba l’autobus e sgassa e i cinesi, sì insomma, i due, che sono proprio i due cinesi che avevo visto salire (Mei Lan-Fang chi l’ha mai conosciuto?), i due che riprendono il solito colore giallo dei contadini costretti all’industria, costretti al suo ergastolo, a un riscatto che non pagheranno mai, si arrestano un attimo, si guardano in faccia e, mentre il mezzo gli chiude le porte sul muso, alzano il pugno, sì, la memoria per un istante a ravanare in un guazzabuglio di adeguate parole e poi, insomma, poi parte l’invettiva dell’uomo. Fa eco la donna e rincara, ma sempre con voce strozzata, inascoltata, inascoltabile. Sibilata vibrante protesta che l’autobus copre mentre sta sfilando via.

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Written by antoniocelano

luglio 19, 2010 at 6:56 am

Racconti: Lager H2O

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Questo racconto è pubblicato su «Sagarana», n. 39 (Aprile 2010).

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Le quattro del mattino, il momento più fresco della giornata. Lentamente metto i piedi sul pavimento e per minuti me ne sto lì, a capo chino, a guardarne gli alluci ossuti. Altre volte mi sniffo le braccia appiccicose. Una volta erano ferrose, ora sanno di forte, di pelo bagnato di cane. Bene così – mi dico – non sono ancora vecchio io, con addosso quel sentore di reparto geriatrico, di reni vuoti, la pelle color piombo. Dalla finestra mi giungono colpi secchi di tosse, sospiri, piccoli rumori indaffarati.

Sempre finisce che mi paro davanti al rubinetto di cucina o del bagno. Sosto un attimo, lo studio. Poi apro e la manopola gira a vuoto perché non c’è pressione anzi, a dirla bene, perché di acqua proprio non ce n’è. Nemmeno il risucchio della canna. Quando chiudo l’attrito metallico mi dà la pelle d’oca. E ormai son gesti apotropaici, un tantino masochistici.
C’è stato un tempo che il rubinetto mi scatenava manie. Quell’atto ripetuto cinquanta volte al giorno, ogni volta nel panico. Ora solo due o tre, proprio non so rinunciarci. Ovvio m’illudo ancora contro l’evidenza. Allora succede che torno in camera e mi stendo: la sete mi succhia ogni fibra, ritorce i pensieri.
Altre volte prendo le scale: nel buio qualcuno scende con me, ci salutiamo appena. Apriamo il portone e aspettiamo. Stamattina distribuiscono gel antisettico igienizzante. È per le mani, ma ho finito per usarlo per il corpo, come tutti, basta solo non farselo finire negli occhi. Non è male in mancanza d’altro. Favorisce un’azione esfoliante della pelle, però è pure l’unico modo di eliminare germi e batteri, compresi lo Staphylococcus aureus, l’Escherichia coli e l’Aspergillus niger, assicurano. In realtà forse è l’unico modo di ricordarci un decoro di cui abbiamo fatto spreco e che non ritornerà. Però i pidocchi sulla testa ci restano, persino nelle barbe.

Tempo fa ci si buttava a precipizio per le scale rischiando d’ammazzarci, si faceva a cazzotti vicino alle cisterne, ai camion delle derrate. Poi nel trambusto si versava tutto, la gente calpestata, i vetri spaccati, la rabbia, le manganellate. Non che ora sia diverso, ma intanto siamo rimasti in pochi dopo l’apocalittico diluvio asciutto.
Confesso che alle volte ho tentato un inventario: cominciavo da grano per andare a patata, poi a piselli cetrioli tabacco. Partivo da alberi per finire a pane carne formaggi. Un vocabolario di sostantivi improvvisamente desueti. Pensavo nella rabbia: niente agricoltura, niente terziario arretrato o avanzato, niente industrie. Ora ho smesso, pensare non mi aiuta per nulla.
Ricordare mi spossa. Mi stendo di nuovo sul letto. La fame fa stopposo il cervello, il corpo come un nodoso tronco di spiaggia.

Notti calde, notti eterne e insopportabili. Abbiamo imparato a dormire occupando la minor superficie possibile del letto, migrando man mano nelle plaghe più fresche del materasso, il sonno danneggiato in un dormiveglia infinito. Facciamo sogni come stracci, che procedono incoerenti, che al mattino ci lascian sbalorditi, la stanchezza nelle cosce.
Ci siamo ritirati di fronte alla luce del sole. Abbiamo abitato per mesi le fogne, contendendo i liquami ai ratti, le macchie d’umido alle alghe. Abbiamo profanato i fonti battesimali incustoditi, bevendo come cani nella scodella, leccando l’acqua aspersa per terra nei litigi sabbatici. Di cosa dovevamo pentirci? Abbiamo sofferto dolori devastanti, duri come il calcare che ci incideva dentro. Intossicazioni da liquidi contaminati, cibi scaduti, acqua non potabile. Ci siamo aggirati lerci, i vestiti laceri, buttati dove capitava. Abbiamo ripagato bene la fedeltà dei nostri cani, dei gatti. Le tartarughe dei giardinetti. Come tossici. Ottusi al resto in questa estate eterna.

Distribuzione delle casse d’acqua. Aggirarsi circospetti al ritorno, attenti a un androne, a una strada troppo defilata, alla propria distrazione. A casa ho sgombrato la vecchia cassetta di sicurezza a muro, ci nascondo qualche bottiglia.
Nel vecchio parco comunale – tra gli spettri delle piante ornamentali – s’ingrassa il mercato nero.

Se qualcuno mi dice «abbiamo perso anche la gioia», io chiedo a me stesso se non l’avessimo persa già da tempo, ché da prima non eravamo più felici. Pure, quando scroscia in questo inferno una risata, attingo a una vena cristallina e fresca che scorre tra le dita come gocce di un tempo inaspettatamente ritrovato. Solo abbiamo imparato a far risparmio dei tesori, come una volta la carne si teneva nei cellieri per i giorni di festa.
Desideriamo ancora dietro questi volti asciutti, senza più maschere da montarci, telai di corpo col ventre vuoto. Sogniamo il fresco dei vecchi portici, il sugo di una pesca, teorizziamo sulle sfumature del basilico, sul fumo del ragù. Speranze con gli occhi dietro la testa, e all’indietro vorremmo riavvolgerci come un nastro e ritrovare il fertile humus di chi riposa già nei cimiteri di campagna.

A volte suona la sirena dell’allarme. Chiudo come da manuale finestre e serrande. Verranno i mosconi o le locuste a pretendere il poco che resta? L’Eterno non fa più distinzione fra il bestiame d’Israele e il bestiame d’Egitto.
E tuttavia viviamo, ci facciamo compagnia. Oggi Anna è salita su, s’è seduta sulla sedia aderendo per bene allo schienale. Ha allargato le gambe mi ha lasciato uno spicchio di posto, ho appoggiato la schiena ai suoi seni, due universi costellati di nei. Le sue dita hanno indagato i miei capelli, sollevandomi dal prurito delle lendini. Poi ci siamo scambiati di posto. Abbiamo fatto due chiacchiere attorno a un bicchier d’acqua condiviso. Da una piccola cornice i miei ci sorridevano stinti il giorno del loro matrimonio, le belle acconciature, i convitati lindi, un diffuso profumo di spigo.

Anna mi dice un posto dove la gente trova cibo, forse acqua. Un luogo dove la gente vive di nuovo, forse in un bosco…
C’è un posto, un luogo, ancora una speranza, allora, una leggenda. Mi aggiro snervato per casa. Su tutto – comò, letto, libri, scrivania – uno strato di polvere che pare eterna.

Di mattina presto, per strada mi strattona uno scheletro. Ha gli occhi spiritati, le labbra devastate: «acqua amico», mi dice già con più debole rabbia. A questo mendicante alzo le spalle, le mani in tasca. Mentre mi allontano continua a porre la sua domanda al nulla.
Come Giobbe me ne sto con un coccio per grattarmi sedendo nella cenere.

Nel dormiveglia ho sognato una città, i giochi, le strida, le giostre, i carillon. Vedevo tutto vicino eppure da lontano, da qui, da casa. Tutto era dilatato, come letto da occhi asinini.

Stamani i gabbiani starnazzano improvvisi dai tetti. Dentro le case l’aria è un filo di ferro, un respiro tagliato. Il silenzio improvviso mi ricorda i maiali, quel loro alzare la testa di scatto dal trogolo, il pensiero che cola via tra le fauci.
Poi un tuono. Un urlo. O un urlo che rotola come un tuono fino alle nostre orecchie, che mette i brividi. Altri tuoni e altri urli, sbattere di porte, fracasso di finestre. Le gambe si precipitano per le scale come una piena. Escono tutti. Donne uomini vecchi sotto lo scroscio forte, qualche bimbo poggia bicchieri di carta sul ciglio di strada. Il profumo delle muffe, poi l’acqua sulle dita dei piedi, i gabbiani che saettano altissimi, pterodattili lontani.
Ma è un attimo. Le nuvole in cordoni separati, il tempo di nuovo annientato, i bimbi a braccia aperte, le piccole mani umidicce richiuse. Gocce stillano lente da un tetto. Per strada una lercia schiuma di fango che qualcuno lecca.

Anna dice non ora, non qui, se le chiedo di fare all’amore. Nella testa ha ormai un chiodo rugginoso d’ossessione. La guardo deluso, ma di più preoccupato. Osservo il suo viso duro, ostinato. Discutiamo fino alla collera, prima che prenda le scale, che sbatta di nuovo la porta.
Fulminato me ne sto lungo sul divano, senza forze. Cosa mi resta? La fame, la sete, questa follia? No, più terribile è la solitudine, non essere più uomini, sopravvivere ai propri legami spezzati.

Sulla strada deserta la città è lontana, un ricordo disturbato come un sogno. Sotto le scarpe crocchia ghiaia di fiume, il ventre vuoto del fiume. La gariga pare infinita, qualsiasi meta irraggiungibile. Camminiamo sbandati, impauriti dai fruscii delle serpi. C’è un camaleonte su un tronco. Gli occhi rugosi, guardiani indipendenti di un confine invisibile.

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Leggi il racconto sul sito di «Sagarana»

Written by antoniocelano

aprile 15, 2010 at 9:41 am

Pubblicato su Lager H2O, Sagarana

Racconti: Lyctus

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Questo racconto è pubblicato su «Polimnia: la rivista di poesia italiana», Aprile 2010.

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Oggi la televisione ha detto che è agosto, ma che sulla costa ci sono stati un bel po’ di allagamenti, le trombe d’aria e la protezione civile in allerta. E anche qui una burrasca tremenda, le tapparelle hanno rullato tutto il tempo e l’acqua a secchiate e i tuoni a grancassa… I temporali li soffro, mi agitano, non li voglio vedere nemmeno da lontano. Una volta la casa dava quasi sul mare, soffrivo il libeccio. Adesso mi hanno costruito quattro casermoni davanti che hanno tappato tutto. Meno male. Così niente buriane e vento, solo una penombra spessa. Insomma, mi sento a mio agio: niente luce, niente spazio, zero cambiamenti. E poi mi piace guardare la confusione di vestaglie, canotte e mutande stese sul retro e i tinelli di vetro montati sui balconi zeppi di lavatrici, o altre cose inutili. Rompono un po’ i ragazzetti con i roller o gli skate. Tanto, la maggior parte del tempo, tengo basse le persiane.

Caterina ha sempre detto che sono malato peso. Una volta ci aggiungeva pure che sono un irresoluto e un inconcludente e me lo gridava con rabbia, con durezza, perché ho quarant’anni, dice, e sembro uno che vive le cose come se non fossero sue. Adesso ci sorride su, adesso che passa solo qualche volta per due chiacchiere o mi aiuta a rassettare il cunicolo, come lo chiama lei. Perché continua a farlo, dico io? Però non mi dispiace.

L’altro giorno dice: «Oh, Bruno, guarda un po’ qua…» e mi indica due o tre mucchietti strani di polvere sotto certi mobili che, quando è venuta via di casa, comprai di restauro per sostituire i suoi. Tra l’altro è da dire che Cate mi ci prende ancora per il culo, ché l’étagère e la sedia con la scrivania e pure l’armadio sembrano fabbricati per dei bambini piccoli, dice. A volte li guarda, dà una boccata di fumo e mi fa:
«Bruno, ma mi dici con che cacchio di criterio li hai presi ’sti mobili qua? e li hai pure pagati un botto, in proporzione…».
«E ci credo» rispondo io «son di legno tenero, ma del ’900, mi hanno detto».
«Del ’900, eh? saprai un tubo te che decennio…», borbotta tra l’assorto e il contrariato, con un pugno piantato sul fianco.

Insomma, alla fine le ho promesso di dare un’occhiata a questa cosa della polvere. In fretta, una volta tanto.
Va beh, la polvere è segatura. Finissima farina di legno. Solo che, a ben guardare, i mucchietti sono parecchi di più. Corrispondono ognuno a un buco nel mobilio, a occhio non più di un paio di millimetri. Perfettamente rotondi. Saranno animaletti, mi dico. Sposto i mobili, guardo meglio, e scopro il disastro, ché questi qua erano lì chissà da quanto a lavorare e non me n’ero ancora accorto. Guarda quanti buchi hanno già fatto… e il tipo che m’ha venduto i mobili me lo aveva detto o no se il legno era trattato? Mah, bisognerebbe farci un salto… ora vediamo, dai.

Resto seduto sul divano. Fumo e penso, penso e fumo, ma non mi viene niente se non questa nuova sensazione spiacevole. Più che incazzatura per i buchi è che ’sta cosa m’ha lasciato un po’ così e chi lo sa. Poi ci s’è messa anche la mia ex compagna e già lo so che poi mi rompe con la storia che io le cose le prendo sempre telefonate. E ora mi tocca pure impegnarmi subito in ’sta faccenda che sotto c’è qualcosa (sotto le faccende c’è sempre qualcosa) e mi sta montando pure un discreto mal di testa e la malinconia. Ma perché, poi… questa testa, dico… grossa e dura come il marmo e questo corpo flaccido da baco, ché non ho voglia di occuparmene Cate, dai, Cate, sì lo so, gli scricchiolii in campagna, la testa gonfia, dura per scavare il buco, non ho mica la forza Cate, e poi lo scricchiolìo, questo dolore nella carne… i buchi, la paura che brucia Cate… E mi sveglio urlando, ché la cicca m’è cascata sulla gamba e m’ha bruciato, perdìo!
Corro in bagno, mi sciacquo la bruciatura, la faccia. Vomito.

È una settimana almeno che guardo quei mobili e non mi ci avvicino. Fumo e li guardo, li guardo e fumo. E a un tratto mi chiedo da quand’è che compro le sigarette. Forse quando mio padre è morto. Dunque quando già ci aveva portato qui. E perché cerco nella mente queste cose? E mi sale la malinconia e il mal di testa. E dei mobili ho mica voglia.

Caterina è piantata in mezzo alla stanza, il solito braccio ripiegato sul fianco. Era almeno un mese e mezzo che non si faceva rivedere. Un giusto lasso di tempo per mettermi alla prova. Vedere quei mobili lì appena spostati in mezzo alla stanza, non fanno che confermarla.
«Allora?» mi fa, «questa faccenda dei mobili la risolvevi subito, vero?».
«Caterina, ricominci?», le faccio con tono scocciato.
«Sì sì va bene va bene… Oh, lo so che non sono mica più fatti miei. Però sappi che o loro o te!», dice alterata. «Mica ho intenzione di dividerti con quelle bestie io, lo sai che mi fanno schifo, soprattutto gli animali piccoli».

Gli «animali piccoli». Per Caterina si va dalla farfalla al geco fino al pipistrello. Meglio, alla paura del pipistrello, ché in casa nostra non è capitato mai. Hai voglia a spiegare che certi sono anche utili. Quando entravano in casa era tutto un turbinare di urla, scope e stracci, anche vetri rotti, una volta, di quelli a mezza luna, sul sopraporta, che per trovare uno che ce lo sostituiva si fece il giro delle sette chiese. Invece a me gli animali piacciono… piacevano. Quando stavamo giù, mio padre aveva i cani. Ma c’era il giardino grande e la campagna e ora a me parrebbe di segregarlo un cane. O un gatto, anche se questo è un tantino più cazzi suoi. In città non puoi tenere niente, ci stanno solo i peggio animali: i piccioni, le vecchie rincoglionite che gli danno da mangiare, i gabbiani che s’ingozzano in discarica. Altro che pesce e simboli della libertà. Quelli, quando si mettono di mattina sui tetti a centinaia, ti tolgono l’anima. Ora sono arrivati pure gli storni, che da lontano paiono moscerini al tempo della vendemmia e qualche buontempone, qui in città, ha convinto l’amministrazione a mettere un amplificatore con il verso del nemico naturale per tenerli lontani, dice, che ora la gente della piazza in centro non sa se lamentarsi più dello starnazzo inconcludente e inutile che fa notte e giorno il mangianastri strombazzato o dei quintali di guano che lasciano lì quegli inferni. Meglio i merli: li vedevi con quel capino schiacciato che lelli lelli ti saltellavano come topi sotto le magnolie del parco comunale, ti guardavano di sbieco e poi via, a tuffarsi nella siepe.

In città mi piace stare al chiuso. Gli animali li soffro, mi agitano, non li voglio vedere nemmeno da lontano.
«Oh, ma mi ascolti? ma possibile che vai sempre in tilt se ti dico ’ste cose?».
«Sì sì che ti seguivo, solo che mi era venuta un’idea per risolvere la faccenda…» butto lì, sperando che Cate non mi chieda cosa.
Per una volta sono fortunato, non insiste. Fumiamo una sigaretta. Io appoggiato al lavandino, Cate allo stipite della porta mentre guarda i miei mobili nell’altra stanza. Fumiamo senza dirci niente. Chissà che pensa Cate, mi chiedo. A me, invece, qualcosa è venuto. Confusa, anzi confuso. Non è mica un’idea, è un ricordo. E siccome non mi piace, lo dimentico.
«Va beh, concludo», dico.
Cate non risponde. Smette di fumare, prende la borsa, va via. Un’ora dopo mi chiama al telefono e fa più conciliante: «Bruno, oh, sono io. Guarda, pensavo prima che, forse, dovresti andare da un fai da te del legno o in qualche negozio del genere. Non so, ci vorrebbe qualche prodotto per eliminare quelle bestie. Se ci vai credo che loro potranno consigliarti, sai? non aspettare troppo, vacci. Promesso?». Ecco cosa stava pensando: lei è una pratica. Mica ha torto. Dall’altro capo del telefono si sente anche un «ciao Bruno!». È la voce del nuovo compagno di Cate, un ingegnere elettronico. Simpatico, davvero competente, dice. Un po’ strano. È appassionato di libri fantasy, ma a parte i funghi rossi a pallini, le saghe nordiche, i Nani, i Troll e gli incantesimi, è uno completamente fissato col tecnologico. A casa hanno una cucina che mi son ghiacciato solo a vederla, tutta efficiente d’acciai com’era. Manco la fiamma ci s’accende sotto la pentola, ché appare un cerchio rosso sotto un vetro fumé. Però l’acqua bolle, anche se per capire come s’apriva il rubinetto in bagno, quella volta che m’avevano invitato, ci ho patito un po’. Per uno spaghetto, m’è parso troppo.
«Promesso?», insiste Caterina.
«Promesso…».

Sul divano stiro con le dita una vecchia stampa sdrucita. Dentro c’è una strada, una strada che in fondo curva bruscamente. Sui due lati un campo di grano, dei corvi radenti verso un orizzonte che si spegne in nuvole alte. Il grano piega verso il fondo della tela, il verso squillante dei corvi fa eco nel rombo lontano del tuono. Ondeggia, il campo di grano, le spighe frusciano ruvide sulle mie braccia. E poi il grano diventa un mare e il cielo si fa grave di nuvole e più corro e più sono nel buio e nei lampi. E la paura, la paura e l’angoscia, ché già so cosa c’è lì in mezzo e nell’oro che squassa come un rumore di ali. S’allarga rasente le spighe e poi spacca l’aria e le orecchie lo sfrasco tremendo, il muggito come un pensiero troppo denso e sbuca, sbuca fuori quel cranio che mi afferra e mi rumina via.

Stamattina, basta, ho fatto un salto dal fai da te del legno. Ho comprato un prodotto che si spruzza con la cannula. Serve a sterminare le uova e le larve nel cunicolo che si sono scavate. Poi, l’addetto mi ha consigliato un prodotto da spennellare su tutta la superficie dei mobili e una stecca di cera per tappare i buchi. I prodotti hanno un puzzo di chimico che schianta i polmoni. Ho dovuto comprare anche un camice, una mascherina e un paio di guanti in lattice che sembro il medico Terzilli della mutua.
Ho guardato i mobili, mi sono avvicinato ai buchi e li ho esaminati da vicino. Via, bisogna mi dia da fare!

Mi siedo sul divano, mi accendo la sigaretta e penso. Fumo e penso. Ma che avrò comprato il prodotto giusto? e che insetti saranno: tarli, tarme, cosa? Al bordo della latta leggo una sequela di nomi, ma se, diciamo, il cittadino che sta dentro al legno qui nella lista non ci fosse, il prodotto sarebbe efficace lo stesso? vattelappesca… Però a un tratto me ne accorgo che mi sto solo prendendo per i fondelli. E lascio tutto lì.

Stamani mi sono buttato furiosamente alla ricerca di una traccia, un libro, una guida, mica mi torna in mente bene, ché doveva essere un manuale in dotazione al padre di mia madre che faceva il guardia forestale. Ha ragione Cate, questa casa è un casino. Un libro con una copertina particolare, mi ricordo, sugli insetti nocivi nelle abitazioni rurali o forse su quelli nocivi al legno, non mi ricordo… eccolo qua, comunque… Eh, 1929, copertina aragosta ormai sbiadita, al centro un disegno con dentro un insetto su una foglia smangiucchiata. Sulla prima pagina trovo la stampigliatura: «Milite Nazionale Forestale Pierro Domenico», mio nonno, appunto. Insomma, alla fine, mi son fatto una lista:
Anobium punctatum
Callidium violaceum
Xestobium rufovillosum
Hilotrupes bajulus
Lyctus brunneus
eccetera.

Però per vederli bisogna aspettare sfarfàllino: qualche mese, mi dico. Ma sono punto e a capo, ché l’ho già visto che il veleno li uccide tutti: quelli che il legno se lo mangiano e quelli che ci dormono solo dentro. E questo libro m’ha messo il magone e il magone il mal di testa. Che ci sarà mai in quel buco? una larva, certo. Flaccida, debole, rintanata nel buio, nel caldo del legno. Si fa avanti mangiando… ma va avanti? e se andasse a destra o a sinistra o addirittura in basso per non dire indietro?
Dalle pagine spesse del libro, brunite sul bordo, fugge via un pesciolino d’argento. Annuso la carta: sa un poco di muffa.

Un terrario. Uno di quei terrari con le pareti di vetro che usano gli etologi e ci vedi chiaro cosa succede dentro e ti spieghi tutto, tipo Danilo Mainardi. La scatola contiene strati di terra compatti. In superficie uno strato d’erba. Sotto l’erba un terreno duro e ciottoloso. A unire il terreno suddetto e gli strati più friabili, radicette e rizomi. In un punto poco sotto la superficie, tra una radice e l’altra, dorme una larva che mi somiglia. E, siccome mi somiglia, non mi va mica tanto che Danilo dica che poi io divento insetto perfetto, una botta giusto per la riproduzione e poi arrivederci e grazie. No no, e tra l’uovo e l’adulto, c’è la larva: e quella ti campa parecchio là sotto, la vogliamo considerare per bene?

Ultimamente ragiono male. Sono stanco, mi dico. Ma di che? Fumo.

Tra le cose ravanate ho ritrovato un vecchio libro, la storia di un bambino-formica. Me lo portò mio padre da Firenze. L’aveva preso in una libreria grandissima, la più grande d’Italia diceva, e mi sgranava gli occhi, come per impressionarmi. E poi, quando anch’io ci andai a Firenze la prima volta, la libreria s’era già ristretta e s’era fatta piccola piccola. Oggi non c’è nemmeno più. Insomma, ho riletto la storia del cinipe nella galla di quercia e quella del sirice giovenco. Poi sono stato male e il libro l’ho messo via. Certe letture non dovrei nemmeno farle, mi agitano.

La televisione ha detto che nel 2007, per la prima volta nella storia, più della metà della popolazione mondiale vivrà in città. Ma mica in centro. E oggi, la casa mi sembra una bara e vorrei uscire. Ma fuori c’è la città, che è una gora terribile, come la città. Penso, ma non mi viene niente. Allora fumo.

Caterina si aggira per la casa preoccupata. Mi vede sottosopra e non capisce. Mi passa le dita tra i capelli. È contenta che abbia acquistato i prodotti antitarlo. Però, quando s’accorge che non li ho mica usati, mi dice gnoccata che un altro po’ è Natale, che sono sempre il solito fancazzista. E sbatte la porta.

Me lo aspettavo. Lo scricchiolìo nei mobili s’è fatto insistito. Scavano e si nascondono. Guardo il mobilio e fumo. Fumo e mi ricordo come ci restavo volentieri in campagna d’estate. Mia nonna preparava il letto, mio nonno la lampada: pressava all’inverosimile il combustibile nella caldaietta e io avevo sempre paura che prima o poi esplodeva. La fiamma sgassava fuori il blu penetrante del carburo, ma mica durava tanto, ché dopo qualche minuto regrediva al giallo. Fuori, il cane iniziava ad abbaiare al buio e al nulla, e dal nulla usciva il gracidìo delle rane e alle rane rispondeva l’assiolo e all’assiolo il silenzio. Il silenzio in campagna è insopportabile come la notte. Perciò gli animali fanno rumore. La corrente al pagliaio di nonno arrivò nel ’74, ma tanto non illuminava più niente e nessuno, perché la gente se n’era già emigrata tutta. A parte le stelle e le lucciole.

A me la campagna mi pareva un chissacché, ma mio padre m’ha sempre detto che quando ci andavo io la campagna sembrava viva, però era già morta. E io tante cose che mio padre faceva, mica le sapevo fare. Lui aveva studiato e non me le ha insegnate perché i lavori di campagna li fai se servono. Mica sono esercizi di teoria.
Quanto tempo è passato? e ora, di primo acchito, mica mi ricordo più, poniamo, quando è il tempo del mosto o quando si fanno le potature. Mi devo mettere a ricordare.

La campagna era una lotta. Per esempio mia nonna amministrava l’acqua nei solchi e a un certo punto le venivano come attacchi d’isteria, di colpo gridava e menava fendenti con la zappa. E mica era impazzita, era solo che là sotto c’era la talpa.
Mio nonno, invece, mi portava a pascolare le mucche. Prima aveva anche le pecore, ma quando c’ero io le aveva già vendute tutte. Alle vacche ci devi stare attento, basta una distrazione e poi ti tocca andare a pararle fuori dalle frasche o dal terreno del vicino. Ma le più inferne sono le capre, ché ti bevono alle fontane come i cristiani e hanno un morso amaro come la morte.
Gli animali sono una schiavitù, diceva mia nonna. Producono, ma tu sei servo loro. Mio nonno non andava nemmeno ai funerali dei parenti, ché le vacche reclamavano. Mia nonna, invece, ci andava anche per starsene in paese. Per sfuggire dai conigli, dai maiali, dai pulcini che quando s’appisolava sulla sedia le scalavano la testa. Mia nonna ce l’aveva con gli animali d’allevamento. Quelli selvaggi, invece, si fanno le cose loro e nessuno gli dice niente, almeno fino a quando non dissestano qualcosa. Tipo la dorifora che i miei ci facevano le tauromachie o le vespe quando si scavano le pere a una a una che dopo le puoi solo buttare.

C’era poi… c’era questo scricchiolìo insistente… se te ne stavi solo nel pagliaio oppure nelle ore della sera lo sentivi, ma mica capivi da dove veniva. Si nascondeva o cambiava posto. Tipo che se tu, nel silenzio, seguivi il ticchete-ttacche della sveglia sul caminetto, poi dopo un poco ti arrivava nell’orecchio questo «gneek» o questo «criek». E mi chiedevo se era la trave o la scala a pioli che metteva in soffitta, il tavolone o la botte piccola che ci portavano l’acqua dalla sorgente. «Gnee-ek!». E avevi paura di uno schianto improvviso.

Ultimamente ho letto da qualche parte che alle volte questi animaletti del legno sono attratti dalla radice di liquirizia. Ma mica ho capito se da insetti adulti o no. Mah, mi pare che le larve se ne fregano. Però, visto che ce le avevo nella credenza di cucina, qualche stecchetto l’ho posizionato per terra, quasi sotto il mobilio. Al massimo se ne staranno lì fino a marzo-aprile.

Guardo l’armadio. Fumo e mi ricordo che mio nonno è andato alla fiera a piedi con due mucche. La mattinata sale in un’insolita afa tremenda e umida che non se ne può più e il tempo peggiora, ché si presenta all’orizzonte una nuvola strana, che si stira stretta alla base e cresce enorme sopra la testa. Nera che non l’avevo mai vista, pure se occupava solo metà del cielo. Si leva un vento che non ci si regge e fa tutto di polvere e paglia e fogliacce e l’olmo sotto casa fischia e più avanti pure il gelso vecchio, tutto cavo com’è di formiche. Nonna mi fa segno di entrare nel pagliaio, mette dentro le galline, chiude tutto, sale in casa giusto poco prima di un tuono che trema le pareti e poi grandine a finimondo. Nonna si sgrana il rosario e prega e mette sul caminetto i santini. La Madonna ha un vestito nero più del temporale, meglio Sant’Antonio, almeno è col maiale e San Francesco, ma mica è quello del lupo. Però l’acqua aumenta e il vento pure e il grano si piega e s’ammassa e nonna si dispera e io non so che fare, ché mi sento isterico e il pagliaio chissà se resiste mi viene da dirmi. Ma non me lo dico, se no mi impaurisco dell’altro.
È stato in quel momento che abbiamo sentito il rumore sotto casa. Sembrava qualcosa che si trascina dietro tutto, metallo e vetri rotti e poi un muggito, un muggito folle, che dal terrore la vitella s’è scatenata, ha rotto la porta ed è fuggita fuori e scalcia e corre nel campo che s’abbatte. Non so se è stata la paura, ma dietro ho visto lanciarsi la nonna, e mentre urlo «torna indietro!» fuori corre solo un vestito nero che si mischia col nero nell’oro agitato del grano e l’ombrello e il bastone di nonno che serve a parare le vacche. Il muggito, il grano, l’ombrello piegato e poi una luce accecante come un tronco che si spacca e io tutto bagnato sul pianerottolo non vedo più niente e m’infilo sotto le scale.

Il ripostiglio è caldo e asciutto di paglia. Me ne sto in fondo, dietro la sella della cavalla, i finimenti, il falcione lungo per l’avena, l’incudine, la mola per arrotare le lame. Sto nello scuro, qua dentro, in fondo, come una pancia. E lì, nel silenzio perfetto, nei legni, nelle travi, nei manici degli arnesi lo scricchiolio che mi fa compagnia e anch’io voglio andare in quei buchi.
Fumo e mi ricordo il nonno che mi scuote e mi trasporta in braccio. E anche Cate mi ha scosso e ha detto che ormai ho scelto, e ho scelto male e ha sbattuto la porta.

Di Caterina non riesco a ricordare quasi la faccia: del resto, da tanto lei non viene più. E io? da quando sto qui, seduto in mezzo ai mobili? giorni, secoli?… Alle volte mi addormento, sogno un rollìo, i legni assemblati che resistono male alla forza cui mi lascio andare. Invece è che gli scricchiolii si insinuano fino nel sonno e io, ormai, li faccio sempre entrare. Oggi s’è spezzata di schianto una zampa dell’étagère. Ma forse è solo l’impressione. O la fame. Mi piego e lentamente, ai piedi del mobile, tra la polvere e la miriade di carcasse morte dopo la riproduzione, raccatto da terra l’ultima radica di liquirizia, intanto tarlata anche quella.

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Leggi il racconto su «Polimnia: la rivista di poesia italiana»

Written by antoniocelano

aprile 11, 2010 at 5:43 PM

Pubblicato su Lyctus, Polimnia

Racconto: Mr. Suicide

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’Immaginazione», n. 214 (agosto 2005), p. 9-12.

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Sì, insomma, il 29 Ingromarket era ancora là, l’autista si leggeva il giornale e allora mi sono accesa un cicchino. Saranno passati quattro o cinque minuti, sì, poi ho incominciato a incazzarmi perché st’autobus non parte ed ero già montata su. Là davanti già qualcuno cazziava il conducente e allora mi sono fatta le cose mie. Però ho sbuffato. Qua c’è gente che va a lavoro mica a Gardaland, ogni santa mattina! Poi si lamentano che nel 29 di gente ce n’è poca. E grazie! se ne salgono tutti sul 30 che almeno fa lo stesso tratto per un pezzo fino al palazzo dell’IBM e parte in tempo. Oh, io insomma c’avevo il responsabile che veniva da Roma per briffarci sul controllo di gestione e in un’occasione così non si può mica fare tardi. Ero imbufalita a bestia! Firenze del cazzo. E dire che una dopo che ha studiato giù finisce a trovarsi lavoro in questa merda di città. A misura d’uomo, dice. Che stronzate! Milano era meglio, era. Vuoi mettere le possibilità. Poi c’è il mio uomo a Milano… La prima volta che l’ho incontrato sono dietro le scartoffie, carichi, scarichi per tutte quelle Lettonie Estonie e Lituania e gli faccio: “dimmi che sei un angelo e sei venuto a liberarmi da questo carcere del caucaso” e lui si è messo a ridere e ha detto sì e poi siccome stava due giorni ci siamo messi insieme. Poi sono salita io nel week-end successivo e ora ci si telefona e ci si vede ma non si può nemmeno dire perché lui è un nostro cliente e se lo sanno in azienda mi segano.

Vabbé, insomma, ’sto benedetto autobus ha preso per la strada dove c’è il tribunale dei minori e poi ha fatto un sinistra destra, al solito, tirando per Porta a Prato dove sale altra gente. Quando montano su mi verrebbe da gridargli: “O ’he vu vulete tutti su codesto autobus?”. Il fiorentino mi sta sul culo. ’He vu vulete… vu? E se la tirano con ’sta c e ’sta t e ’sto vu che dopo dieci minuti che soffi e aspiri ti senti stonata tipo muccapazza. No no, chiuso. Con ’sta parlata è impossibile farci pubbliche relazioni. Come se i fiorentini poi andassero d’accordo con qualcuno. Proprio di default non vanno d’accordo. Lo dice pure il mio uomo che è nei computer che gli abitanti si chiuderebbero tra le mura forever, a sud ma pure a nord. E poi giù a rincoglionire come i senesi, che a furia di accoppiarsi tra di loro nascono tutti mongoli, dice…

Insomma, la faccio breve. Più avanti, dopo la deviazione del percorso solito che anche quella fa perdere un sacco di tempo, c’è via Mercadante che c’è il ristorantino e le autorivendite… sì, insomma, dove c’è Stefan che fa angolo e la Grazia dice sempre che non ci andrebbe mai perché c’è le cose troppo a poco e si litiga con quell’altra, come si chiama, che gli dice invece che proprio per questo se, per dire, una prende un capo che poi si rovina non ce lo piange… ecco, se vai di là per via Toselli dove quell’idiota di rumeno s’è fatto infilare nel tritatutto della nettezza, poi esci in piazza Puccini e c’è il pontino, non mi ricordo mica se è sul Mugnone. Comunque è un ruscellino di cacca che c’ha più zoccole a giro che acqua. Scavalchi e poi segui tutti quei palazzi con i fiori alla finestra, il primo sexy shop, il negozio di divani tipo di classe e le filiali di banca. Insomma, proprio lì, alla fermata successiva ci sono le vetrine di un negozio carinissimo che c’ha le cose dell’Alessi. Come mi fanno impazzire! Ci sono i cestini d’acciaio con gli omini King Kong… tutti quei bambini che si tengono per mano e a me mi viene voglia di averne uno tutto mio. Insomma, una volta gliel’ho detto pure a mia mamma che mi andava di scodellare un marmocchio. Già. Uuuh, quella s’è incazzata a morte! Quasi quasi mi ci manda dalla rabbia… e non sei sposata e quando la metti la testa a posto e finiscila di dire tutte ’ste fesserie e che aspetti a trovarti una persona colla testa a posto e la città a voi giovani vi fa venire le fantasie… ooh, oh! calma e gesso che ho solo scherzato! Così si sclera!

Insomma, vabbé, a un certo punto, ho ripreso a guardare un po’ la gente che era nell’autobus e chi ti vedo? Non era Peppino? Il paesano mio. Allora era lui che si litigava coll’autista. Con quella faccia da sfigato che si ritrova. Sempre triste, sempre incazzato, sempre dentro a quel suo impermeabile nero che sembra gobbo, sempre colla barba e la testa a terra come un lampione… ma se era furbo a quest’ora non faceva lo schiavo alla ditta di spedizioni. Col lavoro che aveva prima… ma poi se l’è fuffato. Ma insomma, quando non c’è amor proprio, non c’è voglia di lavorare… Secondo me sarà anche buono ma un po’ se la tira. Fa il filosofo, fa. C’ha pure la faccia bianca.

Insomma, sì, l’altro giorno lo trovo al Dolce Vita. Un posto figooo! Un sacco di gente ganza! Però lui sempre una faccia che manco se gl’era morta la mamma… M’ha appena cagato e poi è andato via, mani in saccoccia nel suo impermeabile come se avesse fastidio di tutto. Tanto è così anche quelle poche volte che si fa vedere al paese.

Insomma, nell’autobus gli faccio un sorriso per salutarlo. Ha risposto appena, il bastardo. Cazzone… Vabbé allora ho incominciato a sentire la Giovanna e la Lorenza che parlavano vicino a me tutte scandalizzate ché avevano sentito la figlia raccontargli le cose che succedono a Castel Ruggiero. Sì, insomma, e mi è tornato in testa quando ho raccontato a Davide e Antonio che là sopra c’ero stata quando stavano facendo le riprese per un film e c’erano un sacco di finocchi tutti nudi a giro insieme ai nudisti soliti e allora anche noi ci siamo spogliati e ci siamo sdraiati sulla riva del laghetto e i miei amici mi hanno visto e hanno cominciato a sfottere: madonna che patonza che c’hai, mado-onna che patonza! Però poi Davide mi ha gridato che là non ci andava che era un posto del cazzo e lo faceva vomitare e quell’altro rideva come se avevo ammaccato chissà quali palle…

Insomma, a quel punto sono montati su i controllori e chiedono i biglietti. Che facce di merda, pareva che erano usciti dal carcere. Uno modello Sandokan con i capelli tutti a mazzetti, lordi che è una bellezza, un altro col melone e una barba tipo mi sono svegliato mò mò. Insomma, tutti e due con una faccia alla che me ne fotte che te lo raccomando. Hanno messo su il cartellino e hanno cominciato a fare il giro, ma tanto di cinesi non ce n’erano… sì, quelli che li vedi che vanno in giro all’Osmannoro e quando li beccano senza biglietto stanno tutti muti e sorridono e fanno moine e poi scendono e stramaledicono i bigliettai ma sempre gridando a bassa voce che sembra che si strozzano rafanculo stlonzi rafan-cuu-lo!! Insomma, alla fine della fiera non si vanno a fermare da Peppino? Tira fuori il biglietto, lo rigira, fa segno, gesticola un poco e quell’altro, il controllore, coll’occhio spento che fa sì sì colla testa modello asino. Allora ho pensato che mi sa che se lo stavano inchiappettando. Insomma, dopo quella risposta a culo il paesano s’è incazzato e ha protestato, ma quell’altro se see! faccia di tolla gli ha consegnato la multa come se era su un altro pianeta. Intanto però eravamo arrivati alla seconda deviazione. Sì sì, quella dopo la caserma dell’Istituto Geografico Militare in via Torello Baracchini. O Flavio Baracchini? Vabbé, tanto era sempre più tardi e quell’autista fottuto continuava ad andare a due! Ma cazzo, perché ci mettono sempre a lui? Non lo possono spostare a un altro orario, a un’altra corsa? E ho pensato mannaggia a me che non avevo preso il 30, uffa! Insomma, dopo la rotatoria e il sottopassaggio l’autobus s’è fermato alla centrale delle poste e io dal posto di dietro guardavo i manifesti attaccati al divisorio di cemento dall’altra parte. Un bambino tipo albanese giocava da solo nel campetto di palla a canestro di via Gemignani. I manifesti erano del circo, di scuole di karatè, di mostre e di politici. A un certo punto l’autobus ha aperto le porte e i controllori se ne sono scesi parlando. E mi ricordo che ho guardato un manifesto che c’era un vecchio colla coppola e sotto scritto benvenuti nell’era dell’ottimismo e ho sentito come un’ansia e mi s’era bloccato il respiro proprio quà. Insomma, sì, poi ho sentito gridare aspetta aspetta! L’autobus ha mezzo piantato e l’autista smadonnando ha riaperto la porta. Peppino s’è precipitato fuori. Chi lo sa perché mi sono alzata e sono andata a spiare dal finestrino di dietro. Mentre ’st’autobus s’allontana ho guardato che Giuseppe s’è avvicinato ai controllori, ha tirato fuori la pistola e ha camminato veloce verso di loro col braccio steso a fianco. I tipi si sono bloccati hanno parlato con Giuseppe ma Giuseppe ha alzato la pistola e ho pensato che mo’ scherza e poi cazzo mo’ li accoppa, ma poi è successo che Peppino s’è puntato di colpo la pistola alla testa e s’è sparato e m’è sembrato di vedere come una cosa che volava a lato verso i manifesti. Poi ho visto il bambino che si girava dalla parte del cemento e la palla saltava sul cerchio di ferro del canestro e faceva canestro e Peppino è caduto per terra.

II

– Senta, scusi, mi spiega perché ogni volta che c’è lei questo autobus parte sempre in ritardo?… Come sarebbe a dire che siamo in orario se lei doveva partire alle 8 e 5 e invece sono già e 11! Così anche oggi mi farà fare ritardo! Glielo spiega lei alla mia azienda che ogni volta che è alla guida sforo di almeno un quarto d’ora?… Protesti? Ma se sono giorni che parlo con le ragazze del numero verde e gli dico che lei è un cialtrone e che non siete capaci di assicurare un servizio uno! No, anzi, non volete assicurare nemmeno un servizio, non volete assicurare un bel niente… Non le interessa?… Che lei faccia solo il suo mestiere ne dubito, visti i risultati…

Ma sì, ma sì, tanto questo che soddisfazione ti dà, il cerebroleso! Via almeno s’è deciso a partire… Troppo recupero. Così la faccenda del permesso per andare in banca si mette male. E anche lì, se hai un certo conto basta la telefonata, invece a me a pappagallo, con quella risatina saputa del cazzo: “ma ’un lo sa? è la prassi, e per il codice i clienti devano venire direttamente qui in filiale… sa, signore, e c’è la privacy e c’è le truffe e c’è…” Ma cristo, truffa che? Non lo vedono che sul mio conto ci sono rimasti solo 108 euro e virgola? Come non sapessero che ci vuole mezza giornata per uscir fuori da questo buco d’Osmannoro. Cazzo, 108 euro… e ora come faccio… ma io di telefonare ai miei, quelli non mi danno più un centesimo e forse nemmeno ce l’hanno… e io coi telefoni ho già dato… cinque anni a sentir latrati, le richieste stronze dei fanatici di gadget, le assurdità, le confusioni, le tariffe, gli abbonamenti, le fasce, gli ordini… basta, basta! basta al full time, basta al tempo indeterminato, ma è vita senza mai una gratifica, un bravo o un “toh, sciala, un aumentino”? Cazzo, un altro po’ invece e finisco barbone sotto la Feltrinelli, tra i cartoni, a chiedere l’elemosina in ginocchio col cartello al collo: “vengo di terroиia, prego sigиiore carithà”!

Va beh, va beh, facciamola finita, dai… Piazza Puccini… cos’è quello? “Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini”… una mostra. Ma con che ci vado?… ci vorrebbe un’altra vita… già, perché no? mostre, teatri, cinema, libri… ce  ne vorrebbe un’altra venuta meglio, magari… e poi trovare un panorama chiaro e caldo con questa luce dolce che resta tra i pioppi e l’acqua, che bacia le fioriere a pergolato sui palazzi dove c’è ancora la Firenze della metà dei sessanta… quante volte mi ci portò papà? due forse, ma tempo dopo, e mi parlava della mitica Marzocco, dei Vallecchi e ora non c’è più nulla… più avanti no… lungo via Baracca i muri scuri o scorticati, le pompe di benzina… però adesso alla fermata c’è il negozio con gli oggetti della Alessi… il vecchio Firebird di Venturini… il piccoletto di Giacon… guarda lì che denti, gialli di rabbia e la catena al collo fino al tappo… blu, come tutta l’acqua pesante di stress che lascerà andar giù, piano per vortici, fino alla fogna. Mr. Suicide… e ogni volta che gli tiri il collo lui resta impiccato tra il mondo di sopra e quello di sotto ed è sospeso e non è vivo e non è nemmeno morto… ogni volta apre solo una porta verso il basso, come un guardiano… e se è così, quando sarà mai stato che ho cominciato a fare il tira-tappo… forse dopo Roma, quando a un tratto per lei non sono stato più nulla. Non più un sussulto, non più un batticuore, nemmeno un amico per cui valesse la pena di superare qualche paura.

A Roma… l’aria dolce del mattino, la pioggia alle spalle lungo il viale dei Prati Fiscali, tra i filari di platani… ma tutto, forse, era evocato solo dal tenerti le mani, le dita così leggere, più mature delle mie. Ti chiesi a casa come va, ma io sprofondavo tra le efelidi e i tuoi capelli neri. Sprofondavo per la prima volta senza ostacoli, senza imbarazzi o accorgimenti… lungo la teoria di negozi che costeggiava i viali siamo entrati a comprarci dei panini. Sulla porta del market due clown strozzavano lunghi palloncini per i bimbi… Poi la sera sul Gianicolo, tra le chiese nella luce ocra dell’antico, tra putti e piccioni e aquile e visioni apocalittiche. E ancora più giù tra le ville, le strade, tra i giardini che rispondevano al nostro silenzio. Giù, fino al traffico caotico dei lungotevere la notte. E ancora a perdersi fino a Piazza Navona come se ci fosse stato impedito per troppo tempo bere una città intera, la musica, due birre. Nel tuo giubbotto di pelle nera mi parlavi della voglia di imparare a fumare prima o poi, che non c’eri riuscita nemmeno al liceo… l’ultimo tuffo fu nel buio in albergo, i fruscii, le chiacchiere, i gemiti e la tivù accesa senza sonoro, solo per imprimere il buio di qualche fugace colore, innestati come le marze che incastrava un giorno zia Anna in campagna, stretti di morbide fruste di rosso vincastro e schizzi di pece e pezzi di sacco e poi il tintinnio dei tuoi bracciali d’acciaio e un giorno mi hai parlato a telefono e mi hai detto che non potevi più darmi…

– Eh? sì… il biglietto? sì… dove… eccolo. Accidenti… mi scusi, uffa, ho dimenticato di marcarlo. Son salito e mi sono distratto a parlare con l’autista… Oh, oh, calma eh! lo so che non le interessa, chi le dice nulla, faccia questa multa… no, scusi, guardi: è un carnet per quattro corse e se osserva bene risulta che gli ultimi tre giorni ho vidimato regolarmente… Va bene, va bene, invece se voi ogni giorno mi mettete in difficoltà con i vostri ritardi chi vi multa a voi?… E allora se deve fare il suo lavoro lo faccia e si risparmi commenti non richiesti. Ecco, grazie, grazie a lei…

No, cazzo, 41 euro… no basta. E ora basta!

– Aspetta, aspetta! ferma, devo scendere!… e vaffanculo anche te con quello sterzo là!… Ohé! facce di cazzo, fermi!… sì sì, proprio a te, faccia di cazzo, e anche a te!… aah, e com’è, ora che hai visto il ferro ti s’è bloccata la parlantina?… calmo? toh! ecco fatto… e il colpo è in canna… insomma per voi chi sono, uno dei tanti incontrati per strada, uno a cui dare tutto in una volta e togliere tutto in una volta… e zitto, cazzo, che c’è da capire? non sono un utente, sono una persona porta rispetto quando parlo! Ma ora ve lo risolvo io il problema… tanto anche per voi due uno è meglio che sparisca, no? non sono un cane, voglio rispetto… tutto per inseguire una gatta sulla ferrovia, travolto dalla littorina che poi l’hanno smantellata due anni dopo, capito? e poi mio padre lo dette a una vecchia che con la carriola andò a buttarlo al fiume ma già da prima il cane era scemo perché se ne stava tutto il tempo con una pietra o un bastone in bocca anche se nessuno glieli buttava… ora ci penso io… se ne stava tutto il giorno vicino alla meta delle felci con quella croce addosso che gli tritava i denti e ne poteva fare a meno di perdere la testa per te che tre giorni fa ti ho vista in quel locale pieno di figli di papà con quell’essere sì lo so che è solo un amico ma che me ne frega quell’essere sudaticcio che non so se somiglia più a un angioletto boccoluto o a un troll che si rasa le orecchie per non farsi riconoscere che parla solo del più e del meno e spara stronzate sul tecnologico… ah, adesso mi capite… con quella bocca che sembra una checca francese… ma io la odio, io ti odio e ora sei soddisfatta solo se tolgo il disturbo. E basta!

E poi ho visto mio nonno. Spingeva le vacche fuori dai cerri per la campagna e nel prato stava il Duomo, la sua massa imponente tra il sambuco, la cicoria e qualche stracco turista tedesco. Il mio mondo è venuto a naufragare qui, il mio mondo perfetto e dimentico nelle tre dimensioni del tempo, avvolto in una calma arcaica dall’odore serale di stazzo e proporzioni architettoniche. E in tutto questo tu non ci sei più e non ci sono più nemmeno io. L’equilibrio che mi davi non c’è più. E finita è anche quella rabbia tanto forte che era solo amore.

III

UFFICIO COMMERCIALE

Gestione Segnalazioni Esterne

prot. uscita 2376

OGGETTO: segnalazioni telef. Uff. Recl.

prot. arrivo n. 3124/04

Egregio Signor Forastieri,

con la presente vorremmo ringraziarLa per quanto segnalatoci presso le operatrici del nostro numero verde e per l’opportunità che ci offre di ricordare come il nostro servizio si svolga nelle strade cittadine con le difficoltà di viabilità che tutti conoscono bene e che penalizzano in primo luogo la nostra Azienda.

Come da Lei segnalato le corse della linea da lei citata in oggetto transitano spesso in ritardo, ritardo che spesso costringe i nostri operatori a riorganizzare gli orari anche in modo immediato, per ridurre al minimo il disagio che ciò causa all’utente.

Questo problema potrebbe essere risolto accrescendo le corsie delle nostre linee protette dalle altre correnti di traffico, problema che ci vede impegnati insieme ai competenti uffici delle Amm. Com. del territorio da noi servito, nell’elaborazione di una proposta complessiva.

Nel particolare delle vie che transitano per via Baracca vorremmo ricordarLe i lavori stradali che ormai da mesi impegnano la viabilità obbligandoci a ritardi non sempre recuperabili.

Rimaniamo a sua disposizione e Le inviamo distinti saluti.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:57 PM

Pubblicato su L'Immaginazione, Mr. Suicide

Racconto: Armando

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Racconto pubblicato nell’antologia:

Marchesi – Giovannini – Tentori

Famiglie assassine

“Il libro che avete tra le mani è il risultato di un progetto maturato da tempo, anche attraverso un ‘cantiere di scrittura’ via Internet, e che solo oggi si concretizza. Nei mesi che si sono avvicendati mentre si raccoglievano i testi per l’antologia, la nostra convinzione che la famiglia sia un luogo anche di sofferenze e delitti è stata confermata da una miriade di episodi della cronaca nera, a volte ancora più atroci di quelli immaginati da qualsiasi scrittore.
Del resto questa consapevolezza è sempre stata condivisa dal gruppo di scrittori che si sono definiti neonoir e che dal 1993 hanno prodotto libri, incontri, ‘eventi’, giocando sull’intreccio tra cronaca e immaginario, ponendosi provocatoriamente ‘dal punto di vista di Caino’.
Il nesso tra cronaca e immaginario, in particolare a proposito di serial killer, è infatti uno dei tratti che hanno caratterizzato il neonoir, anche attraverso l’impegno di alcuni suoi autori in saggi, ricerche universitarie, inchieste giornalistiche e radiofoniche sui crimini seriali.
(Dalla prefazione di Fabio Giovannini e Antonio Tentori)

Hanno partecipato a questa antologia:
Giuseppe Arcucci, Claudia Catali, Antonio Celano, Paolo De Pasquali, Max Giovagnoli, Nicola Lombardi, Simone Lucciola, Sabina Marchesi, Marco Marino, Antonio Meloni, Marco Minicangeli, Fabio Monteduro, Aldo Musci, Massimo Onza, Marco Scaldini, Ivo Scanner, Matteo Severgnini, Antonio Tentori, Alda Teodorani, Stefano Marinucci Truffaldino, Marco Vallarino”.

[dal sito della Statale 11 editrice]

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Sono dentro che metto a posto due vaschette nel banco frigo che s’affaccia Matteo con l’aria tutta presa: «Arma’ Arma’ sta arrivando mo, spicciati!». Faccio i tre scaloni alti e m’affaccio all’entrata, guardo a destra, a sinistra, m’asciugo le mani sopra il grembiule.

Finalmente, e non se ne poteva più! È una settimana che mi parla di questo nuovo arrivo, manco fosse arrivato il presidente della repubblica: la figlia del maresciallo Presta, che è venuta a trovare il padre in paese. Bella donna, mora, tacchi spessi, un fascio di riviste in mano modello «Gente» o «Novella 3000» che va verso la piazza. Mah, mi sa che Matteo c’ha perso un poco la testa e se ne sono accorti pure i quattro gatti al bar vicino, che sfottono seduti al fresco del tavolino sotto al pergolato, chi col caffè chi col digestivo tra mano e bocca. La gonna leggera balla col passo, le gambe lisce, i capelli corti. Bella è bella, chi dice niente… se la passerebbe chiunque, anche quelli che si rendono più conto e manco ci provano e però per ripicca danno fastidio a quel fesso di Matteo. Ma per quanto mi riguarda, sinceramente, di tutti ’sti struggimenti – che poi sotto sotto se guardi bene è tutto digiuno e fame – non me ne frega niente. Fosse stato per quello non mi sarei scomodato neppure a uscire dal negozio. È qualcos’altro… è che quando guardo una femmina che mi piace, quando mi vuol dire qualche cosa, insomma… a me mi scatta l’occhio del mestiere – come si dice mo? – una «deformazione». La figlia del maresciallo, per esempio, del tendine me ne faccio pochino, ma i gemelli dei polpacci, invece? esterno e interno. Quelli sono buoni come i garretti e la ragazza non li tiene mica male, ché la gamba gli sale proprio bene… e poi la carne della coscia, il muscolo sodo… noce e fesa. Roba che costa. Roba buona come lo scamone e ancora più sopra la lombata, colle vertebre della schiena. Eh, Presta di qui Presta di là… non basta mica solo il sapore delle costatelle per fare la griglia. Il mio mestiere tiene anche la lavorazione, il taglio, no? È pure bravura, ché se il taglio è sbagliato tutta la carne, quando ce l’hai nei denti, è peggio di una pietra…

«Arma’, Armando?… Armando! e che è, da mo che vi chiamo!». Nella vita, è quando ti sogni le cose belle che ti toccano le cose brutte. A tirarmi per la manica è la signora Italia. La signora Italia Gioia. Ma a ’sto cognome potevano accostare un nome più cretino? Già tiene una faccia seccata come una prugna e poi è pure invadente. Petulante pettegola muffosa, lei e sua figlia, che è brutta come la fame che non se la piglia nessuno, non se la piglia. Il naso colla gobba, co’ ’na smorfia che me l’immagino sempre che dice «Mammà, e questo mi fa schifo, e quello non mi piace, e pure quello là!». Eh, e una come la signora Italia, che mo è vedova, e chi se la poteva prendere? solo don Nicola Ruggiero, l’ultimo dei «galantomini» del paese. Uno che teneva il fratello avvocato di grido a Salerno e che invece lui non ci capiva un cazzo. Faceva maestro elementare, giusto che se non veniva da quella famiglia manco a pascolare lo mandavano, ché pure per pascere due capre ci vuole giudizio. E sì che pure lui aveva preso legge. Ma al fratello, sempre fissato com’era colla carriera e colla terra, gli faceva comodo tenerselo in paese a starsene sempre sul piedistallo e a scassare l’anima alla gente e ai contadini. Pure spione, era, e maldicente. Ma va beh, roba passata. Il tempo sì che è galantuomo e mo questi sono né più né meno come a tutti gl’altri, solo che se la tirano ancora e si meravigliano se vedono una borsetta firmata addosso a una, ché il popolo mica patisce più l’appetito. Ma comunque la signora Italia la carne me la compra e pure parecchia e me la devo sopportare. E i soldi mica puzzano di chi te li passa.

«Che gli diamo alla Signora? – faccio con la voce di zucchero – un poco di girello, un pezzo di capretto, una fesa di tacchino?». Ma quella colla voce stridula mi fa: «Arma’, l’ultima volta, la carne… era un poco tosta».

Quant’è urtante. Cerco coll’occhio la bruttona della figlia, che però non mi dà appiglio. S’è girata, fa la distratta col calendario sul muro. Quest’anno, sopra ai mesi, c’è la Madonna dei Sette Dolori: il cuore colle spade, il mantello nero ricamato d’oro e la corona, la faccia sofferente. Che tiene da guardarci? mica la Madonna gli dice quant’è bella! Però la signora dove vuole parare gli scappa subito e, infatti, si avvicina un poco, schiarisce la voce e mi fa: «Armando, ma quel bel primo taglio dell’altra volta, quella carne bella tenera… è un po’ che non ce l’avete più. Pure dagli altri macellai non la trovo mica sempre…». Eh, signora mia, ma io me ne accorgo che i diti ti tremano sul vetro e che tua figlia Mariuccia s’è fatta tutt’orecchi anche se non guarda, la brutta bizzoca. Vi piace, eh?… ma non diciamo palle: se c’è e quando c’è, è carne che non la trovi da nessuna parte.

Ma mo m’è tornato in macelleria Matteo con un altro cliente. Pianto la mannaietta sul ceppo di legno, proprio in mezzo alle ossa spaccate, e faccio brusco: «Nossignora. La prossima volta. Altro?». Per fortuna non la tira a lungo, chiede qualche etto di tritato scadente, quello un poco grasso, per i gatti. E poi stacca la figlia dal calendario, abbattuta come la Madonna: «Vieni Mariuccia, vieni che dobbiamo andare da Giuseppina della lavanderia».

Spiccio l’altro cliente, chiacchiero un poco con Matteo e Anacleto, che intanto s’è affacciato pure lui. E mentre parlo, però, mi penso che il palatuccio la vedova Ruggiero lo tiene sviluppato. E certo, la lingua ce l’ha allenata mica solo per riempire di chiacchiere il paese. Allora mi devo stare più attento allora, ché sennò poi i ricami…

Però poi mi penso che sono nella bottega mia, nel regno mio. E guardo la petecchia dei colli strozzati e le vaschette colle frattaglie e il gancio col mezzo maiale fiaccato. Questo è il tesoro mio, questa è la forza mia.

Collo straccio caccio ogni tanto qualche moscone, sennò mi ci punge le uova. E io mica faccio ingrassare a loro, pure se stiamo nello stesso posto e pure se anche a questi gli piace la carne morta. Oh, loro la fatica non la fanno. Prendi l’agnello: mica le sanno le zampe che tremolano, il cuore veloce e la mano che stringe e la punta che taglia. Mica lo sanno il collo allungato l’occhio sgranato e il verso strozzato e il sangue per terra. Mica lo sanno il momento, il preciso momento che stai di qua ma pure di là. Gesùcristo la sa la vita morta. Lui solo, e pure io. I mosconi vengono dopo. I mosconi sono come i clienti, pure se questi dalla bottega sanno uscire da soli.

Stasera, in giro, c’è gente foresta. Due ragazzi, certi cani, e una tipa mica troppo puliti. L’accento, mi pare, è di lassù. Ciabatte scucite, i gins strappati. La ragazza tiene ’na faccia, però è pure bella. Tiene due occhi grigio cenere, un corpo un poco patito, i capelli ciocche ciocche. Chissà da quant’è che non se li lava. Ai piedi ci tiene due zattere che paiono di corda, fuma come una satanassa. Gli altri due cominciano a dare fastidio. Si siedono al bar, pidocchiosi loro e i cani sdraiati sotto ai tavolini. Tengono certi tatuaggi che dio ce ne liberi, uno è pure mezzo sdentato.

Oh, a un certo punto non si litigano tra loro? se la pigliano colla ragazza, volano parole, ma la tipa gli dice «merde!» e pure «stronzi!». Insomma, la solfa va avanti e poi la spingono e gli fanno male. Ma mo hanno rotto troppo e qualcuno del paese la cresta gliela fa calare subito subito, ché la mano più piccola dei compaesani miei è quella del ruspista. «Aria compà!» gli fa Faustone, che pure se di mestiere fa solo la guardia notturna, è grande e grosso e i cazzi gli girano assai facile. «E se no che fai?» fa uno dei lordi. Però poi si levano di torno e pure lesti.

La tipa si viene a sedere sullo scalone mio. Mi cerca una sigaretta, qualche scarto per il cane che gli è rimasto attaccato, più abbacchiato della padrona. «Ueh, ma com’è che ti chiami te, che non me lo hai mica mai detto?» mi fa, dopo un tiro. Spinge il fumo fuori a forza, da un lato della bocca. Tiene le unghie scrostate, un poco di occhiaie. Però mica è male.

«L’hai letta l’insegna?» rispondo, e lancio un ritaglio al cane, che abbocca a volo.

«E… senti un po’ bell’Armandino. Non è che ci sai chi mi può far dormire per la notte da ’ste parti? poi taglio presto, che stare appresso a ’quei due esauriti mi son già rotta le balle. Oh, bada eh, che io grana per l’hotel non ce ne ho mica, sai?».

«Mah», dico io, «allora qua non ci sono tante possibilità. È un problema».

«Già…».

«Già».

S’alza bruscamente con una smorfia, ma gli faccio segno. «Senti… – continuo – ci sarebbe una casetta… un magazzino un poco fuori paese… ci puoi stare una o due notti, tra un poco chiudo e ti ci porto. Però non di più e occhio che qua il paese è piccolo…».

«See, e la gente mormora. E voi terroni siete tutti gli stessi, sempre cogli obblighi, sempre a dare conto agli altri».

«Oh, Leganord – gli faccio sul muso – se ti sta bene così sennò anda e te ne torni in America, che là stai meglio e ti vogliono più bene!».

La tipa calcola e ci mette il miele: «Ma dai… ma va’ Armandino, non ce lo dico a nessuno dai. A chi vuoi che ce lo dico, a ’sto cane qua? vai, dimmi un po’ dov’è che mi devo far trovare, non mi ci manderai mica sola che non so nemmeno dove cazzo sta ’sto posto».

Furba la ragazza. Per fortuna nella bottega non c’è nessuno e gli dico dove avviarsi.

«Oh, io mi chiamo Maurizia» mi fa, e sparisce. Esco fuori e gli amici del bar mi guardano. Stringo le spalle. Faccio segno che deve essere un poco pazza e che se ne deve essere andata pure lei. Poi si girano e si finiscono la briscola.

Dopo la chiusura la trovo al posto. Ti esce da dietro a una macchia, col cane attaccato a una corda per stendere i panni. S’è nascosta bene pure se qua, nelle campagne, ci gira poca gente, ché se ne sono andati tutti e non ci vengono più nemmeno per le vacanze. E poi è già notte.

Nella strettoia le spine rigano la macchina e fanno un rumore che mi dà fastidio come alla scuola quando il gesso scriveva sulla lavagna. Sudo e la tipa riattacca pure la musica: «Uey, ma non mi venivi mica più. M’avevi preso per cappuccetto rosso? sì, bello ’sto bosco, non dico, guarda, ma due marroni». Io non gli ho risposto mica, questa qua è una solo cazzi suoi. Poi mi penso chi cacchio me l’ha fatto fare di caricarmi ’sta scassapalle e mi penso che mi fa salire pure la nervatura che già non lo so com’è, ma nella testa mi girano le cosce del pollo e le frattaglie della Presta e mi sento sette spade nel petto. E poi mi sale come una voglia troppo grande. Troppo. Ma di che cosa, boh.

E quella continua: «Ma dai Armandino, ora finisce anche che te la prendi. Però capisci, no? qua il tempo non passa mai, non è mica il centro di Milano. E poi ’sta strada è tutta una buca, guarda». Meno male che siamo arrivati nello spiazzo davanti alla porta. Mentre parcheggio mi sento i sudori freddi, manco c’avessi avuto ’na botta di bassa pressione. Apro la baracca, accendo la luce da 40 ché tanto chi ci viene mai e, nello stanzone quadrato, la tipa guarda il vascone basso col rubinetto e la pompa dell’acqua. Appoggia lo zaino per terra e io m’appoggio al ceppo da lavoro.

La tipa fa smorfie, ché ha visto i ganci e i catenoni della bottega vecchia. «Scusa Armando eh, scusa. E va beh che ti devo ringraziare di avermici portato qua che io poi ci posso dormire, ma che è ’sta merda? ma sei scemo? ma qui è un manicomio e ’sta luce è da matti, guarda». Io non rispondo e la guardo fermo e mi fumo la sigaretta ché nella testa mi tornano le spade e il pensiero balzano se il capretto è meglio o no che quando lo porti nel mattatoio non si spaventa sennò si guasta la carne.

La tipa calcola: «Bell’Armandino… però sei stato anche un cavaliere, guarda… e fammi un po’ di compagnia, eddai». La tipa piano piano s’avvicina, poi si comincia a spogliare, ché per lei è l’unica carta. Calcola calcola, ma a te già ti conosco. Pure che è sporca mi lecca il collo e a me mi pare la bocca di Mariuccia che dice «e questo no e quello neppure». Maurizia sette piaceri. Pure che puzza a peste di fumo, mi bacia. Ma nel regno mio i piaceri tuoi non sono quelli miei. E le frattaglie. Le frattaglie, il porco e l’agnello, il bue e l’asinello. Brava… tieni sette mani che tengono voglia d’andare dove devono andare, ma non le sai le spade che mi girano stasera, ché sei capitata nel posto sbagliato. Gemello esterno, interno coscia. Cazzi tuoi, nel regno mio. La forza mia. E pure io sono bravo che ti pensi, ossobuco. Pure io so dove mettere le mani.

Nessuno lo sa quando è il preciso momento. Nessuno quando la mano stringe il collo strozzato nei gridi le gambe che sbattono le braccia che nuotano i diti che appigliano l’aria. Non la sa la testa sbattuta sul ceppo, la punta nascosta e il collo tagliato e il sangue per terra le gambe che cadono. E dagli che apro, che sego, che spezzo… e poi esco e ti caccio fuori il cane dalla macchina che mo tocca a te, bestia, bestione di cane. Bestia bestione. Toh, cane e padrona! Solo io lo so il momento…

E poi mi sveglio rincoglionito e un poco abbattuto co’ ’sta cosa calda in mano, il muro scrostato qualcosa sui ganci la luce che dondola i peli di cane. Gira tutto. Un paio d’occhi appannati per terra. E sotto, uno stomaco che dentro non tiene più niente.

E poi mi sveglio tutto sudato di sangue che mi sento un Padreterno. Forte come a un toro. Sette forze, sette bravure… e scarto quello che devo scartare, piglio quello che devo pigliare. E il grano e il loglio e l’arte ci vuole. Poi apro la pompa e l’acqua che corre torbida poi torna chiara come quella che mi ci tuffavo da piccolo nel fiume e, quando non resistevo più, tornavo sopra.

Oggi alla vedova gli faccio distratto, quasi che me ne ero dimenticato: «Signo’, a proposito, quella carne che cercavate… la tengo. Quando la volete è nella cella». E allora la signora Gioia ha fatto «Ahh, bene, bene. E bene. Ahh…» e me ne ha comprata un bel poco e l’ho visto che gl’era venuta come un’allegria stupida e poi mi sono girato verso Mariuccia che guardava distratta la Madonna dei Sette Dolori e non m’ha dato spago. Però, pure così, l’ho vista che si mordeva le labbra.


Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:53 PM

Pubblicato su Armando, RACCONTI

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Racconti: Con le mani nelle tasche

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Questo racconto è stato pubblicato su «L’Immaginazione», n. 242 (ottobre 2008), p. 6-7.

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Ce ne stavamo mani nelle tasche, alle volte per minuti interi, affacciati ai vetri ampi del capannone. Borse, i cinesi di fronte facevano borse, e li vedevi ostinati come formiche, i visi tirati che s’affaccendavano brigavano cosavano, mai un sorriso, sempre fissi al pezzo o stanchi morti loro e quelle eterne camicine troppo larghe con le maniche tirate su, fino in cima al gomito. Rideva solo quella mamma che se ne stava col piccino, chissà perché, sempre nel cortile di cemento. Girava in tondo e lo ninnava, girava in tondo e questi ti sfornavano scatole e scatole di borse da ingolfarci interi camion, girava in tondo e questi ti portavano fuori tonnellate di strisce di pelle di scarto, girava in tondo e questi ostinati, a catena di montaggio. Quante volte ci avremo discusso sopra, con le mani in tasca? Figlia dei padroni, figlia dei sorveglianti, sorella moglie puttana, so io, di qualcuno?

Mani in tasca guardavamo la roba accumularsi lì dentro anche se i vetri erano lisci di grasso, di fiato, di manate, mai una volta che, tiè!, ci spruzzo il Brill. C’erano cucine, tavoli da lavoro, letti cose oggetti e mai, non uscivano mai, e avevamo l’impressione, noi davanti agli spaghetti scotti e al Tg, che loro continuassero pure dopo le 17, dopo le 18, dopo le 20, dopo mezzanotte, ché il mondo non si poteva fermare se non si fermavano loro e a noi ci girava la testa e ci fumava i coglioni.

E anche quando con le mani sui computer o al pezzo non li spiavamo, loro continuavano e un odore peso entrava e ti diceva che stavano mangiando, un puzzo e sapevi che erano a un certo punto del processo di lavorazione, un olezzo e pensavi, con matematica certezza che questi qua avevano aperto le finestra per arieggiare, ché nemmeno loro forse più ne potevano.

Con le mani in tasca si restava basiti a guardare questa cosa che vedevamo fare quando arrivavano i fornitori. No, mica quelli che a valanga ti scaricano il cuoio i punti e i rocchetti, seee. Arrivavano questi tipi e portavano dei pesci che parevano carpe, ma più lunghe e sfilate. Salivano sul tetto e appendevano all’aria questi cosi. E poi lì a farli seccare e noi si stava male solo a guardarli si stava e menomale dopo un paio di giorni non li vedevi più, scomparsi spariti volatilizzati, i pescioni. Parcheggiavano i camion, portavano su le oche già spennate e le appendevano fuori dalla finestra a dei ganci e qualche mio collega, con le mani in tasca, mi diceva ma porcoddùe, mi diceva questo collega che veniva da fuori, ma allora non c’è mica più rispetto sa’? E santamadonna, che c’è l’aviaria! Venivano i fornitori con i polli che poi sparivano pure quelli dopo due, dopo tre giorni che se ne stavano là a prender aria mentre loro dalla finestra buttavano sotto di tutto, cartoni, tubi, pezzi di borse scartate, buste di patatine, ossi di porco, tutto dalla finestra, nemmeno fossero stati a Shangai.

Dalla finestra guardavamo il muro che ci divideva e solo Liborio se ne fotteva e diceva che per quanto gli riguardava, noi si stava in Italia e loro erano in Cina. E per scherzare diceva che se andavi di là era come se tu entravi e ti trovavi in Cina e avevi fatto un milione di chilometri in due metri e agitava vicino all’occhio pollice e indice aperti a ganascia come se volesse svitare qualcosa, ma era solo per dirti che secondo lui aveva detto una cosa fina, la bestia. O Liborio, e la battuta s’è bell’e capita, ma mica ride nessuno, ché qui siamo tutti sgomenti, sai, tutti sgomenti angosciati, come cazzo fanno questi a campare così. E allibiti guardavamo mani in tasca questo muro che ci sembrava un foglio, eppure era meglio che ci fosse, come quello a Sarajevo, noi di qua loro di là. E poi quando Liborio non c’era ci si chiedeva se Liborio alla fine non aveva ragione non aveva, e ci veniva il dubbio se eravamo noi che non li volevamo tra le palle o loro che se ne stavano chiusi inchiavardati che quasi sembrava c’avessero paura anche di darci fastidio. E tanto più restavano dentro tanto più ci parevano cinesi, tanto più se ne stavano sulle loro tanto più ci parevano più gialli di prima, più formichine di prima, più Fumanciù e Bruslì di prima.

Dalla finestra si sbirciava con le mani occupate in qualcosa di lavorativo che dacci sotto, diomadonna, che questi producono a macchinetta e prima o poi ci mandano via, ci sloggiano pure noi che con le borse false non ci s’incastra nulla. Risparmia e risparmia che le banche dell’Osmannoro scoppiano di ien e poi si comprano il capannone come tutti gli altri che si sono mangiati e ci spediscono via, ché se Hitler la guerra l’avesse fatta così, a tappe, certo avrebbe vinto e basta. Questo lo diceva Arturo, uno quasi alla pensione che se la tirava con la storia e noi però, sulle prime, non ci avevamo capito nulla di nulla di cosa voleva dire.

Invece, se ne sono andati loro.

Una mattina, mani in tasca, dai cinesi è arrivato uno di qui. Berciava di continuo, i capelli radi lunghi ricci untuosi, le scarpe gonfie e storte attorno agli zamponi screpolati. E le mani dalle tasche le abbiam levate, ché quello doveva essere il padrone, ma quello vero, del capannone in affitto. E parlava con l’unico cinese col macchinone laccato che fumava come un ossesso e tutti gli altri intorno gli sorridevano gialli, soprattutto quando al bar pagava il conto e loro capo chino e sorrisi di gruppo. E in un giorno, in un baleno, così poi la raccontava agli altri Arturo, son spariti come i Tatari nella notte delle purghe staliniane e qualcuno del magazzino gli ha detto: cazzo racconti, fascista che sei di merda, maremmalurida. Ma a parte il fatto di difendere Baffone per pura sintonia, erano incazzati solo perché sapevano sega loro chi fossero i Tatari e la Crimea – le capre – e i camion pigiati di gente muta e rassegnata. Partiti come gli zingari. Carriaggi e masserizie e mogli e piccini e monchi storpi zoppi (che pure quelli lavorano) come dietro al flauto magico. E il capoccia con l’unto in testa e lo zampone deforme rideva con la buzza che sobbalzava aguzzina, sobbalzava, e srotolava uno striscione LOCALE IN VENDITA 055/114671 STUDIO RAGIONIER DEGL’INNOCENTI, CAMPI BISENZIO (FI).

Con le mani in tasca il giorno dopo guardavamo oltre e oltre lo sporco del vetro c’era solo il vuoto. E nel vuoto saltavano topi che sembravan cani, ma all’improvviso ci parvero meglio i cinesi, che eravamo pure tristi e pensavamo a quel bambino in quale squallore avrebbe ninnato con gli occhi che quando sono chiusi sono ancora più a mandorla di quando sono aperti, povero tittino. E chi ha pensato che chissà quando poteva fare lui un figlio, chi alla rata del mutuo o al cocoprò, chi che parliamo tutti il pratese il sestese o il fiorentino e ce la tiriamo a bestia ma alla fine per metà siamo tutti terroni anche noi, pure gli studenti del polo scientifico nuovo che hanno fatto a due chilometri da qua.

Però, nemmeno una settimana dopo qualcuno ha urlato oh! oh-oh-oh, i marziani! e c’erano questi omini con le tute bianche e le mascherine e le bombole per la disinfestazione che si aggiravano nel caldo tropicale del padiglione che uno per l’afa s’è pure sbottonato tutto, s’è sdraiato su una panca, sveniva e forse voleva anche morire, ma gli astronauti amici suoi glielo hanno impedito e l’hanno rianimato, diobòno. Sembrava una scena di un film tipo quelli con tutta la gente nel treno piombato che pare sudata distrutta per il virus sfuggito. Poi, dopo due mesi di chiuso, da quel vuoto altri omini hanno cavato camion di roba inutile, pezzi di ferro tubi di metallo borse difettose vetri rotti scatolame scatoline scatolette scatoloni scaldabagni vecchie brande immondizie a non finire. Una settimana ci hanno messo, e quando hanno finito, con le mani in tasca se ne stavano in cortile e si dicevano l’un l’altro uff, l’è finita, maremmatrògola!

Giorno per giorno, con le mani nelle tasche, abbiamo seguito tutta la ristrutturazione. Venivano uomini giacchecravatta che parlavano sul tetto, dietro le vetrate o giù in cortile, una mano in tasca e l’altra che gesticolava. Il giorno dell’apertura a frotte bimbe bellissime cosce autostradali e litri di profumo e culi da disturbo, belle belle che non lavoravi più nulla e tutto uno spreco ché lo stilista leopardato, pare, è buco perso. Allora hanno messo i vetri fumé. Però mani in tasca, mani in taschissima, abbiamo scoperto, un giorno, che tutta la truppa di slave e rumene e bulgare e polacche e ucraine e chi più ne ha più ne metta, andava in bagno al piano terra e i vetri lì non li avevano oscurati no, che sembrava un film di Alvaro Vitali. E allora un responsabile indignato è andato di là a parlare in Cina… ma mica è più la Cina, fava di un Liborio che non sei altro. Certo, è sempre come andare a casa di cristo, ma adesso pare una babele che non ci si capisce più e ti devi portare trentacinque vocabolari tascabili bilingue. Insomma, un responsabile è andato dove doveva andare e glielo ha detto, guarda che si vede tutto, ma il dirigente loro, che cinese non è ma capisce una sega nulla lo stesso, ha fatto un breve sondaggio tra le bimbe, è tornato e ha dichiarato papale papale che guardate che loro non vi vedono mica. Sicché Arturo, mani in tasca, ha spiegato che era né più né meno come lo sbarco in Normandia quando gli americani le prendevano da orbi, maremmassassina, e i tedeschi le tiravano e ci coglievano senza mirare che erano più in alto e la rifrazione li aiutava. Manco a dirlo stavolta nessuno ha detto nulla e gli abbiam creduto, ché soldatoràian s’è visto tutti, ma è piombato il padrone (quello nostro) mani in tasca e ci ha detto: cazzo sono quelle mani nella tasca e vi licenzio se non fate un cazzo, dio d’un dio. E se n’è tornato via, avendo esaurito la sua funzione. Tempo due giorni c’erano i vetri sprangati, ma non giù nel cesso dello stilista, no, da noi, e insomma, mani in tasca o no, a quel punto fuori non abbiamo più visto nulla e pedalare.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:42 PM