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Erri De Luca:Il peso della farfalla
Questa recensione è stata pubblicata con lo pseudonimo di Maurizio «Dodo» Voltolini nella rubrica Libri di «Diana» n. 4/2013.
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Benché Erri De Luca sia nato a Napoli (nel 1950), ha dedicato molte delle sue pagine alla montagna e ai suoi ambienti. Senza trascurare la caccia. Illuminanti, ad esempio, le pagine del racconto “Una cattiva storia”, tra l’altro tratte da una raccolta dal titolo concettualmente intrigante: Il contrario di uno. Due non è − ci dice infatti lo scrittore partenopeo – una banale sommatoria aritmetica, perché “due non è il doppio ma il contrario di uno, della solitudine. Due è alleanza, il filo doppio che non è mai spezzato”. E che a maggior ragione si rinterza qualora i due protagonisti di una storia non siano necessariamente amici, bensì rivali. Proprio come accade in Il peso della farfalla.
Con poetica asciuttezza, a volte mitigata dalle “sonorità” tipiche dell’epica classica, altre volte esaltata dalla spoglia sentenziosità propria di certi passi delle Scritture, De Luca apre il sipario di questo suo racconto lungo sulle cime dominate dal camoscio. Qui regna, ancora incontrastato dopo lunghi anni, un maschio di eccezionale forza, solitario e senza regole dopo aver perduto la madre per mano dell’uomo e la sorella per l’artiglio dell’aquila. È divenuto “re in un giorno e in duello” sventrando con un colpo formidabile il maschio dominante del branco e chiunque gli si opponga.
Sulle sue tracce un uomo (il cacciatore di frodo − tra sopravvivenza e sfida all’ordine − che gli ha già portato via la madre) di storia e personalità simili, ritiratosi tra le montagne dov’era nato “dopo la gioventù passata tra i rivoluzionari, fino allo sbando… Aveva abitato malghe abbandonate, bivacchi di alpinisti. Poi qualcuno gli aveva lasciato un riparo di pietra in cima a un bosco e lui se l’era adattato addosso”. Nel vicino villaggio l’uomo è pure un mito dell’alpinismo che per certi versi ricorda, nelle sue imprese e per lo stile, certi nomi che attorno alla fine dei ’70 aprirono, anche in Italia, nuovi approcci nel “Free solo” e nuove vie di ascesa. E tuttavia l’alpinismo per l’uomo resta “una tecnica al servizio della caccia”, per giungere dove altri non possono: se per questi scalare una parete a mani nude “era un’impresa fuori esempio, per lui era un espediente per non farsi fiutare dai camosci. Nelle imprese la grandezza sta nell’avere in mente tutt’altro”. Verissimo.
I due si cercano, si rispettano, si temono, sempre nell’attesa di un finale scontro, ancora non scritto, che plachi definitivamente le inquietudini dell’animo di uno dei due. Ma nel far così, ogni anno e ogni rivale o preda, hanno aggiunto sulla vita di ognuno una farfalla bianca e leggerissima. Sentono chiaramente che la loro stagione di dominio sta per consumarsi, pur ignorando quando il posarsi delle ultime ali farà diventare insostenibile il peso delle altre intanto accumulatesi. Sanno che “in ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove. Sono una quota sperimentale che va alla deriva. Dietro di loro la traccia aperta si chiude”.
Il momento del duello arriva fulmineo. “Il re dei camosci seppe improvvisamente che quello era il giorno” dopo venti lunghi anni di regno incontrastato: “le bestie sanno il tempo in tempo, quando serve saperlo. Pensarci prima è rovina di uomini e non prepara alla prontezza”. Attacca, così, sorprendendolo, il vecchio cacciatore, per poi risparmiarlo, ormai stanco di vita, lasciandosi raggiungere dallo sparo e poi dall’inusitato estremo saluto del suo branco, che è come un miracolo davanti agli occhi del cacciatore.
“L’uomo guardava, l’arma ancora in spalla, il corpo sui gomiti. Abbassò il fucile. La bestia lo aveva risparmiato, lui no. Niente aveva capito di quel presente che era già perduto. In quel punto finì anche per lui la caccia, non avrebbe sparato ad altre bestie”. E ancora: “il presente è la sola conoscenza che serve. L’uomo non ci sa stare nel presente. Si alzò e scese lentamente alla bestia uccisa”. Ma l’epilogo, il filo che tra i due finalmente si recide, non può stare qui. Toccherà a una farfalla bianca (il bianco che è il colore della morte e, in qualche modo, del rinnovamento) chiudere, mentre l’uomo scende a valle con la preda sulle spalle.
La donna che intanto, dopo aver fatto breccia nella sua ruvida resistenza (ormai meno forte a causa degli anni), attende il vecchio al riparo in quota per scrivere la sua storia, resta ad aspettarlo.
Il peso della farfalla è un mirabile racconto in cui l’uomo e la bestia ballano ancora insieme la vita, le regole, il rispetto per l’ambiente e la natura interiore di ogni essere. Diremmo quasi, con le regole, la rettitudine e l’integrità di un Eden perduto e ritrovato dopo aver errato (nella sua doppia accezione). Un creato dove i conti si pagano laddove si è preso; dove sguardo, parola e gesto ancora restano in misurato equilibrio. Un mondo che è necessariamente come deve essere, fatto come certe Scritture ebraiche o cristiane − si diceva. In cui credere. Perché un altro, infine, non ci trascini via, ancora una volta, con la forza del suo mondano, cinico, ateismo.
Storia di Momo, che fece le stelle
La fiaba che ho scritto per i bimbi della prima elementare dell’Istituto «L’Immacolata» di Livorno è stata illustrata da Federica Casapieri e letta, venerdì 27 maggio 2016, da Luciana Liliucci. Carmen Giardino ci ha aiutato a mostrare ai piccoli i pannelli con i disegni a graffito su cartoncino nero.
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“Crack!… Toc!… Bang!… Dleng! Sguish! Pluff!… Bong!”…
Nella città lontana lontana di Pecenera, proprio ai confini dell’antica contea di Nerofumo, si ascoltano sempre strani rumori…
Direte: – “Ma come sono operosi gli abitanti di questa città, sempre a lavorare, martellare, piallare, impastare, tagliare!…”.
E invece no!
Allora penserete: – “Ma come sono fastidiosi questi abitanti di Pecenera sempre a batter casse, grancasse e casseruole, dar fiato a trombe e tromboni, far squillare campanelli e pure vecchie sveglie…”.
E invece no!
E poi, insomma, poi insomma un po’ vi arrabbierete: – “Ma che traffico in questa città piena di gente indaffarata per non si sa che cosa: auto che passano, camion che trasportano, motorini che sfrecciano!…”.
E invece? Invece no…
E allora – uffa! – cosa direte, bambini? Cosa direte, eh? eh? Boh!… che mal di testa!
Ohi ohi! Ricominciamo da capo, allora. Per bene.
C’era una volta, ai confini dell’antica contea di Nerofumo, la città lontana lontana di Pecenera. Ma c’era? Sì che c’era! Ma, chissà perché, nessuno l’aveva mai vista. E il colmo è che nemmeno chi ci abitava l’aveva mai vista. Era brutta? No!… cioè sì… Era bella? Sì!… cioè no… Vattelappesca!… Com’era, come non era, in quella contea la luce non esisteva: e non dico solo quella di lampade e lumini, che ci aiutano a fare i compiti d’inverno o a prender sonno, se abbiamo strizza la notte. A Pecenera non c’era nemmeno il giorno né la Luna quando, certe volte, sorge grande grande con il suo faccione e pare voglia gareggiare con la luce tiepida del Sole. E se qualcuno avesse chiesto a un abitante cosa fosse, ad esempio, la luce dolce di un tramonto sul mare con le sue ombre lunghe lunghe, quello sarebbe cascato dalle nuvole, semmai avesse potuto scorgerle viaggiare nel vento. Insomma, bambini, il buio era così buio e il pesto così pesto che nessuno aveva mai visto qualcuno e gli abitanti si riconoscevano tra loro solo dalla voce, se si incontravano… no, anzi, se si scontravano!
“Tronck!”
– Ahiiii, ma che craniata!
– Eh, mi scusi!
– Ma che scusi e scusi, stia più attenta!
– Sì, lo so, ha ragione, ma è che non l’avevo vista!
– Se è per questo, nemmeno io…
– Ma lei… mi faccia pensare… Lei non è il ragionier Francesco Ernesto Panfilo Nontivedo de Nigris? Eehh, ho un buon orecchio io, sa? L’ho riconosciuta dalla voce!
– E lei, scommetto, è la signora Pieranna Maria Giovancorvina Lanotte! A-ha! Ora che le tasto il naso pieno delle sue inconfondibili verruche pelose, la riconosco anch’io! Sa, le offrirei volentieri un caffè… se solo vedessi dov’è un bar!
– Non si incomodi, ragioniere. Ci penso io a offrirgliene uno fatto con la macchinetta di casa, di quelli buoni buoni. Ovviamente, appena casa l’avrò ritrovata. Sa, son tre giorni che giro, ma appena infilo il portone giusto – ci conti! – le telefono…
E così s’andava avanti tutto il tempo: testate, sportellate, gomitate, pentole cadute, bicchieri rotti e inciampi di tutti i tipi. Insomma, una gran confusione di rumori e di fracassi: “Crack! Toc! Bang! Dleng! Sguish! Pluff! Bong!”. Tutto il santo giorno, giorno che poi non c’era, perché, si sa, era buio di continuo e la gente dormiva sempre o era sempre sveglia, e ognuna alla sua ora. Non c’è dubbio, era proprio un bel problema: nessun gallo dava il suo chicchirichì all’alba, non c’era lo zirlo dei merli al mattino né le cicale frinivano a mezzogiorno, se era caldo. Persino i passeri e i pettirossi se ne stavano muti e straniti sugli alberi, tra foglie e rami che nessuno vedeva. Che tristezza! Anche i bambini non giocavano mai a “palla avvelenata” e a “un-due-tre stella!”, vi pare giusto?
In quella città, viveva un bimbo che tutti chiamavano Momo. Nessuno lo aveva mai visto, ma se vi fosse stata luce, avrebbe visto i suoi capelli un po’ ribelli e due occhi grandi grandi, a volte birichini e curiosi, a volte dolci e assorti. Fin da quando era nato, Momo, ben protetto dal tepore delle braccia della mamma, ascoltava volentieri le favole che il babbo gli inventava, considerato che i libri, là, in tutto quel buio pesto non era possibile scriverli, figuriamoci leggerli! Che fantasia aveva quel papà, che avventure meravigliose gli raccontava! Tanto che a Momo pareva di vederli quei pirati e quelle navi, gli arrembaggi, i duelli. Riusciva persino ad ascoltare i mari in tempesta, la carezza del vento sulla pelle e, sulla testa, il chiarore inviato dalle stelle…
Le stelle?
– “Babbo babbo, hai detto stelle! Cosa sono le stelle?” – chiedeva Momo, sempre con maggior curiosità.
– “Eehh!” – sospirava il suo papà, cercando le parole – “Cosa sono? Sono… buchi, buchi nella volta di tutto questo buio, lassù in alto, quando alzi il viso, anche se ora non vedi niente…”.
– “Che bello, babbo!” – esclamava Momo, al colmo dell’emozione – “E a che servirebbero tutti quei buchi?”.
– “Ma a far uscir fuori la luce delle stelle, piccolo mio…” – sorrideva sotto i baffi il papà di Momo.
– “La luce? E cos’è la luce delle stelle?”.
– “E chi lo sa, mio piccolo Momo, ma io quella luce la immagino come mille e mille perle brillanti cucite lassù, fatte per illuminare almeno un po’ le cose che ci stanno qui attorno e riconoscerle, per farci ritrovare se ci allontaniamo, per farci orientare se perdiamo il sentiero…”.
Era proprio buffo il babbo di Momo. Che storia bizzarra! Ma era tanto l’amore di quel piccolo per il suo babbo, che Momo finì per convincersi che quella cosa, la luce, da qualche parte doveva pur esserci! Tanto che il bimbo ne parlò entusiasta a scuola, agli amici, e tutti gli altri piccoli presero a canzonarlo.
Figuriamoci: – “Momo s’inventa le cosee!” gli cantilenavano dietro. Oppure: “Momo è mattoo!”. O ancora, peggio: “Momo è bugiardoo!”. Ma Momo, in cuor suo, custodiva con fede quella parola di speranza che il babbo gli aveva regalato. Vedere grazie alla luce. Da qualche parte doveva pur esserci. O poteva essere inventata? E lui, al momento giusto, avrebbe saputo riconoscerla? Chissà…
Ma come sempre accade in tutte le storie belle e in tutte quelle brutte, avvenne che il babbo, per il suo lavoro, dovette partire di nuovo:
– “Babbo, questa volta dove andrai?”.
– “Molto lontano, figliolo, ma mamma resterà con te”.
– “Tornerai presto?”
– “Questa volta non lo so, Momo mio, ma non così presto, avrò molto da fare…”.
Per Momo furono momenti molto tristi. Il tempo passava e passava e la nostalgia del babbo si faceva sempre più forte. Che voglia di rivederlo, di riabbracciarlo, di sentirlo di nuovo raccontare di pirati, di mare e di quelle strane stelle!
Come fu e come non fu, a un certo punto, il bimbo riempì il tascapane col cibo in dispensa, baciò la mamma che dormiva, accostò l’uscio e si mise in cammino nel buio. Uscì dalla città, seguì meglio che poté la via e, una volta percorso tutto il sentiero, entrò nel bosco che gli stava di fronte. Momo cercava di scacciare la paura e, quando il sonno lo vinceva, si rifugiava sempre sulla cima di un albero, perché gli animali della foresta – che non ci vedevano, ma avevano un olfatto finissimo – non potessero sorprenderlo sul più bello del sonno. Il bosco, però, sembrava non aver fine, Momo faticava per non perdere la direzione. Cammina cammina, il bimbo, che chissà da quanto tempo andava avanti, in pensiero anche per la mamma che sicuramente l’aspettava, s’accorse che il suo tascapane era ormai vuoto. Disperato e stanco, Momo si lasciò cadere su un grosso masso.
S’era appena seduto che improvvisamente sentì: – “Tock!”… “Tock!” – e poi: “Tock ! Tock! Tock!”.
– “Chi è là?” – Urlò Momo, tutto impaurito. Il rumore si arrestò all’improvviso e tutt’attorno si fece un gran silenzio.
– “Chi sei tu, invece!” – rispose una voce che pareva venire dalla pietra sulla quale s’era messo – “Sai, è un’eternità che vivo qui e mai nessuno si era spinto fino al margine del bosco!”.
– “Sono Momo”– disse allora il bimbo rivolgendosi alla pietra – “E tu? Sei un masso parlante? Non ne ho mai visto uno e scusa, ma mi hai fatto un po’ paura…” – aggiunse timido timido.
– “Ah ah ah ah!” – si sentì ridere come in una caverna – “Una pietra parlante! Ah ah ah! Questa è bella!”. Poi, la voce continuò: – “Allora Momo, cosa sei venuto a fare fin qui?”.
– “Signor Masso, sono venuto a cercare la luce delle stelle!” – disse il bimbo tutto fiero di sé.
– “La luce? Le stelle? Mai viste, caro mio, almeno qui. Sei sicuro di aver fatto la strada giusta? In tutto questo buio impenetrabile è facile perdere la strada e tu, dalla voce, mi sembri proprio un bambino…”.
– “Non lo so” – rispose allora Momo – “ma le cerco perché so che il mio babbo quando le vedrà, tornerà presto a casa”.
– “Sei sicuro?” – domandò la voce.
– “Certo che sì, nessuno mi crede, solo il mio babbo saprà per certo le ho trovate io!”.
– “Se le cose stanno così…”. Momo si sentì afferrare sotto le braccia da una forza incredibile.
– “Stupida pietra, lasciami!” – Urlò il bambino scalciando. Ma quelle braccia possenti lo misero a sedere.
– “Non sono una pietra…” – disse allora la voce – “Mi chiamo Johannes e sono un boscaiolo: tanto tempo fa venni fin qui per starmene solo, lontano da tutti, perché non avevo figli. Ora sono vecchio, però ho sempre saputo che se avessi avuto un bimbo forte e coraggioso come te, prima o poi sarebbe venuto a cercarmi”. E le ruvide mani dell’uomo si posarono con speranza sulla piccola testa di Momo.
Il vecchio boscaiolo diede al bimbo tutto quello che aveva da mangiare, benché fosse povero e, prima di lasciarlo andare, diede al bambino un dono: – “Questo aculeo l’ho tolto una volta a un grosso istrice che veniva da lassù, dalle montagne che ora vuoi salire, ed è stato sempre il mio portafortuna: ora è tuo, vedrai che al momento giusto ti servirà!”. Così detto, alla fine, i due si abbracciarono e si salutarono.
Ripreso il cammino, Momo prese a salire il fianco di un’alta collina e la marcia si fece più faticosa. Era forte, ma anche quei monti sembravano infiniti. Verso la cima, ormai sotto la volta del cielo, Momo si guardò intorno: tutto era notte, come sempre, una notte eterna e infinita. Fu allora che Momo sorrise, come avrebbe sorriso il papà, ed ebbe un’idea! Subito stese le mani davanti a sé: pensò al buio, che lassù era spesso come una parete, ma soffice, e immaginò. Immaginò a suo modo come potevano essere le stelle.
“Che scemo! Perché non ci avevo mai pensato prima?” – esclamò il bimbo tra sé e sé! – “Il buio sono solo le cose che si nascondono nella nostra testa per non farsi vedere!”. Così, giunto sulla cima dei monti, Momo afferrò l’aculeo d’istrice che il boscaiolo gli aveva regalato e lo piantò con tutta la forza che aveva nel muro notturno del buio… fu allora che – man mano che il bimbo andava allargando quei fori – da dietro cominciò a filtrare qualcosa che non s’era mai vista, leggera e dorata; una lama che, pizzicando un po’ gli occhi, si mise a carezzare i rami e a colorare un poco le foglie.
Molto più da lontano, dalla città di Pecenera, gli abitanti videro con loro grande stupore accendersi uno, due, cento, mille minuscoli puntini dorati e tremolanti. E rapiti ormai dal profilo visibile dei monti, i bimbi – d’un tratto ricordando pentiti il loro amico – esclamarono in coro: “Ma allora è vero! Momo sta facendo le stelle!…”. Fu così che, alla luce che andava schiarendo la notte, il babbo tornò e avvenne che i grilli, anche loro sorpresi da tanta bellezza nel cielo, per la prima volta si misero a cantare dolcemente insieme.
Giuseppe Bufalari e il recupero de La masseria
Questa recensione è stata pubblicata sul domenicale del «Quotidiano del Sud» l’8 maggio 2016.
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Il romanzo racconta l’impatto difficile con la modernità della società contadina lucana negli anni ’50. In occasione della ristampa del volume allo scrittore è stata conferita la cittadinanza onoraria di Calvello.
Questa storia dimostra come tutte le biblioteche – anche quelle paterne, anche quelle che pensi di conoscere ormai come le tue tasche – ti regalano sempre un dono sorprendente quando meno te l’aspetti. E così è stato per il romanzo del fiorentino Giuseppe Bufalari, per tanto tempo rimasto nascosto, sottile com’era in quell’edizione, in mezzo ad altri libri, e forse anche “guardato”, scorso, ma non “visto” o considerato ancora con la necessaria lucidità. Per me, infatti, “La masseria” era sempre stato il romanzo del calabrese Fortunato Seminara, scritto nel 1952, proprio poco prima che Bufalari, in veste di maestro elementare, scendesse nella Basilicata appena investita dai processi di modernizzazione innescati dalla Riforma agraria e dall’intervento della CasMez di De Gasperi e Saraceno. È il 1953: anno tra quelli che segnano il definitivo tramonto del latifondo, ma anche della società contadina meridionale a questo organica. L’anno, tra l’altro, della morte di Rocco Scotellaro a Portici.
Il libro è, però, scritto nel 1959, con l’autore in Maremma e quell’esperienza già alle spalle: sarà pubblicato l’anno dopo, per i tipi della milanese Lerici, tra minacce di denuncia per il disdoro gettato sugli abitanti di quella parte di Basilicata e le lagnanze sul titolo che un infastidito Seminara confiderà a Carlo Cassola.
Nel romanzo, il protagonista è inviato in Basilicata come assistente sociale per preparare la popolazione ai cambiamenti imminenti in quelle contrade. Lasciatosi alle spalle Calvello, dove i giovani aspettano positivamente la Riforma come possibilità di riscatto economico e sociale, si addentra nelle campagne più sperdute verso la masseria della famiglia Torraca. Il protagonista, pur convinto della necessità del cambiamento, ben presto si rende conto che il tempo per operare mutamenti nella mentalità dei contadini non può essere che lungo. Ma la Riforma è già alle porte della masseria con operai, macchine, ruspe, strade. Nessuno si è curato delle relazioni inviate dall’assistente sociale che scrive per informare del disastro che provocherebbe l’inizio immediato delle trasformazioni. In pochi mesi, con la costruzione di una diga, si formerà nei terreni della masseria un lago che la cancellerà. E fino all’ultimo i due mondi sembreranno quasi impermeabili, fino al violento impatto finale che derubrica definitivamente fatti degni di ben altre riflessioni a mera cronaca di ordine pubblico. Lo sgradito assistente è quindi sostituito e trasferito.
Dopo la sua pubblicazione “La masseria” è recensita, nel 1961, da Montale sul “Corriere della Sera”. Il libro conosce un inaspettato successo, tanto da guadagnarsi lunghi interventi, su quotidiani e periodici, dei maggiori critici dell’epoca: Baldacci, Ferretti, Marvardi, Pampaloni, Nogara… Non mancano le traduzioni: tedesca, spagnola e svedese, rispettivamente per i tipi di A. Muller Verlag (“Das tal des Zornes”), di Plaza e Janes (“La maseria”) e di Gebers Stockholm (“Bondgarden”). Infine, per varie ragioni, un lungo oblìo spezzato solo, nel 1972, da una riduzione scolastica curata da La Nuova Italia, peraltro successivamente disconosciuta dall’autore per i tagli eccessivi apportati al testo. Tiratura comunque preziosa se – come ha ben detto in un suo recente intervento sul libro l’editore calvellese Franco Villani – ha poi permesso di salvare complessivamente la memoria del romanzo (divenuto difficilmente reperibile nell’edizione originale) nelle case di molti lucani. E come pure avvenuto in quella di mio padre.
Fin qui la storia del romanzo, poi da me reperito nella sua versione integrale e riproposto alle stampe. Storia che è anche il sangue del suo autore, classe 1927, e tuttavia lucido e vitale, nonostante la recentissima scomparsa del figlio Vieri lo abbia profondamente colpito pur non piegandone, almeno apparentemente, la tempra. Frangente che non ha comunque scoraggiato il proposito della Giunta comunale di Calvello, guidata dal sindaco Mario Gallicchio, di riunirsi in Consiglio straordinario, il 14 aprile scorso, per conferire allo scrittore fiorentino la cittadinanza onoraria del Comune. Un intento a lungo preparato in coincidenza con la nuova pubblicazione del romanzo (2016, pp. 400, 17.00 €) da parte di una casa editrice – la Hacca di Matelica (MC), guidata dall’instancabile Francesca Chiappa – da sempre attenta a pochi, sia pur oculatissimi recuperi editoriali di qualità (anche per l’impegno del lucano Giuseppe Lupo).
Tuttavia non mi sarei impegnato per una nuova edizione del testo se il libro non avesse retto a quella prova di modernità sempre da esigere da un romanzo che oggi voglia farsi ristampare. E dunque lo sguardo dell’autore, il suo confronto tra il mondo di provenienza, quello cattolico e intellettuale di Firenze (fu allievo di Luzi e Bilenchi), così “ingombro di cose, fatto di giornali, di macchine, di chiacchiere” e il tempo antico di una masseria autosufficiente dove, già nel legno della croce appesa alla parete ingiallita dal fumo, Bufalari conta, uno a uno, tutti i tarli lasciati dal paganesimo. “La masseria” di Bufalari non si apre con lo sguardo aereo del “Cristo” di Levi, né quello dal basso verso l’alto dell’anarchico Taddei ai piedi della collina sulla quale è posta Bernalda. La vallata di Bufalari è un mondo che si apre stretto come la dura forca caudina cui sarà sottoposta la sua necessità di comporre, da un lato, il bisogno d’innovazione modernizzatrice, dall’altro il timore di poter perdere l’incanto di un mondo arcaico e profondo. Bufalari, così, scende al Sud con l’entusiasmo di chi vuol partecipare a rimettere sul giusto sentiero di civilizzazione una terra arretrata e superstiziosa ma, – come ebbe a scrivere con grande acutezza Baldacci –, giunto nelle sue campagne, dovendo avvertire i contadini dell’arrivo della “civiltà”, in realtà è messo nella condizione di dover avvertire i promotori della Riforma dell’esistenza di un’altra cultura, basata su un suo specifico equilibrio tra uomo e natura.
Insomma, pur facendo parte della schiera dei meridionalisti non meridionali, mi pare si possa dire che Bufalari si apparenti, sia per lo stile asciutto e terso sia per il definitivo fallimento dei propositi del protagonista, più alla generazione dell’Ottieri del “Donnarumma” che a quella di Levi.
Nella “Masseria” non è traccia di mitizzazione. L’autore sta ai fatti, accosta gli eventi, sia pur registrandoli con accorata partecipazione. Ha scritto bene Di Consoli che il fiorentino “guarda con simpatia a quel popolo… ma non cade nella trappola dell’alterità – come fosse, quel popolo “senza peccato e senza redenzione”, un popolo eletto di Dio, o del Dio assente dei ‘vinti’ della Storia”. Bufalari non ha difficoltà a registrare le superstizioni, le faide, soprattutto la feroce volontà di egemonia di una masseria e di una famiglia sull’altra, il “palpito di speranza” che attraversa il volto dei contadini alla notizia dell’altrui rovina. E tuttavia non fa sconti anche all’indifferenza di chi gli dice brutalmente che i contadini ormai sono il passato, che la modernità avanza troppo velocemente perché si possano realizzare dal “di dentro” i necessari mutamenti nella mentalità rurale. Bufalari scopre dunque che la modernità, pur creando nuovi acquisti (ai quali pochi riusciranno ad adattarsi), sempre esige perdite della stessa entità, non necessariamente attinenti alla sola sfera economica, ma anche a quella della dignità della vita.
“La masseria” ci ripropone, così, a suo modo, in un contesto culturale e politico mutato di segno, la materia divenuta ormai scandalosa di un meridionalismo bloccato alla conta di cosa sia andato storto con la Riforma agraria, la CasMez, l’industrializzazione, l’emigrazione, il sottogoverno, l’impiego pubblico di massa. Salvo renderci conto che il Sud, per il Nord, è diventato, nel frattempo, solo una zavorra.
Cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria a Giuseppe Bufalari – Calvello (PZ), Sala convegni S. Maria de Plano – 14.04.2016
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Durante la cerimonia ho voluto dedicare la mia relazione di presentazione della nuova edizione del libro a Vieri Bufalari, figlio cinquantanovenne di Giuseppe, scomparso appena sette giorni prima dell’evento calvellese. Con l’entusiasmo che sempre lo contraddistingueva si era prodigato per far sì che il padre potesse essere presente alla manifestazione, così come con energia aveva sostenuto la nuova pubblicazione del libro e i preparativi per altre presentazioni da farsi un po’ in tutta Italia.
Ciao Vieri, ti devo tantissimo!
Le foto della cerimonia mi sono state gentilmente date dalla Pro-Loco di Calvello. Grazie.
La restituzione di un romanzo-reportage: La masseria di Giuseppe Bufalari
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Sono molto contento per l’uscita, in libreria, del libro La masseria, del fiorentino Giuseppe Bufalari (Hacca Edizioni, Matelica 2016, 395 pp., 17.00 €).
Il testo lo scoprii casualmente nella biblioteca di mio padre, stampato in una riduzione per le scuole risalente al 1972. Mi colpì il fatto che il titolo fosse uguale a un altro grande classico della letteratura meridionalistica, sia pure molto diverso per ambientazione storica e sviluppo delle vicende: quello scritto da Fortunato Seminara nel 1952.
La curiosità mi fece procurare una copia dell’opera di Bufalari (Lerici, 1960). Leggendola, ebbi subito chiara la percezione che si poteva porre fine all’oblio al quale, per quasi sessant’anni, era stata consegnata.
La ricerca di un editore ha avuto le sue tortuosità, ma mi sono venuti in aiuto molti amici che, alla fine, hanno permesso la riedizione del libro. Tra questi: Vieri, il figlio dell’autore (oggi ancora vivente) e Mario Gallicchio, Sindaco del Comune di Calvello (PZ), dove la storia è ambientata ai tempi della Riforma agraria.
Colgo l’occasione, infine, per ringraziare anche Francesca Chiappa che, con Hacca Edizioni (e la disponibilità di Giuseppe Lupo), ha creduto subito in questo progetto di recupero di un libro importante e ingiustamente dimenticato. Da parte mia, oltre alla riscoperta del testo, ho firmato la postfazione che l’accompagna (la prefazione è, invece, di Andrea Di Consoli, che non posso che lodare per la lucidità della sua lettura).
Straccione
Te ne vai perso tra i rumori ovattati
delle strade più incerte e i fumi
di un vino di pessima marca.
E vorresti zittire l’ordine di quei prati
all’inglese e di una vita borghese di merda.
Ma il seccante ronzio è incessante
all’orecchio come il puzzo di cicca
e la musica che ti rimbalza dietro
con la chitarra scordata
che tu stesso hai scheggiata con l’uso.
All’improvviso accecato
rialzi – la mano sui fari molesti –
il peso di un giorno di nuovo
ruzzolato dove?
E forse vorresti crepare proprio
stanotte – anche ingloriosamente, certo –
che bestemmiare incespicando cristoddìo
o ritrovarti domattina nel tuo freddo
cappotto di lisa solitudine – eh, straccione?
Bianca Garavelli: Le terzine perdute di Dante. Presentazione sabato 20 giugno 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno
Sotto: la presentazione del libro Le terzine perdute di Dante (Rizzoli, 2015) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli.
Sotto: Un altro momento della presentazione del libro. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli, Francesco Mencacci.
Sotto: finita la presentazione, Bianca Garavelli legge il Canto XXVIII del Paradiso affrontando, durante il commento, il tema della cosmologia dantesca.
Sotto: al termine della serata, foto di gruppo. Da sx: Antonio Celano, Nino “Belforte” Di Paolo, Bianca Garavelli e Francesco Mencacci.
Renato Barilli: La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil. Presentazione sabato 13 giugno 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno
Sotto: la presentazione del libro La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil (Mursia, 2014) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. Da sx: Francesco Parasole, Antonio Celano, Renato Barilli, Francesco Mencacci.
Sotto: Antonio Celano e Renato Barilli.
Serena Gaudino: Antigone a Scampìa. Presentazione sabato 9 maggio 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno
Sotto: la presentazione del libro Antigone a Scampia (Il Primo Amore/Effigie, 2014) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno.
A leggere alcune pagine del libro è la sua autrice: Serena Gaudino.
Sotto: alcuni momenti del dibattito. Nelle prime due foto, tutti gli intervenuti. Da sx, Carla Benedetti, Antonio Celano, Serena Gaudino, Francesco Mencacci. (Foto di Landa Grazioli e di Serena Senesi, che ringrazio).
Sotto: qualche momento della presentazione.
Sotto: Prima della presentazione. Due chiacchiere con Nino, il libraio, attuale proprietario della Belforte 1805; un sorriso di Serena; La Gaudino con Carla Benedetti.
Antonio Moresco: Gli increati. Presentazione sabato 11 aprile 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno
Sotto: la presentazione del libro Gli increati (Mondadori, 2015) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. A parlare del libro è il suo autore: Antonio Moresco.
Sotto: alcuni momenti del dibattito. Nella prima foto, tutti gli intervenuti. Da sx, Carla Benedetti, Antonio Celano, Antonio Moresco, Francesco Mencacci. In quelle seguenti, un paio di momenti del dialogo tra Antonio Celano e Antonio Moresco durante la presentazione.
Sotto: Nelle foto di Luca Nape D’Alessandro, la folla intervenuta alla presentazione.
Sotto: la sera stessa l’attore Giovanni Balzaretti recita (con musiche dal vivo di Filippo Conti) La lucina, versione liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Moresco. Anche in questo caso, gli spettatori non mancano.