Antonio Celano

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Erri De Luca:Il peso della farfalla

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Questa recensione è stata pubblicata con lo pseudonimo di Maurizio «Dodo» Voltolini nella rubrica Libri di «Diana» n. 4/2013.

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Benché Erri De Luca sia nato a Napoli (nel 1950), ha dedicato molte delle sue pagine alla montagna e ai suoi ambienti. Senza trascurare la caccia. Illuminanti, ad esempio, le pagine del racconto “Una cattiva storia”, tra l’altro tratte da una raccolta dal titolo concettualmente intrigante: Il contrario di uno. Due non è − ci dice infatti lo scrittore partenopeo – una banale sommatoria aritmetica, perché “due non è il doppio ma il contrario di uno, della solitudine. Due è alleanza, il filo doppio che non è mai spezzato”. E che a maggior ragione si rinterza qualora i due protagonisti di una storia non siano necessariamente amici, bensì rivali. Proprio come accade in Il peso della farfalla.

Con poetica asciuttezza, a volte mitigata dalle “sonorità” tipiche dell’epica classica, altre volte esaltata dalla spoglia sentenziosità propria di certi passi delle Scritture, De Luca apre il sipario di questo suo racconto lungo sulle cime dominate dal camoscio. Qui regna, ancora incontrastato dopo lunghi anni, un maschio di eccezionale forza, solitario e senza regole dopo aver perduto la madre per mano dell’uomo e la sorella per l’artiglio dell’aquila. È divenuto “re in un giorno e in duello” sventrando con un colpo formidabile il maschio dominante del branco e chiunque gli si opponga.

Sulle sue tracce un uomo (il cacciatore di frodo − tra sopravvivenza e sfida all’ordine − che gli ha già portato via la madre) di storia e personalità simili, ritiratosi tra le montagne dov’era nato “dopo la gioventù passata tra i rivoluzionari, fino allo sbando… Aveva abitato malghe abbandonate, bivacchi di alpinisti. Poi qualcuno gli aveva lasciato un riparo di pietra in cima a un bosco e lui se l’era adattato addosso”. Nel vicino villaggio l’uomo è pure un mito dell’alpinismo che per certi versi ricorda, nelle sue imprese e per lo stile, certi nomi che attorno alla fine dei ’70 aprirono, anche in Italia, nuovi approcci nel “Free solo” e nuove vie di ascesa. E tuttavia l’alpinismo per l’uomo resta “una tecnica al servizio della caccia”, per giungere dove altri non possono: se per questi scalare una parete a mani nude “era un’impresa fuori esempio, per lui era un espediente per non farsi fiutare dai camosci. Nelle imprese la grandezza sta nell’avere in mente tutt’altro”. Verissimo.

I due si cercano, si rispettano, si temono, sempre nell’attesa di un finale scontro, ancora non scritto, che plachi definitivamente le inquietudini dell’animo di uno dei due. Ma nel far così, ogni anno e ogni rivale o preda, hanno aggiunto sulla vita di ognuno una farfalla bianca e leggerissima. Sentono chiaramente che la loro stagione di dominio sta per consumarsi, pur ignorando quando il posarsi delle ultime ali farà diventare insostenibile il peso delle altre intanto accumulatesi. Sanno che “in ogni specie sono i solitari a tentare esperienze nuove. Sono una quota sperimentale che va alla deriva. Dietro di loro la traccia aperta si chiude”.  

Il momento del duello arriva fulmineo. “Il re dei camosci seppe improvvisamente che quello era il giorno” dopo venti lunghi anni di regno incontrastato: “le bestie sanno il tempo in tempo, quando serve saperlo. Pensarci prima è rovina di uomini e non prepara alla prontezza”. Attacca, così, sorprendendolo, il vecchio cacciatore, per poi risparmiarlo, ormai stanco di vita, lasciandosi raggiungere dallo sparo e poi dall’inusitato estremo saluto del suo branco, che è come un miracolo davanti agli occhi del cacciatore.

“L’uomo guardava, l’arma ancora in spalla, il corpo sui gomiti. Abbassò il fucile. La bestia lo aveva risparmiato, lui no. Niente aveva capito di quel presente che era già perduto. In quel punto finì anche per lui la caccia, non avrebbe sparato ad altre bestie”. E ancora: “il presente è la sola conoscenza che serve. L’uomo non ci sa stare nel presente. Si alzò e scese lentamente alla bestia uccisa”. Ma l’epilogo, il filo che tra i due finalmente si recide, non può stare qui. Toccherà a una farfalla bianca (il bianco che è il colore della morte e, in qualche modo, del rinnovamento) chiudere, mentre l’uomo scende a valle con la preda sulle spalle.

La donna che intanto, dopo aver fatto breccia nella sua ruvida resistenza (ormai meno forte a causa degli anni), attende il vecchio al riparo in quota per scrivere la sua storia, resta ad aspettarlo.

Il peso della farfalla è un mirabile racconto in cui l’uomo e la bestia ballano ancora insieme la vita, le regole, il rispetto per l’ambiente e la natura interiore di ogni essere. Diremmo quasi, con le regole, la rettitudine e l’integrità di un Eden perduto e ritrovato dopo aver errato (nella sua doppia accezione). Un creato dove i conti si pagano laddove si è preso; dove sguardo, parola e gesto ancora restano in misurato equilibrio. Un mondo che è necessariamente come deve essere, fatto come certe Scritture ebraiche o cristiane − si diceva. In cui credere. Perché un altro, infine, non ci trascini via, ancora una volta, con la forza del suo mondano, cinico, ateismo.

 

Erri De Luca su Diana

Recensione a: Domenico Starnone, Prima esecuzione (Feltrinelli, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 236 (gennaio-febbraio 2008), p. 46-47.

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È un libro complesso e ricco di temi intriganti questo Prima esecuzione di Starnone. A partire dalla constatazione che è un racconto di un racconto.

Uno scrittore assiste a una lite: per futili motivi un uomo insulta ferocemente un’extracomunitaria. Preso a sua volta dall’ira, lo scrittore spintona malamente l’uomo con il rischio di trascendere oltre. L’accaduto genera nell’aggressore sensi di colpa sui motivi che gli hanno lasciato oltrepassare così il segno. In più, le conseguenze provocate dall’alterco non tardano a raggiungerlo attraverso poco chiare richieste formulate dalla figlia dell’uomo da lui affrontato, intanto ammalatosi in seguito al litigio. E qui già i temi, strutturali nella narrazione di Starnone, della colpa (che sempre riverbera il suo male sul corpo), della violenza e della memoria di quest’ultima, che riportano lo scrittore «alle volte in cui era stato definito un bambino buono, un alunno di buona condotta, un buon ragazzo, un buon uomo, una persona buona» pur sapendo di esserlo «solo grazie all’ingabbiamento di una ferocia congenita» pronta a esplodergli dentro.

Sennonché  la narrazione molto si complica per il fatto che lo scrittore va già  da tempo stendendo un suo romanzo, Domanda di risarcimento, dedicato al riaffacciarsi in Italia del terrorismo dopo la stagione degli anni di piombo. Protagonista ne è Domenico Stasi, un vero e proprio doppio della voce narrante, un vecchio insegnante collocato in un precario stallo tra una rabbia di natura politica e una sorta di indifferente distacco e inerzia all’azione. Inerzia a un certo punto messa alla prova dall’incontro con Nina, una vecchia alunna, ora indagata per partecipazione a banda armata e, al contrario, sollecitata da Augusto Sellitto, un altro ex alunno diventato poliziotto grazie alla stessa sete di giustizia trasmessagli dal professore. E va notato che un po’ tutta la narrazione starnoniana è giocata su questo continuo rampollare di opposti da una comune sorgente, quasi una sorta di progressivo aggiustamento del giudizio attraverso un’acquisizione di nuovi punti di vista su un medesimo soggetto.

La donna, in breve, lo incarica in sua vece del ritiro di un misterioso pacco, la pistola contenuta nel quale dovrà servire all’esecuzione di un bersaglio politico.

Tutto il romanzo finisce dunque per sviluppare una complessiva riflessione attorno al tema della violenza, della necessità politica di una «violenza difensiva» e/o, come si sarebbe detto in altro clima storico, di un’«azione diretta» violenta dei «buoni» contro le ingiustizie del mondo. Ciò pur nell’assoluta chiarezza di orizzonte storico in cui il racconto si colloca, che è quello odierno. Quanto descritto mai ci dice, infatti, di cellule terroristiche, di azioni a mano armata, di contrapposte posizioni politiche o di scontri ideologici (né si è dimenticato l’effetto di vero e proprio straniamento creatosi alla notizia dell’omicidio D’Antona proprio poco prima dello scoccare del nuovo millennio). Il romanzo, insomma, non subisce derive giallistiche o tipiche dell’intrigo a fosche tinte politico-complottarde. Positivamente il libro ci sembra, invece, più figlio del distacco operatosi verso gli anni di piombo (con buona pace della «sindrome di Peter Pan» di cui ancora è affetta parte di quella militanza), più coinvolto com’è nelle relazioni e nelle lacerazioni esistenziali che Starnone man mano lascia detonare nei personaggi, più giocato sulle polisemie e sottili ambivalenze generate dalle parole.

Stasi non è un personaggio a tinte decise, come oggi (soprattutto nel cinema) si tende a rappresentare i militanti che presero parte alle vicende degli anni ’70. Tuttavia resta sempre in lui, dibattuto tra opposte forze e dubbi, la provocazione quotidiana di ragioni paradossali (politiche e personali) che pure lo spingono a schierarsi per una troppo inflessibile aspirazione a una sorta di laica santità e alla giustificazione di quanti siano alla ricerca di un Paradiso in terra generato dalla violenza degli oppressi. Stasi è un cattivo maestro improvvisamente spinto a passare ai fatti, sollecitato a uscire dal guscio piccolo borghese delle buone maniere e di una violenza costantemente dressata che non gli risparmia sfide di coerenza e una continua sensazione di inadeguatezza dovuta all’età, ma anche al fatto che è uno studioso, un contemplativo. Di più. Stasi è un personaggio che cerca disperatamente di riaffermare, sul piano ideologico e personale, una coerenza resagli difficoltosa da un mutato contesto storico-sociale.

A questo punto, non meraviglia se pure il romanzo, alla ricerca costante di una sua coesione narrativa, inizia a manifestare un certo malessere. Procedendo nella sua stesura, la scrittura comincia a mostrarsi in tutta la sua precarietà, la struttura a sfaldarsi tra le mani del suo autore (e del lettore con lui) come un pezzo di scisto particolarmente friabile. Accade, infatti, che il romanzo, a furia di tagli e riscritture, si è trasformato in una «piovra tentacolare», troppo problematica, troppo ricca di temi e piste appena abbozzate e abbandonate, vittima di derive saggistiche, di cul de sac narrativi, di dialoghi e narrazioni improvvisamente goffi alla rilettura dello scrittore.

L’indagine sui perché di tale viluppo a questo punto si divarica. Su un piano esterno all’opera, infatti, si colloca il giudizio di Starnone che pone un problema di forma storica del romanzo. Prima esecuzione sarebbe così «un racconto di un racconto mai compiuto. Non [una] metanarrazione, ma una forma di narrazione che funziona solo per quei temi che non possono avere un compimento narrativo pieno. Il segno che oggi c’è una difficoltà a portare avanti una narrazione su specifici temi. In questo caso la violenza». E ciò per l’assenza di un modello già pronto, dovendosene sperimentare, giocoforza, uno all’interno dell’inadeguata narratività novecentesca.

Su un piano interno, invece, investe in pieno il lavoro dell’autore-demiurgo, il quale si trova, invece, a dover usare, per scrivere, i materiali della sua memoria e, in mancanza d’altro, della sua quotidiana esperienza delle cose. Così l’atto di uccidere, che lo scrittore mutua da ricordi di anni prima. Pagine, quelle dedicate alla morte data a un capitone e poi a un pollo, scritte magistralmente e che dell’atto restituiscono, nell’impastarsi di verbo e sangue («forse il culmine dell’orrore è nell’insorgere del discorso che lo dice»), la ferocia tensiva e lo stravolgimento emotivo. Un registro dagli esiti infine scartati, inadeguato e notevolmente sovraccaricato com’è di senso rispetto alla freddezza richiesta nel premere un grilletto in nome della Giustizia per la «moltitudine degli schiavi del Disotto», tuttavia limpidamente sgorgato, invece, dalla contraddittoria furia omicida che lo ha investito al momento di difendere l’immigrata. Sennonché questa operazione continua di travaso e interpolazione dà il colpo di grazia al già precario equilibrio del romanzo operando pure uno scambio tra i mondi e i piani di riferimento di Prima esecuzioneRichiesta di risarcimento. Ma la letterale catastrofe non si arresta qui, se l’invenzione irrompe alla fine nella realtà, trasmutando identità, rubando e ribaltando i ruoli per cui, nell’incalzante finale, più non si capisce chi sia il mandante dell’omicidio e chi lo sceneggiatore il quale, sperimentando opposte teorie «comportamentistiche» sull’insegnante, a questo punto lo ha ridotto a una cavia chiusa tra le pareti trasparenti di un impossibile romanzo.

Alla fine nulla resta indenne. Anche le parole («prima», «domanda»,  «esecuzione», «risarcimento»)  come particelle colpite da un bombardamento atomico, si scindono e si trasmutano rivelando finalmente agli occhi del lettore la propria ambiguità di senso.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 2:59 PM