Antonio Celano

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Recensione a: Serena Gaudino, Antigone a Scampìa (Il Primo Amore/Effigie, 2014)

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Antigone Cop

Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata» lunedì 29 giugno 2015.

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Che suggestivo titolo l’Antigone a Scampìa (Effigie/Il Primo Amore 2014, 128 pp., 12.00 €) di Serena Guadino. Enigmatico, come forse apparve ai suoi lettori il Cristo si è fermato a Eboli di Levi prima di addentrarsi nel suo sangue. Un libro che mai evita, al femminile, di confrontarsi con una tradizione meridionalistica di ricerca e impegno già avviata con quel “Cosa vorremmo tenere e sviluppare, e cosa cambiare nella vita di questa zona?” che, nei primi anni Sessanta, Danilo Dolci pose ai contadini delle sue Conversazioni.

E dunque, cosa ci fa Antigone a Scampìa? E perché la partenopea Serena Gaudino, fin qui musicologa e giornalista, scrittrice di racconti e storie per bambini, l’avrebbe condotta fino al quartiere dell’estrema periferia Nord di Napoli – circa quattro chilometri quadrati, settantamila abitanti, tra registrati e non, che mette accanto classi e etnie della più eterogenea provenienza, lumpen e classi medie, immigrati e “deportati” del dopo terremoto – su cui, più efficacemente di altri, Saviano ha saputo accendere i riflettori sul suo degrado dopo anni di dimenticanza quasi totale?

Scampìa, in napoletano, indica un “incolto improduttivo”, un terreno non coltivato o un ex-campo poi abbandonato. Valutazione topologica oggettiva e priva di ulteriori implicazioni valoriali in un mondo largamente ancora dominato dalla cultura contadina, dove di scampìe ce ne sono sempre state tante in ogni paese. Ma che non ha mancato di segnalare scivolamenti di senso sul piano morale man mano che la periferia metropolitana a nord ne ha inglobato l’area, infine imponendola all’opinione pubblica come luogo del degrado. Un posto fatalisticamente segnato e condannato già nel nome anche da giornalisti impegnati a rivelarne il malaffare di camorra: “Scampìa ha la condanna incardinata nel suo stesso nome. La fotte pure l’etimologia”. Un giudizio tanto persistente quanto avvitato in bizzarre contraddizioni. Se, infatti, quella Scampìa, tra le altre, è stata lottizzata e riempita di palazzi e condomini “grazie alla legge 167 che, fino a che prendesse piede il nome attuale, serviva per indicare il nuovo quartiere a nord della città, accanto a Secondigliano: ’A Cientesissantasette”, si può, poi, concludere con un “be’, viene da rimpiangerlo quel nome che faceva un po’ New York, anche se si andava, nella numerazione, ben oltre Harlem, verso il Bronx”?

Eccola, allora, Scampìa sinonimo di “scampare”, di “scappare”. Mentre dovrebbe essere ribattezzata “Accampìa”, cioè un luogo dove il mutamento storico torna a misurarsi contro ogni presunta invariante antropologica. Scampìa non più soltanto, allora – dice Gaudino –, non luogo di cemento da attraversarsi velocemente in auto come un palombaro con lo scafandro, ma un quartiere restituito agli abitanti, ai suoi attori principali, riconquistato dalle istituzioni e dalle associazioni che operano, dal basso, in quella porzione di territorio. In tal senso, la stessa struttura del volumetto della Gaudino non sembra mai porgere, al lettore, la frantumaglia di un mondo per cui poco può valere mettersi a incollarne i cocci. Le sue pagine, invece, accumulano e dispongono svariati materiali di riflessione (“Alfabeto Scampìa”, ad esempio) solo apparentemente eterogenei ma, al contrario, già capaci di anticipare un’organizzazione di senso ancora non risolta, certo, ma già propositiva e in cammino sul piano degli obbiettivi. Segno di un tempo che cambia.

Dopo un lungo impegno al progetto culturale del “Centro Hurtado”, Serena Gaudino diventa socia di “Dream Team – Donne in rete per la RiVitalizzazione urbana”. L’associazione, fondata da Patrizia Palumbo, propone alle donne del quartiere un progetto educativo alternativo ai normali piccoli interventi di formazione affidati al volontariato. L’idea è quella “di promuovere un percorso che, partendo dal loro vissuto, le invitasse a riflettere sulle loro condizioni di vita” favorendone il cambiamento. La Palumbo apre, così, uno sportello d’ascolto che accoglie le socie, ma offre loro anche tempo per ascoltarne il disagio, le storie, tutto quello che non si potrebbe riferire nemmeno “al confessore e men che meno alle assistenti sociali”. Nel frattempo la Gaudino si è imbattuta in un piccolo libro, il racconto di Antigone che Simone Weil aveva iniziato, con alterne fortune, a scrivere attorno alla metà degli anni Trenta del Novecento; e ha fatto conoscenza con Beatrice Monroy, una cantastorie siciliana interessata alla narrazione dei classici letterari che la incoraggia su questa strada.

Dunque, per un anno intero, tra il 2008 e il 2009, più o meno alla fine della cruenta guerra di camorra che aveva travolto Scampìa, Serena Gaudino ha narrato a un gruppo di una cinquantina di donne la storia di Tebe, di Laio, di Edipo e di Antigone: “perché, come scriveva Simone Weil, solo la grande poesia greca riesce a parlare al cuore delle persone, inducendole a riflettere sulla propria condizione di vita”. In seguito sono iniziati i racconti delle donne che, “immedesimandosi nell’eroina sofoclea e trovando analogie tra la loro lotta e quella di Antigone, hanno iniziato a rileggere la loro vita alla luce del mito e a darne una nuova autentica interpretazione”. Struggenti le pagine della madre che racconta la morte del figlio Tonino, vittima innocente di un agguato di camorra, esposto al fuoco perché i suoi problemi motori non gli consentono di fuggire in tempo. Oppure drammatiche quelle della donna che vuol darsi fuoco perché stretta, lei e il suo giovane figlio, tra le violenze degli spacciatori del quartiere e quelle della polizia, fino a condizionarne pesantemente persino i ritmi di vita.

Serena Gaudino porta, così, Antigone a Scampìa prendendone il testimone da Simone Weil, la grande figura dell’emancipazione sociale e femminile che, per prima, sperimentò un analogo confronto tra la condizione delle operaie inglesi e quella delle donne della tragedia greca. Con l’intenzione di sollecitarne, attraverso il coinvolgimento e l’identificazione, una maggiore presa di coscienza e una più forte convinzione al cambiamento. E tuttavia l’Antigone di Scampìa, più delle altre, trova, nella sua base sofoclea, la tragedia tutta moderna di un più profondo scarto nomologico tra il concetto di giustizia, rettitudine e amore da un lato e di legalità e diritto dall’altro, ponendo così in essere una figura di forte complessità anche tra il binomio individuale “diritto/amore” riflesso in quello collettivo “oppressione/rivendicazione”.

È così che, grazie all’esperienza sul campo con le donne di Scampìa, la Gaudino ci consegna un’interpretazione nuova e originale al mito sofocleo, che fin qui ha spesso letto, troppo nettamente, l’Antigone come beniamina positiva di una giustizia antisistema. Certo Antigone resta una “vittima che rivendica la legge dell’amore” e la “salvezza della memoria, verità e giustizia”, ma nello stesso tempo sa vestire anche i panni del boia e dell’aguzzino, se è capace di coinvolgersi nelle logiche di camorra, rivendicando “la validità del crimine contro chi ha ucciso i loro famigliari”: il Creonte che sorveglia, perseguita e punisce senza riuscire a soccorrere, ma anche custode dell’imparzialità della Legge dello Stato. “Solo chi non conosce la situazione può pensare, troppo ottimisticamente, che le donne di Scampìa si identifichino in Antigone solo contro il Sistema camorristico. Le donne di Scampìa si identificano in Antigone contro tutti i loro nemici, che possono essere sia il Sistema che lo Stato… sono madri che scendono in piazza e mogli che piangono i mariti; madri che difendono i figli ma che alle volte, purtroppo, sono costrette anche a seppellirli; possono essere donne di camorra e contemporaneamente madri, alla ricerca di una voce che traduca in richieste d’aiuto i loro gesti”. Antigone è, dunque, una testimone: la testimone dello scontro, scrive la Gaudino, “tra la coscienza privata e l’interesse pubblico” in un conflitto irrisolvibile “perché entrambi hanno ragione”.

E tuttavia, pur ormai lontani dagli anni in cui compiva il suo esperimento (parliamo del periodo dopo il 1934, quello delle Riflessioni, in Italia raccolte in un libro Adelphi a cura di Giancarlo Gaeta), più di un’eco delle riflessioni della Weil rimane leggibile tra le pagine dedicate dalla Gaudino a Scampìa. Perché, pur riconfermando la fiducia nella rivoluzione, la Weil non ritiene ormai più possibile conciliare quell’ideale, per lei antiautoritario, con il consolidamento di un’élite di rivoluzionari di professione ben presto, a scapito della classe operaia, trasformatasi in una casta burocratica (tanto quanto le tecnoburocrazie occidentali). È possibile che presa del potere e liberazione possano coincidere? E, per contro, è davvero possibile rinunciare all’azione organizzata? E, se in tutti e due i casi la risposta fosse negativa, quale sarebbe allora la via d’uscita? La risposta di Simone Weil, pur provvisoria, è la sua discesa all’esperienza di fabbrica, tra le operaie, la rivendicazione di una centralità negata, schiacciata da un sistema sociale oppressivo impermeabile a ogni teoria sull’ineluttabilità della sua eliminazione per via dell’operare storico delle forze dello sviluppo. Vale invece avere coscienza che ogni progresso nasce, invece, dall’azione responsabile di individui e gruppi che incidono realmente in una realtà sociale chiaramente definita. Saremmo così, allora, non al recupero di un generico e moraleggiante riformismo, ma a una vera e propria “resistenza attiva” tra le smagliature del potere e dell’oppressione sistemica.

Il Quotidiano del Sud – Lunedì 29 giugno 2015

Premio “Carlo Levi” ad Aliano. Tra calanchi e letteratura

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Tutti

Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», lunedì 1 dicembre 2014.

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Ero ad Aliano, a seguire la riuscita cerimonia di consegna del “XVII Premio letterario Carlo Levi” e, confesso, anche per godermi ancora una volta il paesaggio così assoluto dei calanchi che già mi aveva entusiasmato quest’estate, in occasione del festival di paesologia. Mi è parso di leggere alcune difficoltà durante lo svolgimento del premio che, a questo punto, avrebbe bisogno di poter spiccare un ben più deciso salto di prestigio e autorevolezza. Nulla di irrisolvibile, ovviamente, anzi. Però vorrei ragionarci ora, a bocce ferme.
Intanto la mattina, i vincitori del premio e i loro libri, sono stati presentati dagli ormai mitici Don Pierino Dilenge e Raffaele Nigro alle scolaresche di alcune medie superiori del circondario.
A parte qualche breve lazzo di alcuni studenti nella parte superiore della sala, è accaduto che solo una studentessa abbia posto una domanda a Laura Pariani e solo una docente si sia avventurata a chiedere una curiosità all’ottimo Ettore Catalano. Il resto della truppa è rimasto sprofondato in un diuturno silenzio. Solo colpa della solita scarsa attenzione studentesca – e ce ne laviamo le mani?
Bene ha fatto Nigro, allora, a richiamare un maggiore sforzo organizzativo del Premio in sinergia con le scuole del territorio, perché occorre che la concentrazione e il coinvolgimento a una cerimonia di tal genere sia sollecitata da una lettura e da una riflessione (anche sul contesto) degli studenti, per almeno qualcuna delle opere, che preceda l’incontro. E, del resto, sarebbe più proficuo cercare di rendere istituzionale l’appuntamento con le scuole medie superiori anche attraverso la proposta, ogni anno, di una data più certa e stabile della manifestazione. Così come gioverebbe osare una formula meno “classica” e più interattiva di incontro tra giovani e scrittori che non sia solo quella delle valutazioni e degli spunti provenienti dagli scrittori il giorno della premiazione.
Non lo so, ma presumo che questa sia una questione (sempre dolorosa, e non solo per il “Carlo Levi”) di fondi – l’acquisto dei libri da diffondere nelle aule, il noleggio degli autobus con cui trasferire le scolaresche, il budget comunale ecc. – o, in altri termini, “una croce”, di cui non si può far ulteriormente carico chi si sbatte, e parecchio, per assicurare ogni anno la piena riuscita della manifestazione. E il discorso, mi pare, valga anche per la scuola, sempre alla canna del gas per quanto riguarda budget, fondi, possibilità, così come per i tempi di preparazione specifica da parte di insegnanti e studenti.
Un altro punto. Il pomeriggio, nonostante la formula del premio fosse stata invertita nell’ordine degli interventi, privilegiando, come giusto, prima l’escussione degli scrittori e delle loro fatiche, i politici hanno fatto la loro passerella serale al Premio. Non mi pare uno scandalo, se a loro si debba pure l’accesso ad alcuni fondi o la formulazione di proposte valide. Però mi ha sconcertato non poco che tre uomini di politica– mentre il pubblico sciamava via inesorabile – abbiano complessivamente parlato un tempo superiore a quello che i quattro scrittori e i due conduttori hanno utilizzato per confrontarsi in una sera a loro dedicata. Un tempo tra l’altro, m’è parso, parzialmente sprecato a parlare di cultura con un’idea, a un certo punto, francamente generica, rimbalzando tra tematiche e suggestioni le più disparate. Alla fine anche il pubblico, ormai poco lucido, non so quanto sia riuscito a far propri discorsi che, ad averli resi più sobri e più centrati sulle esigenze del Premio e sulla cultura del libro – quella cui Levi tra gli altri, ha completamente dedicato genio, esistenza e dolori – avrebbero reso certo un miglior servizio alla serata e agli intervenuti. Perché, a ben guardare, in mezzo al fumo un po’ d’arrosto c’era.
Comunque sia, il problema pressante mi pare essere derivante dalla scarsità oggettiva dei fondi per il Premio a seguito della crisi economica (che, però, non mi pare affluissero abbondanti alla cultura nemmeno ai tempi in cui le vacche erano grasse) e di una questione, quella culturale, anche per il governo Renzi inesorabilmente e “tremontianamente” non prioritaria in agenda. Occasione che spinge i politici di ogni risma a trincerarsi dietro un generico “potremo, vedremo, faremo” confidando in un uditorio ormai ipnotizzato da vent’anni e passa di berlusconismo a stare perennemente con le mezze maniche estive invece che con il vecchio maglione di lana di nonno Enrico Berlinguer.
Un altro problema verte, invece, su come meglio veicolare i libri premiati – se nelle scuole magari in accordo con gli editori attraverso particolari sconti, solo per fare un esempio banale.
Sono tra quelli che, pur auspicando più provvidenze di legge (e meno scellerate) a sostegno dell’editoria, vanno da anni ripetendo la formula – diciamo così – “concordataria” riassumibile nella formula: “libera istituzione in libera editoria”. Perché se una Regione si costituisce essa stessa come editrice allo stesso tempo facendosi sostenitrice economica della locale editoria, va da sé che la scelta abbisogni di una concertazione massimamente chiara per non creare inevitabili conflitti tra le parti o, peggio, esiziali “infiltrazioni”. Sarebbe cioè preferibile un sostegno “a valle” e mirato al sostegno dell’acquisto, diffusione e lettura del libro, tra cui, spiccherebbe un appoggio più deciso alle librerie (o di ciò che ne resta) sul territorio.
Mi pare Lacorazza abbia accennato (e occorrerebbe rifletterci meglio) a un punto importante: cosa può fare la politica perché gli intellettuali lucani possano frequentarsi e – se fuori – ritornare più spesso in Lucania attirati da momenti di più frequente elaborazione e proposta culturale? A mio avviso, lo dico convinto a Lacorazza, poco servono nuove riviste così come nuovi cenacoli dell’autoreferenzialità. Servono, invece, momenti di confronto aperti tra vari attori della cultura (pittori e poeti, fotografi e critici o saggisti ecc.) e di questi con la gente lucana. Come si può fare, allora, se non con incentivi a circoli e librerie meritevoli, se non con un adeguato sostegno alla lettura scolastica e giovanile?
E perché le scuole? La Basilicata è tra le ultime regioni in tutte le classifiche nazionali per la lettura dei libri, anche grazie alla forbice negativa tra istruzione e reddito medio regionale. Dunque gli investimenti – che chi di dovere dovrebbe fare – possono lasciare una traccia duratura quasi solo nella fascia di lettori oggi potenziale: i preadolescenti e gli adolescenti (chi ha la mia età ormai se non legge già ora, difficile sviluppi il tarlo). E devono essere investimenti non solo dedicati all’acquisto del libro in quanto tale, ma alla sua lettura. I salotti buoni delle famiglie lucane sono già piene di enciclopedie e altre opere acquistate nei ’70 e quasi mai sfogliate; e, allora? siamo punto e a capo. Altre idee possono essere le visite alle fiere, l’uso mirato di internet, piccoli corsi sull’editoria e sulla lettura, premi per i più piccoli, incontro con scrittori ed editori, incontri con giornalisti ed edicolanti per meglio capire la lavorazione di certe filiere, con i restauratori di opere antiche ecc ecc.
Insomma, non si tratta solo di acquistare un libro, ma di giungere alla consapevolezza che il libro è uno strumento teorico-tecnico per imparare o un modo per accedere a una qualche notizia del mondo, a un’esperienza di vita che possa renderci meno provinciali. È questo che fa, oggi, anche il premio Levi che, come ha detto il sindaco di Matera Adduce, potrebbe entrare in una fase propulsiva virtuosa se la sua città riuscirà a proporsi come Capitale culturale d’Europa capacedi scambio intellettuale proficuo con l’intero territorio su cui poggia.
Fin qui, luci e ombre della politica. Ma la crisi italiana è crisi non solo politica, e mostra i limiti e l’inadeguatezza di un’intera classe manageriale e dirigente. E dunque anche imprenditoriale, bancaria, del management regionale. Una classe dirigente incapace di pensare a uno spazio pubblico che non sia né contrapposizione né commistione tra stato e privato, bensì terreno neutro – sia pur non neutrale nell’impegno – di collaborazione, scambio, crescita tra parti.
Sono stato recentemente al “Festivaletteratura” a Mantova: nella brochure di invito tante sigle di banche e investitori piccoli e grandi che si sono impegnati, anche senza un ritorno economico immediato, nella riuscita organizzativa dell’evento. Certo territori ricchi, ma noi parliamo di una piccola eccellenza realizzata in una terra di bellezza sconvolta e sconvolgente, che porta il nome di uno scrittore tra i più grandi del Novecento! Un premio di caratura e di ulteriore potenzialità nazionale e internazionale che ha già dimostrato, con le sue diciassette stagioni, di stare più che bene in piedi.
E dunque, lo dico qui con un termine toscano, che qualcuno “si frughi”. Ma ci sta che le compagnie di autobus per il trasporto delle scuole (faccio solo un esempio) o le banche, pur intenzionate, abbiano trovato nelle tasche ricci di castagno. Eppure, se il territorio non si promuove, non si sostiene anche nella sua crescita culturale, mi chiedo, quale possibile o ulteriore sviluppo può avere?

Premio Levi

La Notte Europea dei Ricercatori è Made in Lucania

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Da sx Larocca, Giacalone, Bernardo

 

Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», domenica 12 ottobre 2014.

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Lucani che si confermano. Vale a dire Francesco Larocca, lagonegrese, oggi docente di scienze dell’Istituto Salesiano Villa Sora a Frascati (Roma) e vicepreside di quel Liceo Scientifico; soprattutto instancabile mediatore culturale: una figura, quest’ultima, di cui oggi in Italia c’è disperato bisogno. Iniziò, nel febbraio 2012, con l’acquisto di quattro telescopi, attorno al quale aggregò il gruppo di astrofili “Segui la Stella”. Un’associazione che oggi alterna anche incontri con personalità del mondo scientifico e sessioni d’osservazione dello spazio.
Così, anche quest’anno, l’istituto è stata autorevole sede della “Notte dei Ricercatori” e partner di “Frascati Scienza”, un’organizzazione costituita da tremila scienziati, otto istituti e ben tre università. A cominciare dal 25 settembre, per finire il 27, offrendo un programma davvero ricchissimo, mossosi tra sessioni di osservazioni dello spazio tenute da Gianluca Masi, del locale osservatorio “La Torretta”, mostre fotografiche su “Il lavoro dell’uomo e la natura” (foto e allestimento realizzati dai fratelli Angelo e Francesco Larocca), percorsi didattici, sbandieratori teatrali di Borgo Spante e, più in evidenza, conferenze. Queste ultime a partire da quella di Roberto Somma (dirigente di Thales Alenia Space Italia) sull’osservazione della Terra dallo spazio come strumento a supporto della sostenibilità del Pianeta; per continuare con quella accattivante del biologo marino Luciano Bernardo, che ha parlato dell’importanza dell’osservazione diretta nella sua disciplina, a partire dai tesori lasciati a riva dalle onde; fino a quella sui “Nuclei fondanti dell’apprendimento significativo”, lectio dello psicoterapeuta dell’Università di Tor Vergata Filippo Pergola.
A chiudere, il 27 settembre, le giornate – ormai lo si sarà compreso, virate sui temi dell’ecologia come scienza e sulla correlata sostenibilità planetaria – Salvatore Curcuruto, dirigente dell’ISPRA, sulle nuove tecnologie di illuminazione urbana LED e il loro impatto ambientale.
Tuttavia, anche quest’anno, mattatore dell’incontro, il 26 settembre, è stato senza dubbio Davide Giacalone (opinionista per RTL e di “Libero”) che, in anteprima sull’uscita in libreria a ottobre, ha presentato la sua ultima fatica “Senza paura. Per non perdere il bello di un mondo migliore” stampata per i tipi della Rubbettino (pagg. 296, 15.00 €). Tanto in anticipo, grazie alla tempestività di Larocca, da essere presentato allo stesso autore prima che l’editore riuscisse a fargliene avere copia.
Il libro, nato un po’ per caso a partire da considerazioni empiriche sulle conseguenze psicologiche della crisi economica ancora in atto sugli italiani, parte dalla ragionevole constatazione che “Scansati i tempi paurosi” del passato “ne abbiamo creati di impauriti” di cui la radice è “l’aspettativa che le cose possano andare peggio di come sono andate e di come vanno”, soprattutto per i figli. Una paura tale da cogliere, perché osservatore necessariamente coinvolto, anche il nostro autore sia pure, però, in un senso totalmente positivo se essa “salva la vita” facendoti “avvertire il pericolo, mentre la perde e rovina se induce a un tremore paralizzante” o trasformandosi in rabbia sociale. Di fronte a ciò, secondo Giacalone, bisognerebbe fermarsi a ragionare per essere più consapevoli.
Tuttavia, mentre la conferenza di presentazione a Villa Sora ha girato intorno a tematiche parecchio spinose, pure dal punto di vista del diritto, ma più circoscritte (ogm, eterologa ecc.) e in difesa della scienza dal pregiudizio e dall’accusa di nutrire appetiti faustiani sul nostro mondo, in realtà le pagine del libro aprono a problematiche ben più ampie, dall’economia e dalle politiche fiscali fino alla famiglia e al “declino del maschio”, dal problema immigrazione ai fondamentalismi (ben presenti anche in occidente) alla sovranità europea. Per esortarci ad aver la fibra di andare, seguendo una via pragmatica di ritorno alla realtà e di consapevolezza delle difficoltà, oltre i vuoti ottimismi o i facili, persino interessati, pessimismi. Certi che di fronte agli sconquassi della crisi che andiamo attraversando: “non ci aspetta il cilicio, per redimerci dal peccato, non è auspicabile alcuna stagione penitenziale. Ma neanche ci aspetta un’interminabile ‘happy hour’, nell’incoscienza dell’inutilità. E fortunatamente, perché la pausa, senza il precedente e successivo impegno produttivo, finisce con il somigliare orrendamente al vuoto”. Insomma, commentando Croce, scegliendo uomini sì onesti e integri, ma pure preferendoli “per capacità e forza realizzativa, altrimenti la vita collettiva si corrompe nella stagnazione e degenera nel declino. Che, se anche onesto, è ben gramo destino”.

 

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“Messo a tacere”: Quel Mundtot tra musica e impegno civile. Intervista a Marco Lenzi

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», domenica 24 agosto 2014.

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In Calabria, si sa, la ruggine non la fa l’acqua, ma le uova. E così, nel febbraio di un ormai lontano 1991, a un gruppo di giovani viene l’idea di lanciarne alcune su un circolino. È carnevale e la burla, pur sopra le righe, potrebbe finire là. Ma siamo nel reggino, nel comune di San Luca, e qua le cose tutti sanno come iniziano, ma nessuno può dire come vanno a finire. Un uovo colpisce la macchina sbagliata e nasce un litigio con tanto di spedizioni punitive. Durante una di queste ultime, un giovane aggredito si “spagna” e spara, uccidendo due persone e ferendone altrettante. E, di lì a poco, finisce per fare la stessa fine.
La Calabria, si sa, è un paradiso dove i diavoli sono di casa. E ci sono le ’ndrine, tra le quali il litigio deflagra: quella dei Pelle-Vottari e quella dei Nirta-Strangio. Dunque 1991, 1993, e poi 2005, 2006, 2007. Gennaio, agosto, persino a Natale: non c’è mese, non c’è giorno, non c’è luogo (San Luca, Casignana, Bovalino) che non possa essere quello buono. I conti si saldano. Affiliati, parenti, amici. Paga a chi tocca. Se non fosse che quello della ’ndrangheta è un mondo capovolto e sempre finisce che, al momento del saldo, il debito, invece di chiudersi, s’allarga.
La Calabria, si sa, è terra che alla storia bada poco, e però ha memoria radicale delle offese. Si chiama “faida”. Un termine, “fēhida”, che ha viaggiato nel tempo e nello spazio prima di avvelenare questa terra meridiana. Una radice alto tedesca, “fēh”, “nemico”, che già nella pronuncia ha l’urgenza di colpire: un’empia violenza che il diritto germanico cercò subito di mitigare. Tuttavia, le ’ndrine son caparbie, hanno saputo rendere la pratica alla sua antica, nuda ferocia. Riportandola ai suoi antichi inventori quando ormai non la conoscono più e ne sono indifesi.
Il “regalo” arriva a ferragosto a Duisburg, grosso centro nella Renania settentrionale-Vestfalia, all’uscita, pare, da una cena di compleanno consumata al ristorante “Da Bruno”. Fa sei morti con nessun risparmio di proiettili. La Germania si risveglia incredula di fronte a fenomeno che gli par nuovo, ma che i locali inquirenti già conoscono pur non concedendone spiegazioni.
Di tutto questo si accorge Jürgen Alberts, scrittore di gialli che, per i suoi libri, si è già occupato di crimine organizzato e di triadi cinesi. E come tutti, più di tutti, rimane scosso dalla strage. È allora che si convince a indagare meglio, incuriosito da un paio di articoli pubblicati in Italia che riportano le confessioni di Giorgio Basile sui riti di affiliazione alle mafie. E si tuffa in una ricerca che lo cambia.
Scrive Alberts: “Quando progettai di scrivere il mio libretto per ‘Mundtot’ – ‘Messo a tacere’ – dovevo trovare inizialmente una forma per una semplice ‘pièce’ teatrale – che si configurò come un processo giudiziario nel quale il testimone ‘canta’ e solleva il velo che copre il crimine organizzato”. Alberts legge “Gomorra”, si chiede come le mafie riescano a far soldi con i rifiuti (nel testo sono citati anche seicento barili di rifiuti tossici che la mafia avrebbe “smaltito” in Basilicata), quale sia il legame con la società civile, la loro capacità di resistenza alle intrusioni esterne. E, con un linguaggio semplice e diretto, “perché la gravità dei suoi contenuti è tale da non consentire al pubblico di venir distratto da esperimenti formali”, rivela alla Germania quanto pure la società tedesca possa essere permeabile alle mafie. E a noi come i tedeschi ci guardano.
Capita che a musicare il libretto sia chiamato un livornese, Marco Lenzi, che resta colpito dal testo, che nulla concede alla retorica e al compiacimento lirico nel racconto dialogato in dodici arie chiuse o “canti”. Pur nel sarcasmo cui spinge la denuncia morale. Musica che mai soffoca il testo, molto ben adattandosi, tra l’altro, alla cultura teatrale e al cabaret espressionista tedeschi, e impregnata di colonne sonore, di rock e di psichedelico o di moduli espressivi musicali ripresi dalla folk song, dal Lied (“Canzone tedesca”), dal rap, alternando canto, “Sprechgesang” (“canto parlato”) e voce recitante.
In Germania, la rappresentazione di “Mundtot” riscuote buona eco. Arnsberg, Bremen. E tuttavia accade che, in Italia, il testo non sia stato ancora rappresentato. Perché? Mistero. Che proviamo a dipanare proprio con Marco Lenzi, classe 1967, musicologo che ha al suo attivo diversi saggi e la prima monografia italiana su Morton Feldman. Le sue composizioni sono stati eseguite in Europa e Stati Uniti.

Inizio subito con la domanda che ti aspetti: chi ti ha contattato per questo lavoro e perché?

Dunque il lavoro ha avuto una lunga gestazione, conclusasi solo nel 2012. La prima telefonata la ricevetti, invece, nell’estate del 2008 da un carissimo amico livornese emigrato e che ha girato mezzo mondo prima di stabilirsi in Germania: Alessandro Amoretti, pianista compositore, collaboratore di enti lirici. Alessandro mi chiese se fossi stato disposto a musicare un libretto operistico, “Mundtot”, firmato da Jürgen Alberts, figura poliedrica di scrittore. Avrei dovuto scrivere l’opera per il 2010, anno dedicato alla cultura europea nella Ruhr; ma subito un rap (che poi è diventato la quarta aria dell’opera) perché potesse essere rappresentato a un festival del crimine a Unna (i “Krimifestival” sono là molto sentiti e coinvolgono artisti di varia estrazione). Dopo questa rappresentazione iniziai a scrivere mano a mano le altre musiche del libretto nelle sue successive versioni, anche perché i tempi erano, nel frattempo, slittati. E così la prima dell’opera fu rappresentata nel 2012.

Ti sei fatta un’idea di come guardino i tedeschi al fenomeno mafioso in relazione all’Italia a seguito della strage di Duisburg? Perché nell’opera non c’è solo uno sguardo fosco, ma anche punti e personaggi positivi: il PM, la “Baronessa coraggiosa”, la memoria di Fortugno…

Sì, è vero, è crollato un po’ questo castello folkloristico della mafia e del crimine organizzato italiano come nota locale, forse risibile, di colore. Dopo i fatti di Duisburg lo sconcerto è stato grande, così come il clamore suscitato. Non era più una questione di pizzo e questioni tra famiglie italiane. Sulla strada, davanti a tutti, c’erano morti ammazzati in tutta la loro tragicità. È venuta meno pure una certa idea di Germania, scopertasi più fragile, meno pronta ad affrontare certi episodi: la prima vibrata reazione alla strage fu quella degli italo-tedeschi.

A questo punto viene data la prima ad Arnsberg con ottima affluenza di pubblico.

La sala era piena. Curiosamente la rappresentazione è stata data in un tribunale, anche a scapito della capienza, problema cui si è sopperito dando ben due spettacoli in un giorno. Ma tutto questo ha restituito alla fine un effetto verità molto forte, rilevato tra l’altro dalla stampa, nonostante lì fossero state utilizzate solo basi musicali. A Brema, invece, l’opera è stata data in un teatro di prosa. Era chiaro che per quest’opera servissero cantanti attori e non cantanti lirici. Furono scelti quelli bravissimi, della Compagnia shakespeariana di Brema, con protagonista un italo-tedesco di Colonia Luca Zamperoni, che ha collaborato anche con Bob Wilson. Comunque sia, con pochi personaggi di un processo che recitano queste dodici arie chiuse, la forma è diventata più una musica di scena che un’opera. La sfida futura sarà quella di dare alla musica più peso, cioè con i dodici momenti messi maggiormente in evidenza e con il cantato a essere interrotto poche volte dal parlato.

Che riscontri hai avuto in Italia dopo la rappresentazione dell’opera?

Beh, l’opera è piaciuta molto, tanto da riscuotere il plauso di un Bob Wilson. Intanto un bravo regista livornese che è Emanuele Gamba pure l’ha ascoltata e si è dato molto da fare per diffonderla, ultimamente inviandola al Direttore artistico del Comunale di Bologna Nicola Sani, che però non ci ha ancora dato risposta. Sempre grazie ad Emanuele siamo andati vicino alla rappresentazione teatrale con attori del genere di Claudio Santamaria e Beppe Fiorello. Un altro amico l’ha fatta girare in Trentino. Però in Italia, a queste premesse entusiastiche, nulla è seguito. Pur ponendo mente al fatto che i budget per la rappresentazione sono davvero risibili e il testo è ispirato a tematiche forti. Forse ha giocato, tra le altre cose, la mia inesperienza (questa è stata la mia prima opera) o il mio scarso peso “politico” nel sistema dei teatri.

E nella tua città, a Livorno?

A Livorno la situazione è stata paradossale, perché il “Goldoni” sembrava davvero interessato alla cosa, potendo così “sdoganare” l’opera in Italia. La cosa buffa è stata che, all’entusiasmo iniziale, sono seguite richieste di riduzioni progressive dell’organico e continui aggiustamenti di budget. Mi resi disponibile a riorchestrare l’opera per cinque tastiere, dunque per cifre irrisorie, ma nonostante ciò mi fu proposto prima di spostare tutto alla “Goldonetta” e, infine, addirittura mi fu proposto di rappresentare “Mundtot” in quella che mi venne indicata come la “sala specchi” che era, in realtà, la sala prove del teatro, poco più di uno spogliatoio seminterrato.

La motivazione?

Perché avrebbe accentuato il carattere di modernità, indipendenza e eccezionalità dell’opera rispetto a quelle più “classiche” in calendario. Un delirio, per un unico atto di un’ora.

E a Sud, dove i tentativi per una rappresentazione di “Mundtot” potrebbero trovare alla stessa maniera entusiasmi o qualche complicazione in più?

Sarei molto contento se il Sud potesse dare una risposta diversa, positiva a quella che mi è stata data fin qui (dove qualcuno pensa che, in fondo, una certa parte dell’Italia dalla ’ndrangheta possa essere, forse, immune). Sono disposto a realizzare l’opera traducendo il libretto e adattandolo meglio al gusto italiano.
Per me, quella di Mundtot, è stata un’esperienza formativa, perché da compositore non mi ero mai misurato con i fatti della criminalità organizzata e, su un altro piano, con la forma canzone. L’opera mi ha consentito di allontanarmi dai registri sperimentali marcati che mi erano soliti; qua invece ho usato di tutto. Forse il modello inconscio più forte è stato quello dei Pink Floyd, il finale di “The Wall”, insomma, tirando fuori dei temi culturali che mi erano cari, ma che non erano mai entrati nella mia musica. È stato un lavoro che ha messo alla prova il mio modo di comporre, per la prima volta confrontatosi con temi così forti e concreti.

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Recensione a: Francesca Bonafini, Casa di carne (Avagliano, 2014)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata» domenica 20 luglio 2014.

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Come ha già evidenziato Nicola Vacca in un suo recente intervento, è importante chiedersi anche qui, quanto, prima di costruire la sua Casa di carne (Avagliano, 156 pp., 14.00 €), Francesca Bonafini abbia frequentato, attardandovisi, le Camere separate di Tondelli. Un debito forse ancora troppo forte sebbene, peraltro, tranquillamente riconosciuto dall’autrice fin dall’esergo, giù fino alla struttura dei capitoli ordinati per “attraversamenti” in luogo dei tondelliani “movimenti”. Pure con quella lucida attenzione per lo stile e per il ritmo della scrittura, e poi con il piacere tutto particolare di narrare e dipanare l’intima e misteriosa relazione tra vita e morte, che furono anche dello scrittore dell’emiliana Correggio.

Dunque Angela, la voce narrante del romanzo, vende la vecchia casa di campagna allo spirare della nonna, ma ancor di più dell’amore con cui l’ha tirata su dopo la perdita dei suoi genitori –morti anche loro, ma mai ben conosciuti – per sradicarsi a Trieste, sul suo molo, ad aspettare un segno dal mare. Un mare, l’Adriatico, che si rivela alla fine inadeguato, spingendo la protagonista a un lungo, inaspettato percorso che le farà attraversare tutta la Francia fino ad acque d’altura più adeguate al suo destino.

Angela è un’inquieta: “sono abituata a cambiare casa, cambiare città, cambiare per poi ritrovarmi a piedi in strade sconosciute e imparare a camminarci. Alla fine, scoprire che non ho capito niente e che ancora mi confondo”. E quindi, più che i confini, alla giovane trentenne piacciono i crocevia, lo spostamento sempre un passo più in là che è la frontiera, che è ciò che allo spazio si abbandona – ma che pure si porta con sé – e ciò che si guadagna. Ne è più di un sintomo stilistico l’uso dell’anacoluto, della continua rottura sintattica della frase; fratture, sfasamenti che però, adottati e ripetuti, mostrano quanto sappiano farsi anche regola in una scrittura godibile come la musica inesauribile dei murales di Haring. E del resto sillessi significa, in fondo, prendere insieme, unire: raccogliere tutto il passato e il presente e gli opposti lungo un percorso.

E tuttavia Angela è solo apparentemente una nomade, perché cerca sempre di rinnovare la sua radice di provenienza, cioè il prendersi cura totalmente e gratuitamente dell’altro, amando: “perché cadere innamorati, io dico, non c’è altro di meglio che possa capitare, cadere innamorati è una faccenda che smuove le stelle e i pianeti e produce soluzioni alternative alla devastazione, e rinnovamenti, e bonifiche medicamentose”. Amare, per Angela, è desiderare: “luci che sono lontane, volerle tirare giù, farle vicine, portarle a terra, toccarle con le mani, lasciare che si incarnino. Così non saranno più remote incorruttibili, ma fragili e mortali”. Può essere, allora, solo il conquistato oggetto d’amore la definitiva casa di carne che segna l’arresto di ogni erranza, la caduta di ogni confine. Come un vestito, abbandonato il quale si può procedere solo nudi e disarmati in una passione totale.

Si rivela così, nella scrittura della Bonafini, qualcosa che ci pare tipico dell’etica protestante. Certo non nel senso del dovere kantiano, ma in quello di intima, umana “gratitudine” in risposta a una “grazia” di derivazione divina. Non Legge, ma Dono. Perché c’è, nella sua protagonista, un’ascesi weberianamente intramondana, un monachesimo inteso nella sua totalità di aspetti amorosi: “se capita il miracolo del trac, allora dentro l’amore ci metto tutte le energie ma proprio tutte, così qualcuno potrebbe pensare che dopo son stanca e mi stufo o mi stuferò, ma io dico che a essere innamorati le energie fioccano come la manna da ogni dove…”. E questo amore senza maschere, senza infingimenti – leale anche nel caso di sopravvenuto disamore – non può che elevare la protagonista a essere il personaggio normativo che l’altro rivela nella sua incompiutezza a ogni attraversamento, a ogni crocevia.

Succede a Trieste con Miriam, l’irrequieta studentessa di tedesco che le traduce i versi d’amore che Rilke scrisse nella vicina Duino, e si innamora di Angela pur stando con Davide. Un amore che Angela accetta e consuma pienamente, ma che rivela di Miriam una bisessualità in fondo convenzionale sul versante etero: il paravento socialmente rassicurante dischiuso di fronte a un padre violento e a un fratello omofobo. Non resta, così, che la paura; e Miriam preferisce, almeno fino a quando non riuscirà a svelare a se stessa la propria natura, il ritorno da Davide.

Ad Angela non rimane che partire, lasciandosi alle spalle i versi di Rilke (che, sia detto qui per inciso, coraggiosamente firmò per l’abolizione del Paragrafo 175 del Codice penale tedesco che prevedeva pene detentive per gli omosessuali), ma anche la Trieste che fu dell’iniziazione amorosa dell’Ernesto di Saba e delle terrificanti repressioni omofobe ancora oggi conservate nella memoria di San Sabba. Un motivo in più che fa, della protagonista di Casa di carne, non una nomade, ma una rabdomante capace di percepire e lasciarsi trasportare, nel suo percorso, dalla potenza sorgiva delle letterature, specialmente di ispirazione LGBT, capaci di scorrere, come un fiume carsico, sotto la superficie di luoghi e città, costruendone il genius loci. Letterature e parole che, per la protagonista di Bonafini, sono il segno della forza del molteplice e del differente.

Eccola allora con Alessio, sul continente, in terra francese. Alessio l’amico spiccio, il musicista con cui campa alla giornata accompagnandolo nei bistrot parigini. Alessio che non vuole più amare, che diffida di ogni donna, perché una l’ha tradito e, in qualche maniera, per sempre inaridito. Eccola attardarsi a Étretat, dove dipinsero Bodin, Courbet, Monet e dove scrissero Flaubert, Maupassant e Maurice Leblanc. Fino a essere attratta, come un oscuro presentimento, da quella lingua di terra che è il Finistère (finis terrae) bretone, che aggetta, come un altro lungo molo nelle acque di piombo dell’Oceano. Mare, marinai, presagi di morte che pure furono la carne di un romanzo quale Querelle de Brest, di un giovane Jean Genet, e poi dell’omonima pellicola che chiuse la carriera del regista Fassbinder nel 1982.

È qui che Angela incontra Tiago, il marinaio, la definitiva casa di carne da abitare in un mondo nuovo come Rio de Janeiro. Un amore etero, quest’ultimo, anche se l’amante color cioccolata tanto somiglia a quell’insaziabile Bom-crioulo dello scandaloso scrittore Adolfo Ferreira Caminha, brasiliano. Un amore finalmente totale, disturbato solo dall’apparire del germano tossico di Tiago, Mateus, che porterà la storia di Angela al suo epilogo di morte, davanti a un mare che guarda al Portogallo come un ponte interrotto. Un personaggio – il misterioso, cinico, ferito Mateus – che è l’ombra scura di Angela. E forse anche della stessa Bonafini, se la sua forza è capace di condensare, in questo suo romanzo, anche alcuni temi o frequentazioni di sue precedenti prove, Mangiacuore su tutti.

Insomma, alla fine dell’amore non restano che fumo e vanità che spirano da una bocca marcia, senza labbra e senza denti. E nulla può restare, andare o ritornare se, dove la casa di carne ha poggiato e bruciato troppo presto il suo tempo, è un lembo estremo di terra improvvisamente scivolata nel gran mare della morte. Una fine che però salva l’amore – e il lettore – da ogni dubbio di sua finale consunzione, se le sue spoglie possono tornare alle stelle sulla groppa immortale delle letterature.

 

Bonafini Casa di carne

Ezio Taddei, lo scrittore dei poveri confinato a Bernalda. Oltre 60 anni dopo, il ricordo dell’uomo che cammina.

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 2 febbraio 2014.

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“Nessuno è profeta in Patria”. Vangelo. Destino tanto vero da esser toccato a Livorno, per lunga pezza, perfino allo scrittore Ezio Taddei, nato nel 1895 da famiglia agiata, precoce militante anarchico poi comunista, diseredato dal padre, per anni vittima della repressione fascista, confinato a Bernalda nella seconda metà degli anni ’30, poi profugo a New York dove non tardò a entrare in rotta di collisione con la mafia locale, scrittore dalla vita avventurosa e temeraria più di un Rocambole.

A risarcire in parte la dannazione della memoria toccata allo “scrittore dei poveri” ha provveduto, così, il circolo Arci “Al verde” del comune materano di Bernalda, con la presentazione del libro “L’uomo che cammina” edito, appena lo scorso anno, per i tipi della labronica Erasmo, a cura del prof. Giancarlo Bertoncini. A parlarne il 31 gennaio, una data importante per il comune lucano, è stato Angelo Tataranno, insegnante, militante PCI, assessore alla cultura e sindaco bernaldese fino al 1994, quando passò a occuparsi della Provincia di Matera in qualità di suo presidente. Tataranno già fondatore nel ’78 del Coordinamento Teatrale di Basilicata (CTB), prima associazione tra comuni per la promozione del teatro nella nostra regione; e poi animatore culturale e ricercatore di storia locale.

“Ezio Taddei ha lasciato a Bernalda, nei due anni di confino scontati dal ’36 al ’38, tracce indelebili della sua presenza” ci racconta, appassionato, Angelo. “Nonostante lo stretto controllo cui era sottoposto, riuscì ad integrarsi nella comunità locale stabilendo molte relazioni di amicizia. Cominciò col frequentare intensamente la bottega Vincenzo Dibiase, barbiere, collocata nella via principale del centro storico, che costituiva, in quell’epoca, un vero e proprio ‘circolo culturale’ frequentato da socialisti e qualche anarchico. Non a caso in quella bottega c’era sempre tanta gente, non sempre per servirsi del barbiere, ma per chiacchierare, per scambiarsi informazioni su tutto quello che accadeva in paese, e, spesso, per parlare, con molta circospezione, di politica. Del resto è noto come Bernalda rappresentasse tradizionalmente uno dei punti di più ostinata resistenza al fascismo delle origini, tanto da essere fatta oggetto, proprio il 31 gennaio del 1923, di una vera e propria spedizione punitiva che costò tre morti e una quarantina di feriti. Per quanto, in seguito, si tentasse di minimizzare quella brutta vicenda, nella popolazione più attenta e politicamente attiva se ne trassero analisi relative al fascismo. Nel 1948, l’amministrazione socialcomunista intitolò una piazza ai ‘Martiri del 31 Gennaio’ e, nel 1974, fu dedicata una lapide ai caduti di quella spedizione punitiva organizzata a Potenza dall’allora segretario del fascio, l’avvocato Sansanelli”.

“In quella stessa bottega Taddei ebbe modo di conoscere gli studenti dell’epoca, che frequentavano le scuole superiori a Matera, ottenendo da loro libri e giornali da leggere, e ricambiando con lezioni di greco, latino e matematica. Aver saputo successivamente, dalla sua biografia, che Ezio aveva frequentato, poco e male, solo fino alle elementari fu, dunque, per noi bernaldesi, una sorpresa straordinaria”. Evidentemente, come ha ben scritto Massimo Novelli, in carcere ci si poteva ancora istruire: attingere dagli altri compagni una più viva coscienza politica e, da chi più sapeva, imparare a leggere e scrivere, servendosi di un abbecedario clandestinamente scritto nelle celle, per terra, con torsoli di cavolo imbevuti d’acqua. Prontamente cancellabile, in caso d’ispezione. Domenico Javarone ha del resto rivelato il metodo scarno, ma di tutta efficacia, usato da Taddei con gli studenti bernaldesi: “Il tema è come una persona” gli spiegava “ha la testa, il tronco e le gambe; la testa piccola è l’introduzione, il tronco più grande è lo svolgimento, e le gambe, pure piccole, la chiusura”. Esortava, Taddei: “È così che devi scrivere, seguendo le cose una per volta…”. Faceva leggere Tolstoj e Dostoevskij. Dal canto suo, il livornese leggeva proprio di tutto. Aggiunge, ironico, Tataranno: “una volta, mentre si trovava in piazza Plebiscito, nei pressi del Municipio, e stava leggendo un giornale, un troppo esuberante milite fascista gli si avvicinò, gli strappò il giornale dalle mani e lo schiaffeggiò pubblicamente. Ezio Taddei non reagì. Aspettò che il fascista avesse finito per poi, con calma, chiedergli se sapesse leggere, perché quella volta stava sfogliando “Il Popolo d’Italia”.

Fu pure a Bernalda che Taddei finì per invaghirsi “di una bella ragazza, originaria di Ginosa. La relazione, ovviamente, fu furtiva e nascosta, non solo perché queste erano i costumi del tempo, ma soprattutto perché egli era un ‘forestiero’ e per di più confinato politico. La giovane ricambiò il suo affetto fino a quando suo padre, venuto a sapere della ‘tresca’, proibì in modo categorico alla figlia di continuare a frequentare ‘quell’individuo’! Ezio soffrì molto per questa vicenda, al punto da tentare il suicidio tagliandosi le vene. Fortunatamente l’amico Vincenzo, non avendolo visto a bottega quel pomeriggio, pensò di andare a casa sua, forzando l’ingresso per entrare. Lo trovò, riverso per terra, in una pozza di sangue, e lo soccorse come poté, in gran segreto”.

“In seguito” conclude Tataranno “tornò nel 1949” a Bernalda e a Pisticci, come ricorda lo stesso Taddei nel libro “La fabbrica parla” e come anche confermato da un filmato, oggi disponibile su You Tube (“Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato”, Regia di Carlo Lizzani), che lo ritrae in visita con altri dirigenti politici e sindacali a Matera. “A Bernalda fu accolto con festose manifestazioni di affetto da tutti quegli amici e compagni che aveva conosciuto durante il confino e che, in gran parte, erano diventati i locali amministratori del dopoguerra. Tanto che, nel 1976, l’Amministrazione Comunale gli intitolò una strada che sta ancora lì, a ricordarne il generoso impegno per la nostra gente”. Oggi Angelo Tataranno è al lavoro per ricostruire le vicende di Taddei a Bernalda. Come dire, un altro monumento.

Detto ciò, non ci si può nascondere che, però, recentemente, anche a Livorno, più di qualcosa è stato fatto per recuperare il ritardo della memoria. A partire dal convegno tenutosi lo scorso anno al Museo di Storia Naturale del Mediterraneo e promosso da Comune, Provincia e Istoreco (Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea, diretto da Katia Sonetti). Tuttavia, nonostante l’intervento, in quella sede, di importanti studiosi quali David Bidussa e il già citato Bertoncini, e nonostante la successiva pubblicazione di un’ulteriore raccolta di racconti intitolata C’è posta per voi, mr. Brown! (Books & Company, Livorno 2013) qualcosa è parso essersi parzialmente inceppato. L’impressione è che i duri attacchi a Taddei sferrati da un filologo dell’esperienza di Luciano Canfora, accusato di essere, in realtà, al servizio dell’Ovra, abbiano un po’ gelato gli ambienti labronici.

Si potrà tornare sull’argomento, ma per quanto riguarda Bernalda, rimangono forti le parole di Tataranno: “Qui in Basilicata giudichiamo le persone col metro della memoria di persone ancora vive, e per quello che abbiamo visto e vissuto direttamente. Per noi Taddei ha fatto molto, al di là di ogni suo limite personale. E su questo noi siamo chiamati, come comunità, a giudicarlo”. Il che – come ha recentemente ribadito David Bidussa (Fondazione Feltrinelli) in una sua polemica con Paolo Mieli sulla ricostruzione delle vicende del PCI di Ruggero Grieco e su Taddei – fa strame di un certo modo di vedere la storia da un ristretto buco della serratura oltre il quale paranoicamente resterebbero a muoversi esclusivamente i falsi, le spie, i doppiogiochisti.

Written by antoniocelano

febbraio 2, 2014 at 5:49 PM

Quelli che seguono le stelle. Francesco Larocca e i suoi telescopi.

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 24 Ottobre 2013.

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“Lucani nel mondo”, si diceva una volta. Ma anche “in Italia” – o, più in piccolo, nel Lazio – si danno parecchio da fare. Ad esempio Francesco Larocca, oggi a Frascati (Roma) docente di scienze dell’Istituto Salesiano Villa Sora, del quale riveste anche il ruolo di Vicepreside del Liceo Scientifico, ma lagonegrese DOC. Che, nel febbraio 2012, acquisendo ben quattro telescopi, ha avuto l’idea di fondare, con i suoi studenti liceali, il Gruppo Astrofili “Segui la Stella”. Così l’istituto – sollecitato da una didattica per scoperta, dove l’apprendimento sui testi poggia sullo studio diretto sul campo – si è fatto poi carico della ristrutturazione di una torretta con ampia terrazza annessa (già proprietà dei duchi di Sora) che, negli anni Venti del Novecento, era stato edificato appositamente per effettuare osservazioni astronomiche. Ma non basta, perché l’associazione organizza anche incontri con personalità del mondo scientifico quali Gianluca Masi, (astrofisico e curatore scientifico del Planetario di Roma”) o Roberto Somma (legato a Thales Alenia Space Italia), solo per citarne un paio. Ciliegina sulla torta, quest’anno la struttura è stata prestigiosa sede della “Notte dei Ricercatori” progettata da “Frascati Scienza”, un’organizzazione costituita da tremila scienziati, otto istituti e ben tre università.

L’osservatorio è oggi dotato di cinque telescopi specifici, sia per l’osservazione planetaria che per il cielo profondo, e uno esclusivo per il Sole (che rende possibile vedere le granulazioni, le protuberanze, le macchie e i brillamenti della nostra stella) ed è aperto anche alle famiglie degli studenti. Ogni sessione di osservazione è spesso preceduta da conferenze, alcune interessantissime, quali, dal 2012 a oggi, “Missioni spaziali per l’esplorazione di Marte”,  “Il Calendario Gregoriano. La riforma moderna del tempo”, “Lo studio della Geografia Astronomica nella Scuola. Come le nuove tecnologie possono rivoluzionare la didattica” e “Il rischio di impatto di asteroidi con la Terra”.

E così, sempre sotto l’egida e l’instancabile attività di Francesco Larocca, il 18 ottobre l’istituto è stato ancora una volta sede di un doppio appuntamento: la presentazione del libro di Davide Giacalone “Rimettiamo in moto l’Italia” (Rubbettino, 2013), e l’incontro con il già citato astrofisico Gianluca Masi, che ha parlato del quadro di Van Gogh “La notte stellata sul Rodano”.

Davide Giacalone è giornalista e opinionista, ma principalmente si occupa di internazionalizzazione delle imprese. Non a caso, il libro nasce dal bisogno di porre finalmente un argine all’autodenigrazione cui di solito si abbandonano gli italiani. In realtà l’Italia è un Paese dal corpo solido e di straordinaria inventiva, ma che gli italiani spesso dimenticano. Il problema è che non essere capaci di risolvere i nostri mali – soprattutto quello di pensare di poter ormai vivere a spese della collettività senza più il gusto della competizione – ci rende incapaci di riconoscere le nostre forze. Così la nostra vita collettiva dà il peggio, soprattutto in politica, con un deficit impressionante di classe dirigente, portando purtroppo il sistema nervoso nazionale vicino al tilt. E tuttavia, la crisi è solo un pezzo della realtà che abbiamo di fronte. Bisogna, invece, avere il coraggio di ritrovarsi; ritrovare quella capacità di navigare in mare aperto che richiede la nuova sfida che la concorrenza globale pone oggi.

Il legame della presentazione vangoghiana con le argomentazioni di Giacalone è stata offerta proprio dalla presenza di Stefano Masi, perché il suo studio, già apparso nel 2007 come un brillante risultato dell’eclettica e versatile creatività italiana, fu particolarmente apprezzato proprio dal Van Gogh National Museum di Amsterdam, in Olanda. Con buona pace anche delle odierne convinzioni su certa limitante divisione dei saperi umanistici e scientifici.

Uno studio, quello su la “La notte stellata sul Rodano”, che ripercorre uno dei temi più in voga in questo primo scorcio di secolo, in ambito artistico e letterario: il rapporto dell’autore con la realtà. Dunque, Van Gogh, allora in Provenza, riproduttore emotivo o dal vero – meglio: dal vivo – del cielo? E con quale consapevolezza astronomica? Ebbene la rappresentazione artistica del Grande Carro sulla tela ha permesso a Masi, in realtà, di stabilire data e orario del gesto pittorico (le 23.15 del 25 settembre). E ciò a differenza di tanta pittura “realistica” più attenta alla riproduzione luminosa del firmamento che alla sua precisa resa spaziale. Il fatto si rivela, così, capace di svelare l’eccezionale passo stilistico dell’artista olandese, perché il Gran Carro, dal luogo dove è dipinto (Arles, verso Sud-Ovest) non può essere nel campo visivo. Dunque, di qui, nuovamente, l’irrompere della potenza desiderante e stravolgente il dato realistico con un paesaggio cui è sovrapposto un cielo altro (come con occhi bifronti già modernissimi e furiosi e ribelli a invertire l’orizzonte, scompaginandone le geometrie), e tuttavia ritenuto l’unico degno di essere rappresentato da Van Gogh come cielo.

Recensione a: Lilli Gruber, Eredità (Rizzoli, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» domenica 11 novembre 2012.

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La prima mail a darmi l’allerta via Facebook è quella sibillina di Vincenzo Pagano, fratello di tutta un’infanzia: “L’hai letto l’ultimo della Gruber?”, mi scrive dal paese. “No, non l’ho letto. Perché?”, gli faccio di rimando, e magari sarò risultato un po’ secco, ma in fondo francamente demotivato dagli ultimi due o tre sonori “pacchi” (più o meno romanzeschi) rimediati dall’ultimo giornalista di grido. Però, insomma, è successo che nel suo ultimo lavoro, ”Eredità” (Rizzoli, 360 pagg., € 18.50), Lilli Gruber ha parlato di Castelluccio e dunque la lettura del libro mi s’impone. Ma mentre cerco di capire cosa c’entri il paese dove sono nato, e come, con la notissima giornalista Dietlinde Gruber, detta Lilli, mi raggiunge un post dell’amico Sproviero che mi indica il dibattito in rete che intanto s’è avviato, e alla cui fonte trovo, infine, Giuseppe Pitillo, vale a dire uno che la memoria del nostro paese prova attivamente a tenerla in vita e – scopro con piacere – con un ruolo anche nella redazione delle pagine di “Eredità” più interessanti ai nostri fini. E alla fine va così, che vado in libreria quasi fisicamente sospinto dalla curiosità di una comunità dalla quale dovrei essere geograficamente e spiritualmente, ormai, piuttosto distaccato. Invece.

Invece quel richiamo che, a un certo punto, deve aver riconosciuto forte anche la cosmopolita Gruber – mi dico – se, al culmine di una riuscita carriera, si sente di scrivere un libro che ripristina i legami, anche intellettuali, con la sua Heimat (malamente traducibile con “patria”), esaurite le lunghe insofferenze giovanili per le tradizioni della sua terra e per certa “retorica patriottica che in Sudtirolo”, dove è nata nel 1957, è spesso sfociata “in aperto nazionalismo”. E dunque, se “Eredità” non può dirsi propriamente un libro di storia, ma un saggio dedicato alla memoria e al “recupero di un’eredità familiare e culturale” che appartiene all’autrice, però con la storia – la storia tormentata di una terra di confine (un tema, questo, di grande modernità) – fa i conti. Soprattutto con il “passato che non passa” di un Novecento che pare a volte davvero essersi consumato con l’ansia veloce di una sigaretta: per ogni vivace bagliore, fumo e cenere. Un passato da cui si enuclea la verità presente di un Sudtirolo complesso e stratificato (radici germaniche, apporti italiani, infine globalizzazione) cercato dall’autrice tra le pieghe vive della sua esperienza, attraverso un giudizio che direi appassionato quanto distaccato, attento alla storia e al quotidiano.

Mi pare, allora, che l’età dell’autrice non sia oggi necessariamente quella dei sopralluoghi nostalgici, ma quella che ci chiarisce un Sudtirolo alla prova degli anni cruciali del Secolo breve. Un trentennio segnato, nel libro, da due figure femminili dalla forte personalità: ribelli (ognuna a suo modo), caparbie e fortemente legate alle loro identità e terra. Sono la bisnonna di Lilli, Rosa Tienfenthaler e la prozia Helene Rizzolli, detta Hella. Figure entrambe, direi, della crisi. La prima, proprietaria terriera, le radici ottocentesche legate alle lealtà patriarcali dell’impero austro-ungarico liquidatosi, prima, nel trauma irrimediabile della sconfitta con l’annessione all’Italia del Sudtirolo; colpito, poi, quest’ultimo, dalla becera italianizzazione imposta dal fascismo. La seconda, legata a un futuro che guarda al passato, alle nuove speranze di ricongiungimento alla patria dei sudtirolesi, ma polarizzate questa volta dal liberticida Reich nazista: illusioni presto impantanatesi tra le pieghe di uno sciagurato patto tra regimi totalitari. Figure, dunque, entrambe, della crisi – dicevo – così come di una percezione del confine e dell’identità come casa, ma pure nostalgia, resistenza e attrito di fronte agli inevitabili rovesci della storia. Direi pure alternative a personalità più defilate nel racconto – Berta Rizzolli, ad esempio, o gli stessi genitori di Lilli – che denotano, invece, una più spiccata attitudine a vivere l’identità del confine, pur senza svendite, come permeabilità positiva, contaminazione, anche sfida, conoscenza della differenza, opportunità. In un Sudtirolo, oggi, comunque molto cambiato.

Ma riprendiamo le fila: dunque, Castelluccio Inferiore. Ma cosa c’entra? C’entra, perché proprio la repressione e la pesante offesa alla memoria di un territorio perpetrate dai fascisti (alle quali, in seguito, si salderanno le ristrettezze economiche imposte dalla crisi del ’29) finiscono per creare delle decise reazioni che spingono molti sudtirolesi tra le braccia del pangermanesimo hitleriano. Certo con imbarazzi, pericolose contraddizioni e qualche diffidenza tra i due alleati che, alla fine partoriranno la scellerata soluzione delle “Opzioni”. Ma pure con una mal riposta forza di illusione sulle reali intenzioni di riannessione naziste (giocheranno qui anche le false speranze suscitate del referendum per il ritorno della Saar al Reich), che scrive davvero una brutta pagina sulle compromissioni del Sudtirolo con il nazionalsocialismo, su cui la Gruber – va detto – non fa sconti di sorta. Nemmeno nei riguardi della sua prozia Hella che è, dal canto suo, arrestata l’8 gennaio 1938 come attivo agente anti-italiano e anti-fascista e incarcerata insieme a detenuti “comuni”, in questo caso prostitute – pratica (con alterni risultati) adottata, tra l’altro, da tutti i regimi totalitari, dalla Spagna franchista all’URSS stalinista, per umiliare e fiaccare la resistenza dei “politici”. Giunge, infine, la decisione del regime di comminare cinque anni di confino alla giovane attivista nazionalsocialista. Una condanna esemplare, che possa servire da esempio agli altri militanti sparsi per la Bassa Atesina, dove Hella opera politicamente.

Così, sulle tracce di Helene, confinata in Lucania dal 19 maggio al 18 novembre del 1938, la Gruber giunge a Castelluccio nell’agosto di quest’anno. Scrive l’autrice appena in paese: “Ho immediatamente la sensazione che quasi nulla sia cambiato da quando, settantaquattro anni fa, Hella si è ritrovata qui, al confino, mille chilometri a sud della sua casa di Pinzon”. Il che, se per un verso mi pare un’affermazione di accorata suggestione sul filo della propria riallacciata memoria, per il resto mi lascia perplesso, se dà l’impressione di scivolare verso certo “levismo” o fascinosa cartolina dell’immoto paesino-presepe, in contrasto o in accordo (ma non è questa la sede) con quell’invalidante scostamento della forbice modernizzante – buche nelle strade e odiosi viaggi in treno inclusi – che la Gruber individua tra dato oggettivo e personale fastidio, che è poi il complesso gioco tra termini assoluti e relativi del cambiamento del Sud rispetto ad altre italie.

Ma Hella? La Gruber ne ricostruisce i mesi della permanenza grazie alle lettere indirizzate alla famiglia conservatesi dal confino e grazie all’aiuto ottenuto sia dal citato Giuseppe Pitillo che dall’ingegnere (con il vizio della storia locale) Biagio Aiello. La Rizzolli è posta in pensione al numero 294 di via Roma, e rubricata, con tipico contorsionismo linguistico, come “casalinga”. “Perla” di imbarazzo ideologico cui ben fanno seguito altri errori e svarioni a carico dell’inefficiente macchina burocratica fascista, senza contare le molestie notturne dei tutori della legge che si assicurano, così, il rispetto del coprifuoco da parte della confinata. Pure, al di là di tutto questo, complessivamente il rapporto di Hella con Castelluccio rimane, pur registrando continui miglioramenti, piuttosto contrastato. Certo, gioca un “vero e proprio shock culturale” patito al suo arrivo, che Hella condivide con altri confinati, non solo sudtirolesi, di cui si sono potute ricostruire le vicende. Con in più le ipocrisie di qualche locale delatore; il contrasto con la nuova padrona di casa; la necessaria incomprensione di certi costumi per oggettiva mancanza di informazioni storico-culturali. E tuttavia si percepiscono nella Rizzolli anche connaturate rigidità di giudizio che la spingono ad alcune affermazioni francamente ingenerose, quasi fossero generate da una più complessiva inadattabilità all’ambiente o da una provocatoria interpretazione a tesi. Rigidità però sempre sorprendentemente compresenti, nel giovane “spirito ribelle” e temerario, alla capacità di cogliere con grande intelligenza e capacità descrittiva caratteri e ambienti che ci restituiscono pagine gustosissime e ironiche che sono come istantanee ancora vive del nostro “come eravamo”. Il resto lo fa il tempo, la progressiva comprensione che il fascismo regime – che nel Sudtirolo mostra monolitico la sua faccia più oltraggiosa e aggressiva – a queste latitudini è un totalitarismo sì fanatico e violento, ma pure inadeguato e disorganizzato, tanto che due sorelle di Hella, Berta ed Elsa, per farle visita e portarle i saluti della madre, Rosa, riescono ad attraversare tutta la Penisola senza suscitare alcun sospetto. Del resto Hella non è per nulla una donna fredda e lentamente, pure sollecitata dalla naturale socievolezza dei Castelluccesi, a sua volta inizia a coinvolgersi con quegli italiani alla fine abbastanza diversi, per indole, da quelli che vanno conculcando così ferocemente la libertà nella sua terra. Possono nascere, così, anche belle amicizie di cui la più forte resta quella con “Rita Lauria, di dieci anni più grande, sposata col signor Conte”, con cui trascorre molta parte delle giornate (rimpinzandosi di fichi, magari, o seguendo la spremitura dell’uva coi piedi) e che, prendendosi cura di Hella, riesce così a mitigarne molte comprensibili ritrosie, permettendole di mostrare i lati più solari del carattere. Certo suscitando (nemmeno i Castelluccesi sono perfetti) qualche gelosia, ma anche il riguardo da parte del podestà Ernesto Catalano. E le pronte attenzioni di qualche locale giovanotto (e non solo!). Ma sembra un attimo, perché la vulcanica, coraggiosa e geniale Berta riesce rocambolescamente a far revocare il confino alla sorella addirittura da Galeazzo Ciano. Risparmiando, così, più di quattro anni di ulteriore pena a Hella che, interrotta quell’esperienza e tornata a casa, resterà ancora del tempo in contatto con la signora Rita.

Ora, chiuso il libro, si potrebbe persino desiderare che Hella, forse, avrebbe potuto rimanere di più: conoscerci meglio, farci conoscere meglio (curiosi di natura come siamo) il suo mondo. Sicuramente, molti, a differenza di lei, giunti in cattività costruirono qui la loro libertà. Ma amiamo troppo la nostra terra per non comprendere che altre migliori, se non la sua, non avrebbero potuto esistere. Del resto, mi pare difficile anche pensare a Hella Rizzolli se non come a una di quelle persone massimamente libere solo se massimamente avvinte alla loro radice. Pensiamo sempre la libertà possa dirsi nomade; spesso invece ci sorprende, se porta con sé il nome di una mistica Heimat.

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novembre 12, 2012 at 2:21 PM

Recensione a: Daniela D’Angelo, Catalogo dei giorni felici (Salvatore Sciascia Editore, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 30 settembre 2012.

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Si susseguono con un passo piano e tuttavia intenso i versi d’esordio che Daniela D’Angelo consegna alle pagine della raccolta “Catalogo dei giorni felici” (Salvatore Sciascia, 56 pp., 6.00 €). Passo di chi abbia prima amato senza cercare ripari – senza “più nulla da stringere, / nemmeno un talismano” –, appena dopo decantando l’esperienza nella precisione elegante del verso, in una parola che è già di maturità, di sopravvenuta intelligenza delle contraddizioni che sono la natura necessariamente fugace della felicità: una “coda scintillante” di volpe intravista su un sentiero nel bosco.

E dunque “catalogo” (ma anche sforzo di individuarsi in un punto topografico certo nella difficile geografia del vissuto) e non “elenco” dei giorni felici; che è certo raccogliere ed enumerare esperienza, ma pure ragionarla, sempre col rischio, cioè, che lo sguardo con cui si coglie un sentimento o un desiderio sia quello del pomeriggio, con una luce ancora accesa, e tuttavia bifronte, già punta dal sospetto malinconico della disillusione, che fruga noiosa “a vuoto dentro il piatto” promettente del mattino, la testa già alle trappole e alle buche (anche della quotidianità) in cui ci si è, a volte, malamente cacciati. Tanto da farci temere che quella felicità e quell’amore, pure senz’altro vissuti, siano stati invece lo scorrere illusorio di una pellicola mai impressa, o sbiadita: “Cominciare le letture da finire / finire col guardare vecchi film / tenere un catalogo dei giorni / in cui succede poco, / quasi nulla. / È il catalogo dei giorni più felici / a tenerti compagnia lungo la sera. / L’album delle foto che non hai / per ricordarti la vita che non c’era”.

E nondimeno, bifronte, la luce resta però ben prima anche delle nostalgie della sera, delle paure della notte, dei rigori dell’inverno, che può diffondersi, così, con una raggiunta serenità interiore nuovamente capace – si è detto – di conciliarne le incoerenze e gli accidenti, magari più persuasa di una navigazione “alla greca”, vigile alla costa e attenta al prossimo scoglio: “Giro il foulard azzurro / tre volte intorno al collo, ti do le spalle / e sorrido calma. // C’è un passo sulla soglia / che manca il precipizio, / c’è un modo per andarsene / che promette già un ritorno”.

Daniela D’Angelo è nata a Trapani, ma dal 2001 vive e lavora a Roma come editor e ufficio stampa di una casa editrice. Salvatore Sciascia (www.sciasciaeditore.it), invece, ci conferma ancora una volta quanto, per la poesia, le dimensioni editoriali siano sempre più inversamente proporzionali al coraggio di pubblicare. Purtroppo.

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ottobre 1, 2012 at 3:46 PM

Lettera al Quotidiano della Basilicata

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 10 Ottobre 2011.

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Nuova classe di amministratori per i piccoli comuni lucani

Di recente si sono susseguiti una serie di interventi sull’adeguatezza della politica e della classe dirigente lucana chiamata a innalzare i propri standard di intervento o a chiudere con certo disdoro un ciclo politico, rimettendo in tal maniera ai soliti noti il saldo salato dei costi di una crisi epocale. Dico classe dirigente in senso lato, considerato il clima di ulteriore sfiducia ingenerata nel cittadino lucano da avvenimenti sul genere dello scandalo Fenice, già divenuto il classico ginepraio fatto di omertà, scarichi di responsabilità e incompetenze di cui ogni giorno leggiamo.

Certo, in questo clima, è difficile prevedere se un certo mondo politico riuscirà ad autorigenerarsi (in mancanza d’altro all’orizzonte), come si attende Di Consoli, oppure, come auspica D’Agostino, saprà spiegare, con l’aiuto di un manipolo di impavidi, la tormentina necessaria per navigare il mare tempestoso della crisi (e desistendo, dunque, dalla distribuzione di incarichi a marinai più adatti a noiose e autoreferenziali bonacce portuali).

Però non vorrei, restando in metafora, che tenendo sotto controllo la cattiva circolazione arteriosa del malato, lo si perdesse per non aver badato a quella venosa, magari nel frattempo altrettanto bloccata. Una circolazione, quest’ultima, costruita sugli stretti rapporti tra società, amministrazione e politica in quella che è la Basilicata diffusa e dispersa dei medi e piccoli comuni.

Comuni che ci hanno dato prove di virtù civilmente battagliere, come fu per Scansano nel 2003 e per Rapolla e Melfi fino all’anno successivo. Ma pure contraddizioni socialmente scioccanti, come certi risultati comunali dell’ultimo referendum su nucleare e acqua pubblica o certe acquiescenze rispetto ai guasti ecologici portati dalle trivellazioni. Luci accese, luci spente. È dalla fine delle Guerre Sannitiche che il lucano non sa ancora decidersi per le furie guerriere o per la (troppa) pazienza contadina. E a volte, un mese prima del confronto elettorale, il basilisco si agita come una bambola spiritata, per poi (come se avesse un tasto nascosto) abbandonarsi al sonno fino alla successiva tornata.

Insomma, non si può che auspicare, per usare le parole di D’Agostino, che la tormentina abbiano il coraggio di aprirla anche i lucani. Recuperando, cioè, uno spirito modernamente battagliero di una società altrimenti latitante e l’apertura a un nuovo atteggiamento di vigile attenzione alla dimensione politica. Magari smettendo di pensare che in una situazione nazionale e internazionale come questa ci si possa limitare a lasciare la nave in balìa del mare, vale a dire tirando la quotidiana carretta, tentando di sopravvivere nel proprio piccolo. Invece la politica e l’amministrazione vanno ben scosse. Il voto è necessario, ma non sufficiente.

Ed è la società lucana che deve dire a se stessa, finalmente con verità, se abbia lasciato crescere una classe dirigente locale spesso inadeguata e incompetente purché foraggiasse inconfessati appetiti individualistici e calcoli familistici. Oppure se non sia altrimenti capace di esprimere dal suo interno una qualsiasi nuova dirigenza. E dunque se, nel primo caso, voglia darsi ancora una speranza rispetto alle onde che arrivano ormai a squassare il ponte o, nel secondo caso, alzare le spalle e ascoltare ancora per un poco i musicisti sul Titanic. Io credo che, dopo i dovuti mea culpa, l’asticella la si possa alzare. Penso che la società lucana possa pretendere da sé un po’ meglio, partorendo una classe politica finalmente diversa, che non sia l’area di parcheggio per trombati o incapaci di risolvere la vita altrimenti. È una cosa difficile, richiede del tempo, ma per fortuna non siamo in una sfera di immutabilità antropologica, ma in quella della stortura storica. Dunque emendabile.

E amministrare un comune non è per nulla facile, è noto. Ma vale ancora la pena di mantenere la barra su rapporti socio-politici che sono, nel migliore dei casi, la soddisfazione di un famulo, l’elargizione di una pensione, un pezzo di acquedotto, un lavoro di rifacimento? Altrimenti discariche a cielo aperto, buchi di bilancio paurosi, malversazioni di ogni tipo, giunte nate per continuare a coprire i dissesti di quelle precedenti.

Che questo genere di inadeguatezze, poi, fossero strutturali alla maggioranza della classe politica locale (salvo eccezioni) lo si è paradossalmente capito proprio con quei comuni che, invece, hanno potuto beneficiare di insperati maggiori introiti o possibilità di sviluppo e dove le risorse si sono sovente rivelate superiori alla quantità e alla qualità delle idee.

Va ovviamente compreso perché è stato così. E mi pare che si sia abbandonata troppo decisamente la vecchia, sana abitudine del meridionalismo classico di guardare e giudicare il contesto con strumenti socio-politici, piuttosto che esclusivamente economicistici.

Un’impostazione, quest’ultima che, riducendosi a considerare il Mezzogiorno una variabile dipendente da movimenti e decisioni economiche di natura esclusivamente esterna, contò di conseguenza su un intervento straordinario (fino al ’92) nel tentativo di innescare un qualche ciclo virtuoso di crescita. Invece, oltre agli innegabili risultati – e sapendo che anche ora dagli attuali frangenti la Lucania non può uscirsene da sola – si favorirono pure formidabili anticorpi proprio allo sviluppo infrastrutturale locale, rinforzando il pervertimento e la pervasività della politica nella società e foraggiando un ceto culturalmente povero, specializzato, più che a ben amministrare, ad accompagnare, controllare e gestire il flusso di danaro dal centro alla periferia (ovviamente con flussi diventati gocce). Come scriveva Trigilia: “qui più che altrove i politici hanno goduto di tanto consenso ma di poca legittimazione; hanno avuto cioè un consenso basato sulla capacità di soddisfare continuamente domande particolaristiche più che un consenso fondato su identità allargate e valori condivisi”. Insomma, “non avendo un consenso di tipo ideologico alle spalle, la classe politica locale” a ogni livello “ha usato tali risorse per interventi particolaristici e clientelari”. Tutto ciò con pesanti ricadute sulle comunità locali, rafforzandone, in un quadro di arretratezza economico-culturale, una storica tendenza alla questua, alla richiesta più o meno risolutiva della propria condizione individualistica o familiare (prova ne sia che, sia pure in un quadro di sviluppo debole e con una scarsa fornitura di servizi, il reddito medio e i consumi aumentarono). Ovviamente nell’incapacità comune di società e politica di andare oltre lo stimolo pavloviano, di immaginare mondi più progressivi e vivibili qualitativamente, magari affrontando per tempo i problemi con criterio, interessandosene con coraggio, abbandonando i vincoli costrittivi di comunità ma pure trasformandoli in valori e solidarietà condivisi.

E ora che i nodi inerenti un possibile decentramento amministrativo non si sono sciolti, ma anzi avvitati su se stessi non sostenendo adeguatamente uno sviluppo di forze endogene che promuovano scelte economiche positive? Ora che una crisi internazionale di proporzioni bibliche sottrae fondi e impone tagli dal centro rendendo la casta politica sempre più nervosa, sempre più tentata di rinchiudersi dentro le torri dell’autoreferenzialità e del privilegio? Ora che siamo di fronte a una costrizione della spesa senza rilanci produttivi e dei consumi?

Chi non si sentirebbe i piedi slittare nel vuoto? Tutto vero. Pure si abdicherebbe alla politica se, non si capisse che questa anomala condizione porta con sé anche inaspettate opportunità. E cioè che venga innanzitutto fuori una società locale capace di imporre alla politica uno scatto, ma anche capace di controllarne i passi.

Questo coraggio, oggi, è possibile. Basti guardare, ad esempio, a quegli spezzoni di società civile quali associazioni e movimenti che si sono impegnati a fondo nell’ultima tornata referendaria, molto di più di tanti esponenti e militanti dei tradizionali partiti politici. E, chi era a Grassano giorni fa, mi pare abbia ben registrato, con Di Consoli, l’esigenza profonda di “più società, meno politica”. Il che equivale a dire meno palazzo. Ci sarebbe bisogno, infatti, di una nuova classe di amministratori. Onesti non basta (l’onestà è solo il palleggio). Invece capaci di visioni disinteressate, capaci capire soprattutto i bisogni inespressi di una società, capaci di capire dove portare con passione una terra, di progettarla con rigore in uno sguardo che incateni il quotidiano al disegno complessivo. E poi ci sarebbe bisogno di una società capace di guardare al di là del proprio naso, che non si riduca a sopravvivere individualisticamente, che usi gli strumenti di democrazia per sospendere il voto dato, alla meglio, al meno peggio. Capace di smettere quel grigio ridurre e ridursi alla delega quotidiana in bianco (figlia storica, questa sì, di lunga pratica con poteri anche localmente deresponsabilizzanti).

La visionarietà non è, intendiamoci, fare i ponti di Messina (in Lucania ne abbiamo intere collezioni), ma è certo smettere di pensare che la sommatoria di piccoli passi amministrativi disarticolati possa essere in sé positiva. Sapere dove si va, insomma, oggi dovrebbe essere più importante. Il progetto complessivo (che subordina a sé il programma) è l’unico che possa dire dove chirurgicamente tagliare, dove poter promuovere, dove poter attingere eventuali nuove risorse. Si tratta di avere idee su uno sviluppo finalmente radicato e complessivo. Consultandosi. Cioè uscendo fuori dalle angustie del paesello, mettendo in rete, quella reale dei rapporti socio-politici, gli sforzi (non ci vuole mica Tremonti per leggere, in maniera costrittiva, quella che è la possibilità dei comuni di concertare collettivamente lo sviluppo invece dei tagli smettendola, magari, di azzannarsi anche per un mattone sul confine).

Utopie, si dirà. Ma, in alternativa, l’appiattimento su questo esistente? L’utopia è, l’ho già detto altrove, un carattere normativo della realtà. Una terra verso cui navigare, senza mai approdare o naufragare. Una terra, tuttavia, il cui mare chiede di essere costantemente solcato. Altrimenti, la terra che invece abbiamo sotto i piedi, quella per cui badare concretamente al giorno per giorno, potrebbe definitivamente affondare.

Recensione a: Giacomo Sartori, Cielo nero (Gaffi 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 9 ottobre 2011.

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Si ritaglia come la ribalta di un vecchio teatro d’avanguardia Cielo nero (Gaffi editore 2011, 224 pp., 16,00 euro), ultimo romanzo di Giacomo Sartori: una sedia, un letto, una padellina di alluminio per il thè, una tazza. Poi, solo poi, una stufa da tenere costantemente accesa, a sottolineare un gelo inestinguibile, il grigio dell’ambiente. Il luogo è il carcere veronese degli Scalzi, il tempo l’autunno del ’43: la guerra finita che continua. Nelle celle un pugno di protagonisti della storia del Fascismo in disgrazia. Il più importante è Galeazzo Ciano, prigioniero dopo aver votato contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo il 25 aprile e accusato di alto tradimento.

A perdere, come vorrebbe Giulio Ferroni, anche lo stile. Scabro eppure intenso, drammatico senza che mai si incontrino, lungo le trentadue scene che compongono il libro – fasi salienti tra il 20 ottobre del 1943 e l’11 gennaio del ’44 –, momenti di caduta o di bassa tensione. Un’asciuttezza, tra l’altro, che non può ingannare, se la narrazione poi si scopre ricca di una stratificata complessità, pur nella forzata, claustrale fissità del tempo, che la guerra scarnifica in quel buco nero della sopravvivenza che può essere il presente. E che tuttavia follemente, scompostamente, tenta di ribellarsi a se stesso, nella ricerca di un respiro in più, di un futuro sotto un cielo nero. Sempre suscettibile di accartocciarsi per un nonnulla o per un nonnulla animarsi di risorgenti speranze che immancabilmente rivelano, anche queste e sempre con maggiore durezza e violenza, il lastrico delle illusioni su cui scoprono di dibattersi.

Il romanzo di Giacomo Sartori non può ascriversi, dunque, al genere storico classicamente inteso, fatto com’è di scene e atti spesso non collegati da un filo narrativo diacronicamente rintracciabile, ma che va appunto per quadri. E la verità e la rigorosa documentazione storiche, utilizzate per tratteggiare il contesto e le figure di Ciano e di Edda Mussolini, poi si lasciano contaminare dall’invenzione letteraria, non nella ricostruzione di figure, ma nello sviluppo di personaggi che deve servirsi, come ha dichiarato lo stesso autore, di “intuizione e sensibilità” perché possano prender vita.

Pure, per certi versi, in Sartori lo sguardo profondo dello storico resta. Lo rivela Felicitas Beetz, la giovane spia inviata a carpire, nella sua cella, i segreti dei diari di Ciano da servizi segreti nazisti animati da chissà quali recondite brame di conoscenza, di controllo o diplomatiche. Infine illusioni anche quelle. Ma che ci danno la possibilità di guardare, con l’occhio dei tedeschi, Ciano e i gerarchi italiani. Rivelando al tempo stesso, come sempre in questi casi, molto dei giudicati, ma anche dei giudicanti. In un’osservazione relativa (in una verità relativa) che è tipica dello storiografo, ma anche sempre coinvolta e partecipata del personaggio se è vero che, sotto lo sguardo prima sprezzante di Felicitas, è già in atto la fascinazione, l’innamoramento per l’italiano.

Strana talpa questo personaggio femminile di Sartori che, attraverso il coinvolgimento sentimentale, sollecita la propria memoria, quelle di Ciano e di Edda, rintracciando così la sua e l’altrui dimensione psicologica e sbucando poi in quella collettiva, storica e politica. Una lettura di storie nella Storia o, meglio, la costruzione di una poetica “dell’individuale dentro il collettivo”, come brillantemente l’ha definita Roberto Antolini sul quotidiano “L’Adige”.

Ed ecco dunque Felicitas innamorata di Ciano, innamorata di un uomo “egoista, incostante, infedele, molto vanitoso, sprezzante, dispotico, vendicativo, a volte implacabilmente crudele”. Eccola a contatto con l’irresponsabilità fatta potere e il potere ridotto a esercizio familistico, assente di principi, dimentico del Paese, dimentico delle decisioni – anche gravi – prese il giorno prima, che si rappresenta problemi più grandi di quel che sono, sminuendo invece quelli che non sarebbero assolutamente da sottovalutare. Eccola alle prese con una sorta di codice genetico dell’italica politica, di un carattere nazionale degli italiani di cui tanti storici hanno voluto rintracciare la genesi proprio in un 8 settembre 1943, che è quel vorticoso dissolversi della presunta coscienza nazionale italiana. Caratteri che non evitano, tra l’altro, di muovere anche al ridicolo se il tentato suicidio di Ciano naufraga nella farsa, se il suo sussulto di dignità contro il regime risulta non solo ormai tardivo, ma basato sul calcolo sbagliato di rifugiarsi – come scrisse Indro Montanelli in una delle sue ultime “Stanze” pubblicate sul “Corsera” – proprio presso il suocero e Hitler, contando “sul familismo italiano, il quale ammette che in famiglia ci si tradisca, ma esclude che ci si ammazzi”.

E tuttavia Felicitas è innamorata anche di un uomo che, sorprendentemente, le cambia la prospettiva con cui guardare alla vita proprio nella sua fragilità, nella sua premura, nella sua imperfezione, nell’odore di morte che ormai promana. Anche nel risvolto della medaglia del suo tardivo fare retromarcia di fronte alle scelte del regime. Scelte che lui stesso ha contribuito a prendere, ma poi realizzando che ci si possa essere ingannati rispetto a un ventennio e alla firma di un Patto.

In Galeazzo, Felicitas Beetz ritrova e protegge, a rischio della sua stessa vita, il risorgere della propria tormentata coscienza affettiva e sentimentale, rivalutando infine quei rapporti familiari e interpersonali che l’ideologia ariana ha distorto con i suoi deliri e i suoi rituali di purezza germanica. La figura di Galeazzo si confonde, così, con il riemergere di un doloroso rimosso. Una pena angosciante, quella della Beetz, sepolta sotto il continuo esercizio di autocontrollo impostole alla Lega delle giovani tedesche e conclusosi con l’attiva partecipazione alla costruzione del Leviatano nazista: un primo padre artista (quasi profetico nei suoi disegni bui e scuri), oppositore del regime, morto suicida; l’evanescenza della figura materna; un patrigno dispotico che ne abusa e che viene alla fine scacciato dalla figura di Kurt, il biondo Kurt, che però non esita ad assegnare Dieter, il proprio fratello, al programma di eliminazione per handicappati, prima di morire ligio al richiamo del regime nazista in guerra.

Felicitas ama Ciano anche nella consapevolezza – nell’eventualità di una sua fuga o salvezza – che la dimenticherà come una delle sue tante amanti per correre subito da sua moglie Edda e dai suoi figli, senza il sostegno dei quali nulla sarebbe. Edda che ruggisce, che spera di salvare suo marito contro il volere del padre, ormai non si sa se più schiavo dei tedeschi o del suo stesso psicodramma. E che in questo ruggire s’illude che i diari di Galeazzo possano qualcosa, rappresentandosi una realtà che è completamente solo nella sua testa.

Mai come con il fascismo e il nazismo la realtà di tutti è stata permeata di delirio, di allucinazione, di disumanità. E a questo punto ci pare che la lezione di Sartori sia quella dell’inanità dell’individuo contro i frangenti troppo più grandi che alle volte la storia solleva. E tuttavia, se la storia ruota quasi del tutto intorno alla figura maschile di Ciano, pure ci sembra che la ribalta sia tutta dei disperati personaggi femminili di questa storia, capaci di incarnare un amore passibile, all’occorrenza, anche di definitivo sacrificio. Uniche capaci di accendere un cerino per non maledire del tutto l’oscurità calata sulla speranza di un mondo in guerra, uniche capaci di lasciare ancora un seme sul terreno indurito dal ghiaccio.

E tuttavia Galeazzo Ciano sarà fucilato l’11 gennaio 1944.

Giacomo Sartori, agronomo, vive tra Trento e Parigi. Ha pubblicato racconti e romanzi, tra i quali “Tritolo” e “Anatomia della battaglia”, tutti tradotti in francese. È redattore del blog letterario e culturale Nazione indiana.

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ottobre 10, 2011 at 10:25 am

Recensione a: Pierre-Joseph Proudon, Contro l’Unità d’Italia: articoli scelti (Miraggi, 2010)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Maggio 2011.

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L’Italia federalista di Proudhon

‘Contro l’Unità d’Italia’, scritti del filosofo nel volume curato da Biagini e Carteny

Guardando alle manifestazioni relative ai centocinquanta anni dell’Unità italiana, una cosa è sicura: che in merito, più di aver bisogno di celebrazioni, avremmo avuto bisogno di profonde e prolungate riflessioni. Tuttavia, si sa, ogni commemorazione finisce per risentire del clima e – direi – dello stato di salute intellettuale del momento che, già da un po’ di anni a questa parte, non sta certo giovandosi di tersa aria d’altura. E così abbiamo seguito commemorazioni spesso storicamente piatte e culturalmente asfittiche, ma soprattutto orientate dalle ansie e dalle paure politiche del momento, con il protagonismo della Lega Nord a inibire o distorcere ogni serio dibattito storico su quante lacerazioni la Penisola abbia vissuto al momento della sua unificazione attorno al corpo del vecchio stato sabaudo. E dunque peana a Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele più di uno spot tv. Ma poco, ben poco, su brigantaggio e questione meridionale, sui movimenti autonomisti isolani, o ancora sui contrapposti modelli amministrativi “prefettizio” e “regionalista”. Poco o nulla, insomma, su uno dei delicati passaggi di quel fare gli italiani che è passato attraverso le spinte e le richieste dal basso per la decentralizzazione. Un certo modo di insistere sull’Unità e sui suoi personaggi più popolari che, lungi dal dimostrare la forza di un concetto, rivela semmai con quanta poca convinzione oggi ci si accinga a sostenere un’idea piuttosto bistrattata.

Stante così le cose, non si può che plaudire, allora, al coraggio della casa editrice Miraggi di Torino per aver dato alle stampe – curato da Antonello Biagini e Andrea Carteny (rispettivamente presidente e segretario del Comitato di Roma dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano) – alcuni articoli scelti del francese Pierre-Joseph Proudhon riuniti sotto il titolo “Contro l’Unità d’Italia” (128 pp., 16,00 euro).

I primi due interventi “Mazzini e l’unità italiana” e “Garibaldi e l’unità italiana”, entrambi scritti a Bruxelles rispettivamente il 13 luglio e il 7 settembre 1862, furono raccolti nello stesso anno nel volume “La fédération et l’unité en Italie” (pubblicato a Parigi dal libraio-editore E. Dentu). E tuttavia forse sarebbe stato meglio aggiungere anche il terzo pezzo che confluì nel libro, quel “La presse Belge et l’unité italienne” troppo frettolosamente liquidato come “legato maggiormente a argomentazioni di interesse belga” e del quale, almeno i capitoli centrali, dedicati alla “Question italienne” e alla “Question papale” potevano essere utilmente proposti al lettore. Così come si sarebbe potuta chiarire meglio la scelta di inserire nel volume della casa editrice torinese la lettera al redattore capo del “Messager de Paris” intitolata “Nuove osservazioni sull’unità italiana” e che, scritta il 10 dicembre 1864, costituisce con “Del principio federativo” del 1863 uno dei risultati più maturi della riflessione del rivoluzionario francese.

Ma l’interesse per il volumetto pubblicato dalla casa editrice torinese resta altrove. Innanzitutto nello spiegarci che, ben prima del ’48 e almeno fino al ’61, per la maggior parte dell’opinione pubblica italiana (dai nobili al clero, dall’alta borghesia fino ai ceti medi e piccolo borghesi) la soluzione per l’unificazione fosse eminentemente federalista (o confederalista) e non centralista, come poi ebbe però modo di realizzarsi. Avevano operato a lungo nella formazione di quella opzione dapprima il pensiero neoguelfo e liberale giobertiano e poi la pragmatica concezione delle “piccole patrie” di Cattaneo, non senza che si passasse attraverso pensatori quali Cesare Balbo, Durando, Montanelli, Ferrari ecc. Non a caso nell’agenda politica di quei tempi l’ordine del giorno era una nuova “lega italica” possibile alla luce delle unioni doganali già realizzatesi tra stato Pontificio, granducato di Toscana e regno Sabaudo. Tanto che lo stesso trattato di Plombières, sottoscritto da Cavour e da Napoleone III, aveva previsto l’unione dell’Italia costruita su quattro stati: un’Alta Italia sabauda, un’Italia centrale, il Lazio pontificio, il Regno delle Due Sicilie (un escamotage che avrebbe dovuto, tra l’altro, nei progetti dell’imperatore, facilitare la solita assegnazione familistico-nobiliare delle corone, così pure per indebolire la crescita di un altro possibile stato antagonista ai confini della Francia).

Lasciava propendere per un’unificazione su base federalista anche la struttura geografica e politica dell’Italia, con la presenza di una miriade di comuni e di città accesi della loro autonomia. Spiega Proudhon – peraltro ben ispirato sull’Italia dal fedele amico Ferrari – “chi dice impero in Italia dice protettorato… un potere che la protegge e non la comanda… Ma più gli italiani sentono il bisogno di questo protettorato, più ne diffidano, sapendo perfettamente che, in politica, colui che protegge è il padrone”. E più avanti, riguardando acutamente alla storia: “l’Italia è in perenne antitesi con l’unità; essa contrappone senza posa impero, monarchia e papato nell’interesse delle sue franchigie, e cerca… in questo eterno antagonismo, una sintesi impossibile. Più di ogni altra cosa, l’Italia tiene alle sue libertà regionali e municipali: essa è federalista e non lo nasconde”. Un tratto caratteriale positivo – salvare la propria autonomia giocando sulle frizioni tra papato e impero sempre coinvolgendoli ed eludendoli a un tempo – in seguito pervertitosi, proprio grazie alla burocratizzazione dello stato unitario, nei mille malfunzionanti localismi odierni.

Il federalismo di Proudhon era di matrice socialista, mutualista e tendente il più possibile a dividere i poteri dello stato. Per il francese l’unità su base nazionale, ponendo un problema politico accentratore, nascondeva in verità “che ciò che costituisce la patria è il diritto, assai più che gli accidenti del suolo e la varietà delle razze” invece agitati dai “finti democratici” per evitare di guardare ai gravi problemi sociali del loro tempo. “In tali condizioni”, scrivono Biagini e Carteny, dopo il crollo dell’anello debole costituito dal regno borbonico “la stabilizzazione non poteva non realizzarsi attraverso la ‘conquista regia’ e l’annessione al Regno di Sardegna: il Regno d’Italia… era giuridicamente un ampliamento del Regno di Sardegna”. Dunque senza alcuna spinta emancipatrice popolare dal basso (le masse diseredate, la stragrande maggioranza degli italiani, non avevano quasi contezza del concetto di “Italia”. È noto che, quando gli insegnanti piemontesi furono trasferiti in Sicilia per l’educazione all’Italia delle nuove generazioni, vennero scambiati per inglesi), l’unità si sarebbe rivelata presto un giochetto “bancocratico” e autoritario fatto dai borghesi per favorire i borghesi.

È dunque anche su questo ultimo punto che si consuma lo scontro con Mazzini, Garibaldi e la loro impazienza rivoluzionaria per la mancata annessione al giovane regno di Venezia e di Roma (e che porterà all’episodio di Aspromonte). Appare insomma chiaro, dopo il sussiegoso ritiro dell’appoggio di Mazzini a Vittorio Emanuele a causa di ciò, il tentativo del primo di non perdere la faccia dopo le patenti compromissioni con la corona sabauda (sorretta in guerra, per giunta, contrariamente al credo mazziniano, da armi straniere e, per giunta, filo-papali). Con un inasprimento rivoluzionario di facciata dimentico del pressante problema di organizzazione dei ventidue milioni di italiani già inglobati nel regno, così mortificando e subordinando di fatto la realizzazione rivoluzionaria della repubblica al disegno conservatore dell’unità sabauda.

Un’impazienza che avrebbe travolto anche Garibaldi sull’Aspromonte, un Garibaldi verso cui comunque Proudhon nutrì certamente più rispetto: “Un mese fa Garibaldi era la più grande e nobile personalità d’Italia; cosa resta di lui ora? Cosa resta del suo partito? Pallavicini ha dimostrato… che se Vittorio Emanuele lo voleva, ne era padrone. In tutta questa vicenda un solo uomo è rimasto in piedi, Mazzini, colui che ha preparato l’impresa, che non ha contribuito in nulla alla sua realizzazione e che ha ancora il coraggio di lamentarsi dell’inettitudine di Garibaldi. Povero Garibaldi!”.

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Tanto sfortunato quanto tenace

Senza libri né dizionario è l’unico allievo a seguire le lezioni scalzo

“È la prima volta che vedo il mirabile polemista. La testa di questo Franco-Conteo mi ha vivamente colpito. La fronte è magnifica, l’occhio cristallino e profondo, ma duro. L’insieme della fisionomia ha qualcosa di brutale e di astuto al tempo stesso. Egli ha prodotto su di me un’impressione imponente e sgradevole che non è stata attenuata dalla sua parola rapida, rauca e tagliente. Mi pare che ci voglia del tempo per abituarvisi e per nutrire simpatia per lui”. Questo il ritratto di Proudhon lasciatoci dalla penna del futuro comunardo Gustave Lefrançais. Un volto dai tratti sussiegosi e tenaci, forgiatisi nelle ristrettezze e nelle prostrazioni della Francia post- napoleonica; tratti tuttavia sempre accesi di un’intelligenza potente, penetrante, avida fino al limite dell’ingordigia.

Un volto della storia e del mito, quello di Pierre-Joseph: eletto deputato dopo i moti rivoluzionari del ’48 (ma ne è subito deluso); fondatore di una “banca del popolo” con denaro imprestato senza lucro, poi fallita; condannato più volte per gli attacchi a Luigi Napoleone di cui subito comprende, nonostante alcune ambiguità, le mire che lo porteranno a farsi proclamare imperatore di Francia; instancabile redattore di giornali politici; scrittore caustico, abilissimo polemista, autore, nel 1840, di una delle opere fondamentali del socialismo, quel “Che cos’è la proprietà?” opera scandalosa come quante altre mai nella sua tesi di fondo (“è un furto”), denunciata da un liberalismo vincente, ma incapace di ogni riforma sociale. Della classe sociale che lo incarna Proudhon, infatti, non s’illude: per la sua “medietà” la borghesia non ha uno spirito di governo, cerca nel sistema costituzionale solo maggiori garanzie conservatrici, ma all’occorrenza resta pronta ad aggrapparsi a un qualsiasi “salvatore per ristabilire l’ordine, ovvero l’ineguaglianza che le è necessaria”.

Insomma, Proudhon, chi era costui? Pierre-Joseph nasce nel 1809 in un quartiere popolare di Besançon, quinto figlio del vignaiolo e bottaio Claude-François, uomo di rigida onestà, che non manca di rovinarsi rifiutandosi di lucrare sul prezzo dei prodotti della sua birreria. La madre, Cathérine Simonin, è invece donna energica, di grande fierezza, figlia di un popolano sempre in rivolta contro le angherie dei signorotti locali. Il piccolo Proudhon è presto consegnato ai lavori rustici e al pascolo delle vacche a Doubs, venti chilometri lontano da casa, dalla nonna.

Mai stato fortunato Proudhon, anche a dispetto della sua erculea forza di volontà. Nel ’42, pur di poter conversare con il suo amico Bergmann, percorre a piedi 80 leghe (una lega di posta corrisponde a circa quattro dei nostri chilometri) solo per scoprire che dal giorno prima non è più nella città dove lo cerca. Ma le avversità lo sferzano ben prima. Già nel 1820 entra, grazie a un amico di famiglia, nel collegio della città natale, diventandone uno dei migliori allievi. Scrive di quegli anni: “Mancavo abitualmente dei libri più necessari; feci tutti i miei studi di latino senza un dizionario; dopo aver tradotto in latino tutto ciò che mi forniva la memoria lasciavo in bianco le parole che mi erano sconosciute e riempivo poi i vuoti alla porta del collegio” imprestandosi i libri. È l’unico allievo a seguire le lezioni scalzo, dopo aver lasciato i pesanti zoccoli di legno alla porta, perché fanno eccessivo rumore. Ma la fortuna – se possiamo chiamarla così – gira presto e nel 1827 deve abbandonare gli studi per le solite difficoltà economiche, impiegandosi come correttore e compositore di bozze. Più avanti gli muoiono un fratello nell’esercito (misteriosamente, ma forse a seguito della scoperta di una malversazione di un suo superiore) e la figlia prediletta Marcelle, di colera. Di quest’ultima sciagura scrive lapidario in una lettera del 1854: “È così che la sorte punisce le nostre vanità”.

Legge di tutto accanto agli estratti rimastigli delle opere regalategli dal collegio, che è stato costretto a vendere tra le lacrime della madre. Nulla pare piegarlo. Quasi medianicamente ispirato (“Non sono padrone della mia parola, il mio stile ha qualcosa di strano che disorienta i lettori, sono lo strumento di una forza oscura e tirannica che non posso né contenere né regolare”) trova modo di imparare l’ebraico semplicemente correggendo un testo con traduzione, studia la teologia, la linguistica, vive acutamente i fatti economici e politici del suo tempo, legge l’utopista Fourier. Ben presto si scopre ateo. E socialista.

Eppure, nel 1865, anno della sua morte, Proudhon pare aver perso ogni sua battaglia. Del suo progetto di prestito senza interessi agli operai s’è detto. Con Marx, che ne oscura la stella, non segue miglior fortuna. Dopo l’iniziale amicizia, tutto li divide: la dialettica (per Proudhon resta un sistema aperto, antinomico, senza “sintesi” finale), il concetto di proprietà (Proudhon, almeno in un primo momento, elimina la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma non elimina la proprietà «di fatto», quella che chiama «possesso»), quello di plusvalore, la funzione storica dello stato (le implicazioni anarchiche del suo pensiero saranno sviluppate in seguito dal russo Bakunin). Li separano persino le reciproche ingenerosità. Non basta. Convinto federalista, Proudhon vede realizzarsi sotto i suoi occhi il sogno unitario-annessionista dell’Italia. Spesso, come per la questione belga, è ampiamente frainteso. Nel ’64 scrive con amarezza: “Ho la testa debole, il corpo colpito, il petto come una piaga, la bocca bavosa, il cuore pieno di amarezza. Non mi resta che l’affetto degli amici, senza il quale chiederei di morire”. Si spegne un anno dopo.

Ma – vendetta? ultima beffa della sorte? – tutta la fortuna di Proudhon è postuma. O quasi. Perché i suoi contemporanei già lo conoscono, per nulla a torto, come il “Grande presbite”. Predice con molto anticipo, s’è visto, la parabola di Luigi Napoleone. Nell’Unità italiana individua con precisione le debolezze costitutive che ne metteranno diverse volte in difficoltà il processo evolutivo. Nel 1840, circa ottanta anni prima della rivoluzione bolscevica, ha già denunciato il possibile carattere regressivo del comunismo. Scrive nel 1846 con lucidità impressionante: “Dopo aver soppresso tutte le volontà individuali, il comunismo le concentra tutte in una individualità suprema, che esprime il pensiero collettivo… Così, per il semplice sviluppo dell’idea, si è inevitabilmente portati a concludere che l’ideale del comunismo è l’assolutismo. E vanamente si potrebbe prendere come scusa che questo assolutismo sarà transitorio: se una cosa è necessaria un solo istante, essa lo diventa per sempre, la transizione è eterna”.

Pensieri che, fuori dagli ambienti libertari, iniziano a riprendere terreno, in Italia, a qualche anno dalla rivolta di Ungheria, grazie a Franco Ferrarotti. Nel 1978 è Bettino Craxi a servirsene per il suo “Nuovo corso” in un documento pubblicato su ”L’Espresso” con cui inizia la manovra di attacco al centralismo democratico del PCI. Seguirà, un anno dopo, una più articolata dissertazione di Luciano Pellicani nell’introduzione al proudhoniano “Del principio federativo”, non a caso edito a cura delle edizioni Avanti!

Ma già nei primi Ottanta, gli anni della “Milano da bere”, dei contenuti propositivi della svolta craxiana-libertaria rimane ben poco: non il coinvolgimento delle classi lavoratrici nei processi decisionali, non “la diffusione del potere”, non “la distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita”. E del resto, sulla “socializzazione dei valori della civiltà liberale”, su cui Craxi finirà per avvitarsi, Proudhon ha già posto la sua pietra tombale. Il francese fa accapponare la pelle più di una centuria di Nostradamus quando mette altrettanto in guardia da una civiltà e da “un’esistenza piena fino all’orlo di delizie, ma la cui aridità non lascerebbe più spazio ai sentimenti.

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Lettera al Direttore Paride Leporace sulla lettura in Basilicata

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Maggio 2011.

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Caro Paride,

come ben sai lavoro in editoria da un po’ e, sia pure con un poco di ritardo e dopo qualche esitazione, non mi dispiace confrontarmi con l’indignato garbo della Signora Rosaria Scaraia sul “Quotidiano” di qualche giorno fa. Benché, sia bene inteso, l’argomento – la lettura dei libri in Basilicata, regione fanalino di coda in questo genere di maggiore o minor amena attività –, io lo affronti ormai solo con l’ottimismo della volontà, ché la ragione ha qui già da tempo buttato la spugna.

Dunque, riassumendo velocemente: per la Scaraia lascerebbe l’amaro in bocca scoprire che “i dati contenuti nel report pubblicato dall’Istat rivelano che l’anno scorso solo un lucano su tre” ha letto un libro “per il piacere di farlo (e non per ragioni di studio)”. E sconcertante “scoprire che, due famiglie su dieci, di libri in casa non ne hanno neppure uno”. Ed è la realtà, non discuto. Soprattutto a fronte del legame tra istruzione e reddito medio territoriale che la Scaraia individua come ragione di uno specifico ritardo locale sul tema.

Però a questo punto, io mi chiedo: è davvero una specificità quella lucana o in Lucania è solo più approfondito un abisso comune? E non dico di fronte ad altre regioni meridionali, ma pure rispetto a quelle con più alto reddito. Insomma il meccanismo istruzione/reddito si rivela davvero così meccanico? Ho i miei dubbi. Non lo affermo ovviamente perché la Lucania possa così trovare un’utile foglia di fico (non so quanto larga, del resto) alle sue “insopportabili” mancanze (che restano dunque mancanze da emendare), quanto perché il declino della cultura del libro in Italia è generale. Certo più marcato al Sud, ma comunque assai diffuso. Perché il problema non è solo nell’analisi quantitativa del dato, cioè il rapporto spesa/libro, ma va oltre, fin nel suo vero nocciolo malato, cioè il rapporto libro/lettura.

Signora Scaraia, se lo lasci dire da uno che vive le magnifiche sorti e progressive della civile e avanzata Toscana, che si fa le fiere letterarie e librarie a Roma, a Torino, a Pisa e altrove. La gente che gira interessata (intendo il lettore medio) poi è sempre la stessa. Una minoranza importante per la sopravvivenza del libro, ma spesso pure ombelicale, autoreferenziale, e di cui ho imparato anche a diffidare, perché spesso si incaponisce a leggere libri alla “Firmino” e ad autorassicurarsi che “leggere è bello” e che “il libro non finirà mai” in saecula saeculorum. Invece, faccia la prova: se regala a un compleanno un libro (non solo a un giovane e se non già bulimico lettore) il festeggiato la guarderà quasi sempre con stampato sulla faccia un mal dissimulato “ecchene n’antro!” dove per altro dovrà necessariamente intendere “lo sfigato di turno”. Figuriamoci sostituire o accompagnare con un bel volume la “busta” da consegnare a una felice coppia di nuziandi: apriti cielo! e giù familistica riprovazione fino alla settima generazione!

La verità è, invece, opposta, ché in Italia, mica solo a Potenza e Matera (anche se ci ingegniamo sempre a fare peggio), si è consumato ormai storicamente il distacco definitivo tra produzione di benessere e produzione di cultura. Ma ce lo vede “il modello vincente” Briatore a pubblicizzare la lettura?

E poi, anche se così fosse? Le case dei lucani, come del resto dei meridionali, sono piene di libri e enciclopedie vendute negli anni ´60-´70 dai commessi della Fabbri, della Laterza ecc., e comperati in un momento in cui oltre alle pentole e agli aspirapolvere c’era una minima capacità di spesa anche per un po’ di carta stampata. Certo, non c’era la volontà di leggere in chi s’era appena elevato economicamente al rango di piccolo-borghese inurbato, però forse c’era la speranza che i figli potessero farlo in vece loro prima o poi. Che calcolo sbagliato! Ché invece i figli se ne sono andati e per loro, per i genitori del “Boom”, non poteva che finire com’era iniziata, perché in Italia la Lettura è sempre stata scritta con la L maiuscola, come la Cultura con la C grande, ammettendo già con questo tra le righe che trattavasi di roba maneggiata dai galantuomini per fottere il prossimo oppure attività dal significato oscuro e di nessun interesse. E dunque, certo in non tutti i casi, considerato il modello così alto (LA CULTURA) doveva finire così: che i Libri potevano continuare a farsi le cose loro (arredo e status) nei soggiorni buoni e, di lì, a sviluppare muffe. E, del resto, i tardi lettori in erba iniziato poi lo “sboom”… ma sì, chi tiene tempo?

Non parliamo del contributo della scuola d’antan: un romanzo, una poesia? roba buona per riassumere o per mandarla a memoria a forza di girare attorno a un tavolo fino a sfinimento (ricordiamo ancora i “Riassumi!”, i “Tema!”, i “Ripeti!: La Vispa Teresa avea tra l’erbetta…”, degli scolastici sketch stralunati e non-sense di Cochi e Renato?). Come non disamorarsi e averci sulle balle Carducci, Manzoni e Omero e poi, per riproduzione di spiacevole sensazione introiettata, evitare la lettura autonoma di un Pagliarani, di un Pirandello, Svevo, Moravia, Patti?… Ma se io, per aver citato Pasolini, beccai uno dei miei più memorabili cinque in un compito scritto di italiano con professoressa che tra un sonno e una “Corona” di Rosario, vecchia com’era, ricordava pure con orripilata indignazione di aver fatto scuola con il sovversivo Riviello?

Certo non tutto è perduto, ad esempio, se si pensa all’aumentato numero di lettrici in Italia. Ma soprattutto se ci si darà da fare ancora e meglio. Però i coupon da spendere in libri, da soli, sono come l’alfabetizzazione informatica in Basilicata: non basta cioè comperare i computer a tutti, anche al contadino o al sessantenne, perché questo, in un momento, metta a frutto le potenzialità dell’ordigno. E le potenzialità sono oggi già di più se, proprio grazie al collegamento Internet, posso essere messo in grado di comprare quel libro che la totale mancanza di una rete di librerie sul territorio mi impedisce.

Parliamoci chiaro, Signora Scaraia, in realtà non le sarà sembrato, ma io sono con lei: io non leggo solo i dati Istat, ma pure quelli AIE (Associazione Italiana Editori) e le dico che, secondo me, la nostra generazione è quasi del tutto perduta alla lettura e, per certi versi, alla cultura. Pensi solo quanto sia arretrato il nostro italico e romantico “vissi d’arte” usato da tutti gli scrittori (migliaia) che inondano le case editrici di manoscritti (migliaia) senza nemmeno aver letto due libri in vita loro.

I forti investimenti che la Regione e le Province devono fare (ma ci vogliono dei bei “dindini” Signora, come si dice in Toscana) sono per la fascia di lettori oggi più diffusa e potenziale: i preadolescenti e gli adolescenti (e oggi son pure pochi e dunque che si investa e poche chiacchiere!). E devono essere investimenti tesi mica solo a favorire l’acquisto dei libri: ben altre idee creative ci vogliono, ben altre sfide per i nostri locali politici, ben altri circoli virtuosi tra istruzione scolastica sostenuta per l’obiettivo libro, lettura dei giornali, visite alle fiere, uso di internet, piccoli corsi su cos’è un libro e come si legge, premi per i più piccoli, incontro con gli scrittori, ecc. Si ha bisogno, insomma, di quello che si potrebbe denominare la “creazione di un sistema lettura” sollecitando tra i giovani un interesse che poi, la fascia generazionale investita, avanzando d’età, potrà lasciare come speranza alla generazione successiva (creando dunque anche qui un circolo virtuoso) prima che ogni interesse si spenga. Non a caso è assodato che ci siano più possibilità che scatti l’interesse per la lettura nel bambino che a casa vede leggere. Sottolineo: non il bambino che contempla libri-soprammobile e tendenzialmente intoccabili (“ché si sciupano!”), ma che vede leggere attivamente un quotidiano, un libro ecc. Infatti qui non si tratta solo di acquistare un libro, ma di giungere alla consapevolezza che il libro è o uno strumento tecnico per imparare (non solo a scuola) oppure un modo (parlo di romanzi e poesia) per accedere a una qualche notizia del mondo, a un’esperienza di vita, a una nuova e più fresca visione delle cose che possa rinnovarci, renderci più ricchi, più aperti, meno provinciali. E ciò vale per la carta o l’e-reader che dir si voglia.

Ho parlato poco prima di speranza che si possa recuperare una generazione alla lettura: perché un interesse non si sa mai se, perché e quando possa o meno scattare (è nota di Pennac, ad esempio, la non gloriosa carriera scolastica), ma questo non deve esimerci dall’attivarci per tentare ogni strada con l’obiettivo di favorire alla lettura, alla cultura, un contesto più propulsivo, altro, alternativo all’egemonia della società dello spettacolo in cui siamo immersi fino al collo.

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Written by antoniocelano

Maggio 30, 2011 at 8:22 am

Recensione a: Luigi Bernardi, Niente da capire (Perdisa Pop 2011)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 27 Marzo 2011.

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Tredici storie senza mistero

La svolta critica di Luigi Bernardi

“All’inizio del 2010 capisco che il giallo e il noir, narrazioni che ho tanto amato, sono ormai una caricatura di loro stesse… Non è un’abiura. Ho lavorato tanto perché le scritture di genere ottenessero successo e stima, adesso che hanno conquistato le classifiche di vendita, scendo dal carro dei vincitori e inizio una nuova battaglia”. Questa la forte dichiarazione di Luigi Bernardi, padre del noir italiano e maestro di molti scrittori ascritti al genere giallo (e dintorni), resa a Stefania Nardini per il settimanale “Scritture & Pensieri”.

Titolo dell’intervista, eloquentissimo: “Il noir? una truffa”. Titolo del libro presentato dall’intervista, altrettanto eloquente: “Niente da capire” (Perdisa Pop, 2011, 144 pp.). Soprattutto perché dovrebbe trattarsi di un noir. In realtà perché è un libro di grande qualità al di là del genere. Genere che, anzi, Bernardi mira a depotenziare, oggi così legato al successo e agli incassi del largo consumo, eppure mai così estenuato, senza più sugo. Un genere fatto preda di trasmissioni televisive famelicamente alla ricerca di audience, tanto da “fictionalizzare” tragici fatti di cronaca, calati a bella posta in paranoici viluppi al limite dell’inverosimile o del ridicolo. Dove si aspetta che una dichiarazione o una ricostruzione possa aprire finalmente a chissà quali nuove verità, in realtà continuando ad aggiungere particolari inutili. Arrovellandosi su moventi e su “perché” inattingibili che regolarmente svergognano i deliri di onnipotenza della Scientifica (ideologicamente covati nelle fiction tv), l’ultima dichiarazione dello psico-criminologo alla moda o un’indagine male impostata fin dall’inizio.

Luigi Bernardi scrive, invece, “Tredici storie senza mistero” (questo il sottotitolo del libro) che sono tanto meno misteriose quanto più, in alcuni casi, somigliano a casi conosciutissimi di cronaca quali ad esempio quello di Erba (“Lei ringhia oltre la parete”) o di Perugia (“Hillary aveva sonno”) dove si sono spesi fiumi di analisi e futili chiacchiere. Storie costruite con uno stile “a perdere”, asciutto, essenziale eppure sempre con un’anima. Ché, con tutta evidenza, Bernardi ha frequentato cucine di scrittura somiglianti a quelle della sua infanzia a Ozzano dell’Emilia e poco quelle tutte acciai anaffettivi, dai cassetti labirintici ricolmi di lame dove si son svezzati tanti giallisti anglofoni di grido.

Anzi, Antonia Monanni, la protagonista dei racconti, pare molto somigliare alla scrittura del suo inventore: legge i quotidiani in rete, butta quasi tutti i regali che riceve e i libri che non le piacciono, appende alle pareti poche immagini dopo maniacale selezione, abitua “lo sguardo a cogliere solo poche cose per volta”, esercitando così “una sorta di libertà interiore”. Il che sembra porsi anche come una via d’uscita da certe pastoie della scrittura postmoderna, tanto ipertrofica e accumulatoria quanto labirintica, poco gerarchizzata nei suoi temi ed elementi, tra quel che davvero conta o meno nella comunicazione.

Storie dove gli ingredienti del noir e del giallo sono a bella posta disattesi: niente moventi, niente fase investigativa, niente mistero. Eppure quante volte nei gialli si sono ipotizzate carriere impegnative che portano a “scoprire segreti inconfessabili e chissà cos’altro”. “Invece no: assassini banali e pasticcioni, che si facevano scoprire in un paio di giorni. E poi: moventi assurdi, bislacchi, sempre che ammazzare qualcuno perché copula troppo rumorosamente e neanche pulisce bene il pavimento possa essere classificato come movente”. Perché il mistero è tutto lì: nelle persone che hanno disimparato a vivere, negli scontenti, nella follia che ci portiamo addosso senza saperlo, in un labirinto della mente che può essere descritto nei suoi effetti ma mai dall’interno, magari pure con presunti meccanismi d’orologio. Perché il delitto non sta nella perfezione narrativa, ma nascosto nelle pieghe imperfette della vita. Un attimo in cui una “scelta” o uno stato d’animo ci può salvare o perdere con la stessa probabilità. Follie che spesso a pagare sono innocenti “colpevoli per un attimo necessario” (come nel bel racconto, dal titolo eloquente, “Julija voleva il sale”) dove alla fine si capisce “che non c’è niente da capire, come sempre. Solo da preoccuparsi per un male che non fa più distinzioni”.

S’è accennato alla figura-collante dei racconti che è il magistrato inquirente Antonia Monanni (che, si auspica, non diventi il tormentone di una serie che smentirebbe, almeno parzialmente, il suo autore). Un personaggio spigoloso e fragile come il suo nome (quando virato al femminile), insolito e sempre in contro-sintonia con il senso comune del mondo circostante. Una solitudine personale sofferta, pure mai svenduta nella sua irriducibile autonomia e indipendenza. Un personaggio che odia i gialli. “E li odia perché danno l’impressione che siano i poliziotti o i carabinieri a risolvere indagini, risolvere i casi” e i magistrati “invece di coordinare le indagini, le subiscono al punto di rimanere in attesa fuori dalla porta mentre il commissario fa confessare l’assassino”.

Di più. In “Niente da capire” non c’è nessun “commissario di polizia al quale il destino pare non risparmiarne una: la moglie pazza, la figlia adolescente, i sottoposti idioti”. Anzi, pare che Antonia possa essere così perspicace e intelligente proprio nella sua “normalità”, proprio in virtù della sua precisa coscienza di cosa partecipi del fisiologico anziché del patologico. Che è comunque una mai bastante difesa, ché Monanni pare incontrare certe stesse situazioni dei suoi inquisiti, solo vivendole con un’inversa polarità. Non piacerà, ma il magistrato, in quanto appartenente all’umano genere, può sentire di somigliare in qualche modo all’omicida. In “Marta sente i fili” addirittura, rispetto all’assassina, pensa che ha “la sua stessa età, forse hanno letto gli stessi libri, amato lo stesso tipo di ragazzo, pensato gli stessi pensieri, nutrito le stesse speranze per il futuro”. Ma, proprio per ciò, è come se, attraverso l’altrui esperienza dell’errore, riesca ad evitare i tranelli del male, a non toccarlo, a non farsene coinvolgere. Oppure operando scelte ponderate e razionali, mai viscerali, mai moralistiche. Comunque sempre nella cristallina coscienza che, pensare qualcosa e darle immediato seguito, quasi mai sia cosa buona.

Antonia Monanni, sembra dirci Bernardi, è solo il lato al sole di un crinale morale molto sottile e ripido che continuamente ci minaccia, un confine tra luce e buio su cui tutti siamo seduti con uguale pericolo.

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Recensione a: Franco Buffoni, Laico alfabeto in salsa gay piccante. L’ordine del creato e le creature disordinate (Transeuropa 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 27 Febbraio 2011.

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L’ordine del creato e le creature disordinate secondo Buffoni

Risalgono più o meno al giugno 2009 le lettere di un gruppo di omosessuali al “Quotidiano della Basilicata” per protestare sul silenzio dei politici lucani sul problema dei diritti della locale comunità LGBT (lesbo-gay-bi-trans): tema non si sa quanto localmente eluso per l’imbarazzo piccolo-borghese che sempre suscita nelle famiglie buone di eletti ed elettori o – peggio, direi – perché stimato, anche a sinistra, “poco remunerativo in termini di voti”. E netta resta l’impressione che la situazione in Italia, oltre che da miserie di tal fatta, sia in realtà complicata e confusa dalla coesistenza di fenomeni di genesi diversa che vanno dall’omofobia interiorizzata (l’omofobia diffusa tra gli stessi omosessuali) alla giornaliera violenza contro i gay e i loro luoghi di riunione, fino ai deleteri danni di una tradizione e di una cultura cattoliche che, già a partire dalle pagine del “Catechismo della Chiesa cattolica”, “presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni” o atti “intrinsecamente disordinati”, “contrari alla legge naturale” in quanto precludenti “all’atto sessuale il dono della vita” (preclusione – c’è bisogno di ricordarlo al lettore? – pure accuratamente praticata dalla quasi totalità degli eterosessuali grazie al supporto di tutta una serie di utilissimi ritrovati tecnologici. Per non dire delle circa 1500 specie di naturalissimi animali con accertati comportamenti di tipo omosessuale: balene, foche e invertebrati inclusi).

Un quadro di arretratezza civile e culturale (anche rispetto ad altri stati cattolici quali la Spagna) che richiede un impegno suppletivo, necessario per chiarire questioni – come ho scritto altrove – che investono con forza i rapporti tra collettività omosessuale ed eterosessuale, ma anche il dibattito interno alle singole comunità di riferimento. Uno sforzo che può essere positivamente sostenuto, tra l’altro, svecchiando la discussione attraverso la lettura di uno dei frutti più lucidi e avanzati di questa riflessione, il “Laico alfabeto in salsa gay piccante” (Transeuropa edizioni, 2010, 245 pp.) di Franco Buffoni. Laico perché pensato per cittadini intesi nel senso più compiuto del termine, cioè “superate le fasi” succubi “della plebe, del popolo, del pubblico e del gregge”. Dunque implicando, da un lato, sui temi affrontati, una piccante polemica lanciata contro l’ordine gerarchico (e conseguentemente sociale) di quel creato che si vorrebbe immutabile per definizione o per divina volontà, ma che le “creature disordinate”, invece e con buona dose di fastidio, non fanno che mettere continuamente in discussione. Dall’altro, un attacco all’uso ormai francamente antistorico di una teoria del diritto naturale – superata già alla fine dell’Ottocento dal diritto positivo prima e dal novecentesco costruttivismo relativistico poi – ancora utilizzata con patetica ostinazione dall’attuale governo per opporsi alle direttive dedicate dell’Unione europea in materia di unioni omoaffettive (e non solo).

E tuttavia il lavoro di Franco Buffoni non convince soltanto per lo sviluppo delle sue tesi sull’omosessualità. Ma anche perché queste ultime si strutturano, sulla base di un alfabeto, come un vocabolario: in questo caso composto di sole cinquantasei fondamentali parole (più cinque ampi inserti saggistici), ma bastanti. Voci che continuamente si richiamano e rimandano nella lettura (affrontando temi di diritto, psicologici, letterari, biologici, filosofici, storici ecc.), sempre componendo un discorso chiaro, coerente, di grande rigore. E dunque utile sia per iniziare a parlare dei temi affrontati, quanto per meglio articolarli in maniera finalmente moderna e avanzata.

Un impegno intellettuale, insomma, che finalmente giunge a un gruppo essenziale di elementi irriducibili – i più irrinunciabili e radicali della questione – nel contempo svelando l’intero senso, anche stilistico – direi –, di un percorso che Buffoni aveva iniziato già con l’autobiografico e letterario “Reperto ’74 e altri racconti” (Zona, 2008) e continuato con la narrazione saggistica del romanzo “Zamel” (Marcos Y Marcos, 2009). Una metamorfosi che in “Laico alfabeto”, decantandosi definitivamente nella forma – mi si passi l’ossimoro – del pacato pamphlet, si oggettivizza definitivamente, rimanendo ancorata a una riflessione che sempre predilige una prospettiva scientifica che è conoscitiva, descrittiva nonché di notevole profondità storica. Un approccio possibile, quello di Buffoni, attraverso la maturata coscienza “che non è alla domanda su che cosa sia l’omosessualità” o perché “si ‘diventi’ omosessuali che bisogna rispondere” – considerato pure che è dal 17 maggio 1973 che l’Associazione americana di psichiatria ha derubricato l’omosessualità come “malattia”, liquidandone di conseguenza una qualsiasi possibile ricerca delle sue cause – ma come si sia oggi omosessuali e come si potrà esserlo domani, soprattutto in Italia.

Una fase che, lasciatasi alle spalle le brutali repressioni omofobiche che la storia ha conosciuto, può oggi avviarsi al definitivo riconoscimento dell’omosessualità come identità. Un’identità che con forza chiede, non senza un’approfondita elaborazione culturale, di acquisire diritti in un compiuto stato di diritto (che, l’Italia, diciamocelo francamente, a volte sembra proprio non essere). Una ridefinizione complessiva e moderna dei termini del dibattito che in Buffoni non manca di intrecciare la riflessione sull’omosessualità a quelle della laicità e della diffusione della cultura scientifica (cioè del metodo scientifico della prova e della verifica; dell’educazione al dubbio), uniche in grado di affrontare positivamente “la questione della finitudine senza ricorrere a metafisiche illusorie di sopravvivenza post mortem, con il loro portato di fanatismo, intolleranza, coazione a credere, persecuzioni ai non credenti”.

Franco Buffoni (Gallarate 1948), vive a Roma. Esordisce come poeta nel 1978 su Paragone presentato da Giovanni Raboni. Ha pubblicato un cospicuo numero di raccolte di poesia tra le quali “Guerra” (Mondadori, 2005), “Noi e loro” (Donzelli, 2008) e “Roma” (Guanda, 2009). Nel 1989 ha fondato e tuttora dirige per Marcos y Marcos il semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria “Testo a fronte”. Per Mondadori ha tradotto “Poeti romantici inglesi” (2005) e curato opere di Byron, Coleridge, Wilde, Kipling. Premio Nazionale per la Traduzione della Presidenza della Repubblica (1993) e Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio (1998), dal 1994 collabora con il Servizio di Promozione del Libro e della Lettura presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È stato rappresentante del governo italiano a Bruxelles in qualità di “esperto designato” sia nel progetto Arianne sia nel progetto Cultura 2000. È autore, tra l’altro, di “Più luce, padre. Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità” (Sossella, 2006). È giornalista pubblicista, redattore del blog letterario Nazioneindiana.com e professore ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate.

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Written by antoniocelano

febbraio 28, 2011 at 10:59 am

Gli elettori raramente scelgono i migliori (come diceva Salvemini)

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Questa lettera al direttore è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 6 gennaio 2011.

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Caro Paride,

ho letto con interesse l’intervento di Andrea Di Consoli e alcuni successivi, soprattutto quello di Pino Suriano. Insomma, al di là dei singoli casi sollevati, Di Consoli, come l’innocente e (sospetto io) libertario bambino della fiaba di Andersen, grida: “il re è nudo!” o, meglio, “il satrapo è nudo!”. Grida, e fa bene, ché i panni vestiti dai “nuovi” imperatori (nuovi, intendo dire, rispetto alle vecchie gerontocrazie politiche che in Basilicata hanno preceduto) son purtroppo i vecchi e, ora, pure parecchio più sdruciti per servire a una sfilata in stile “vintage” apprezzabile dai contemporanei.

Però, poi, io che sono un tantino più vecchio e forse pure un po’ più pessimista, mi terrorizzo. E mi terrorizzo perché so mica io l’appello ai lucani di Di Consoli a chi potrei indirizzarlo… Sennonché, “Le novità virtuose nascono sempre dal basso”, integra e indica Suriano, ed è verissimo. Ma invece di racquietarmi, mi ritorna alla mente una famosa frase di Salvemini in cui, duro, diceva: “L’esperienza ha dimostrato che gli elettori raramente scelgono i migliori”. Però poi, va beh, mi dico, magari avranno smesso pure “di scegliere normalmente i mediocri” o i peggiori. Che forse coincide un po’ con la tua posizione, Paride.

Tuttavia penso e ripenso, e in tutto questo ripensare qualcosa non mi torna. Perché i giovani di cui parlano i Di Consoli e i Suriano (quelli che votano i migliori tra loro) c’erano anche quando io me ne stavo in Basilicata, e quelli non vanno dunque contati, prima di tutto perché son sempre stati tanti, ma mai abbastanza, e dunque non hanno contato, e poi perché hanno sempre votato contro la vecchia Dc e ora continuano (ché molti politici, Emilio Fede può piantare sulla nostra regione tutte le bandierine rosse di stizza che vuole, ma in gran parte son democristiani di ritorno).

E allora? Allora mi prende alla gola un retropensiero, forse qualcosa di paranoico, ma che alla fine mica riesco a scacciare: e se la restante parte dei lucani, mi interrogo, la stragrande rimasta, votasse quelli che sono come loro? Magari però qualcuno mi dirà: ma mica ora è come prima quando i maggiorenti democristiani avevano a disposizione di volta in volta le chiavi dei forzieri dell’erario, del terremoto ecc., per cui qualche favore (per favore io intendo quelli più odiosi, i più prevaricanti, sia beninteso) fatto al famulo più vicino poteva passare in cavalleria che tanto “tutti”, nel marasma e bailamme dei favori di favori, ci “uscivano qualcosa” pure loro. Qualcuno mi ha anzi replicato: “e qui ora non ce n’è più per nessuno e davanti a queste cose vedrai i lucani come si incazzano!”.

Però, poi, pure che me ne sono andato lontano da un po’, poi lo so. Poi lo so che nel segreto dell’urna il lucano imbufalito, quando prende in mano la matita di stato, mannaggia!, proprio mannaggia, e cavolo!, gli viene in mente che proprio perché è crisi maledetta, proprio perché il figlio a trent’anni ancora gli rompe le scatole e non se ne toglie, proprio perché la figlia (e come si fa con la figlia) ecc., al lucano imbufalito gli viene il dubbio che mica lo sa se di risorse proprio non ce ne sono più. E magari qualche cosa da qualche parte – nel forziere ravanato e derubato – può essere rimasto. E chi lo sa? E non c’è il petrolio, il comprensorio industriale? E non ci sono i parchi nazionali, le tipicità, le eccellenze? E chi lo sa se tutta questa modernità qualche posto non ti dico lo produce, ma almeno lo conserva?

E, dunque, nel legittimo dubbio, come fosse una bambola col tasto dietro, il lucano imbufalito, come si dice in Toscana, si “spenge”.

Epperò, non per questo, non per questa sempiterna “maggioranza speranzosa” (che non giustifico, ma di cui però capisco i dolorosi bisogni che è inutile cercar di risolvere così), una classe politica deve comunque pensare di poter dare il peggio di sé. Se non proprio in quanto a favoritismi (nessuno ha ancora condannato nessuno, è stato ben detto), almeno in quanto a capacità teorico-culturale e politico-amministrativa. Che è la cosa più importante, a ben guardare.

Un caro abbraccio e buon anno.

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La lettera aperta ai lucani di Andrea Di Consoli

Cari lucani,

in seguito alla notizia data dal quotidiano milanese “Il Giornale” – che rivelava che il Presidente della Giunta regionale Vito De Filippo e il Presidente del Consiglio regionale Vincenzo Folino sono indagati per turbativa d’asta presso la Procura di Potenza – io mi sarei aspettato che i diretti interessati ci fornissero immediatamente qualche elemento in più di riflessione, qualche approfondimento ulteriore, anche perché la notizia è di quelle che, ancora una volta, pongono perentoriamente il tema umiliante e problematico – non solo lucano – del connubio nefasto tra politica sanitaria e consenso elettorale (la malattia reale e la malattia del potere si abbracciano proprio lì: negli ospedali).

Invece il Presidente De Filippo, a poche ore dalla pubblicazione dell’articolo, dirama un comunicato stampa in cui definisce la notizia de “Il Giornale” come “trita e ritrita”. Eppure, francamente, questa notizia non si era mai letta sui giornali – né locali, né nazionali – e quindi davvero non si capisce in base a quale criterio la si possa definire impunemente “trita e ritrita”. Può una strategia di comunicazione prevedere la dichiarazione di un falso? Perché sì: dire che la notizia de “Il Giornale” sia trita e ritrita” è una bugia a tutti gli effetti, e i cittadini lucani perbene non pagano le tasse per sentirsi dire delle bugie da parte di chi governa – a spese nostre, su nostra delega – la Regione Basilicata.

Altra cosa, s’intende, è rimarcare senza mezzi termini – come voglio fare anch’io – che si tratta solo di un’indagine, e che un’indagine non significa né rinvio a giudizio, né condanna definitiva. Questo deve essere chiaro, ché si è colpevoli solo alla fine del terzo grado del processo, benché in passato, proprio in Basilicata, alcune persone siano state personalmente demolite con appena qualche anatema di piazza e qualche articolo (chiamiamolo pure così) di giornale. Mai nessun cambiamento politico dovrebbe passare attraverso le azioni della magistratura, anche perché in un Paese sano la magistratura rispetta regole rigide e non assume mai ruoli politici diretti o indiretti, come pure in Italia troppe volte è capitato e, ancora, capita.

E Vincenzo Folino? Continua la politica della loquacità reboante a tavola e della lingua di legno in pubblico, avviata all’indomani del suo insediamento alla Presidenza del Consiglio regionale. Una delusione totale, francamente.

Mi chiedo anche se sia giusto che la più vista televisione lucana (più vista perché, di fatto, l’unica), ovvero il Tgr regionale, il cui caporedattore è Oreste Lo Pomo, dia la smentita di De Filippo e non la notizia che ha originato la sua smentita. Non voglio fare e non farò mai lezioni di giornalismo a nessuno (anche perché non sono mai voluto diventare neanche pubblicista, e quindi non faccio parte, per scelta, di nessun Ordine), ma è normale dare la smentita di una notizia che non si è mai data? Non dico che c’è malafede, in Lo Pomo, che pure conosco come persona seria da molti anni. Dico che c’è quieto vivere, fiacca, stanchezza, spleen impiegatizio, che, a certe ore della vita pubblica, sono più pericolosi della stessa malafede.

Eppure, nonostante questo, qualcosa si sta muovendo, in Basilicata, come un lontano bubbolio di tuono, di tempesta che si avvicina. Un certo clima putiniano e oligarchico viene guardato con sempre maggiore diffidenza, più spesso con rabbia, soprattutto dai giovani, dai tanti non appartenenti agli apparati chiusi del Partito-Regione, colmi di galoppini tristi e impauriti di via Verrastro.

Le ultime cronache sulle nomine dei dirigenti alla Regione, sulle assunzioni all’Arpab (la prima classificata al recente concorso indetto dall’Agenzia lucana per l’Ambiente è la sorella di un nominato dirigente alla Regione, ex portavoce di Vito De Filippo), i casi di Vito Di Lascio (vincitore di concorso regionale nonostante sia assessore provinciale in carica) e di Marcello Pittella (la moglie è stata assunta all’Asl 3), per tacere di altri casi, stanno accendendo lentamente una miccia sulla quale pure, grazie al clientelismo di almeno tre decenni, si è gettata non poca acqua. Ed è proprio questa sensazione di strapotere, a indignare; questa guasconeria strapaesana e un po’ megalomane che porta il Presidente della Regione a dire che una notizia inedita è “trita e ritrita”; questa convinzione – di una decina di persone: i geniali Luongo, gli ineffabili e pirotecnici Viti, e poi i Lacorazza, i troppi Pittella, i taciturni Antezza – nel poter pensare “qui comandiamo noi”.

Lo confesso: non mi aspetto una battaglia di opposizione dal Pdl, il felice perdente. Mi chiedo solo che con che faccia i signori Viceconte, Latronico, Taddei e Pagliuca possano ancora continuare a presentarsi alle elezioni proponendosi quale alternativa all’attuale oligarchia putiniana. Una svolta è necessaria. Sono però felice che recentemente a Roma, in una conversazione informale alla Camera dei Deputati, almeno tre parlamentari meridionali del Pdl mi abbiano detto che presto il Pdl di Basilicata sarà commissariato, e che si stia studiando una strategia per far intervenire nella questione finanche il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ci sono momenti in cui per uscire dal pantano occorre una mano esterna, una sorta di sbarco in Normandia di liberatori.

Mi chiedo pure cosa voglia dire il segretario regionale del Pd che in ogni circostanza ripete che “bisogna andare avanti con la modernizzazione della Basilicata”. Come si fa a essere così ineffettuali e astratti a trent’anni? Cioè, come si fa a parlare di modernità in una situazione di fatto oligarchica, ai limiti della satrapia? Ci sono ore in cui la diplomazia diventa stucchevole. Siccome non parlo a nome di nessun popolo, non ho paura di dire che vorrei che i trentenni lucani non gli somigliassero neanche un po’, mai. E mi chiedo, tra le tante cose: è “moderno” un partito in cui ci sono figure levantine come quella di Maria Antezza, che ha fatto eleggere alla Regione il cognato e la sorella Nunzia al Comune di Matera? Si dirà: i voti si contano, non si pesano. Benissimo. Almeno però si eviti di usare belle parole per siffatti contesti familistici. Le parole, si sa, sono importanti, anche se, purtroppo, sono gratuite.

So, o immagino, che il direttore Paride Leporace non condividerà alcune di queste mie riflessioni. Il fatto che le pubblichi è però segno che non tutte le bocche sono tappate. Questo mi dà fiducia che, presto, le cose possano cambiare in meglio. Ma è necessario che gli uomini liberi e forti che amano la Basilicata la liberino per sempre dalla tirannia della politica politicante. Questa terra merita amore e umiltà, non disonore, non paranoia, non arroganza, non familismo partitico, non megalomania velleitaria, non ignoranza, anche se abbiamo un assessore regionale alla cultura di primo piano e di entusiasmante carisma intellettuale.

Piccola postilla. Recentemente il Presidente della Regione Basilicata Vito De Filippo mi ha detto a muso duro che il 60% dei lucani ha votato lui, e che se il centrosinistra ha vinto, ha vinto grazie a lui, perché “io ho un rapporto speciale con i miei elettori”. Sono rimasto a bocca aperta, allibito.

Cari lucani, non voglio aizzare l’antipolitica, che detesto massimamente. Ma, mi chiedo: chi critica questa oligarchia lucana fa solo antipolitica? Basta a salvarsi la coscienza il dire che si fa del basso populismo? Per fugare ogni dubbio demagogico, dirò chiaramente che molti di voi lucani sono complici di questo sistema. Molti di voi non fanno altro che elemosinare aiuti e interventi del politicante di turno, anche quando qualcosa vi spetta di diritto, anche quando il politicante di turno sapete benissimo che non può aiutarvi, e che millanta poteri che non ha, o che utilizza solo per i propri camerieri fidati. E’ un’abitudine umiliante che detesto, e che vi toglie dignità. Purtroppo la brutta situazione attuale non la si ribalta né con gli esclusi rancorosi, né con chi cambia carro non appena si profili all’orizzonte un nuovo vincitore. Diciamo che sto ancora cercando di capire se questa classe dirigente rispecchi davvero il suo popolo. Se è così, il cammino verso la libertà e la democrazia è ancora lungo. Ma non mi scoraggio, né lo farò mai, ché il maledetto amore che provo per la mia terra me lo impedisce.

Andrea Di Consoli

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Recensione a: Franco Arminio, Cartoline dai morti (Nottetempo 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 19 Dicembre 2010.

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Tanti saluti dall’aldilà

“Nessuno mi aveva spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto, raffreddarmi, iniziare a decompormi”. Dei 128 aforismi che compongono la raccolta Cartoline dai morti (Nottetempo, 2010) è forse questo che coglie il senso più profondo dell’ultimo lavoro del paesologo Franco Arminio, l’esperienza di chi più volte ha attraversato l’angoscia sintomatologica della morte.

Aforismi, cartoline – si badi bene –, non lettere. Per dirla con Domenico Scarpa: nessun “sospiro patetico” inciso su una lapide a ricordo imperituro di una vita, ché i morti di Arminio “non chiedono niente, non vogliono insegnarci niente”. Nessuna finzione romantica, insomma, nessun romanzo in forma di poesia, nessuna Spoon River possibile. Solo scabri, essenziali corti narrativi.

Franco Arminio ha scritto le sue cartoline oggettivando i suoi attacchi di panico. Panico con il tempo fattosi più scarico rispetto al passato (quando non era chiaro “se stai morendo davvero o sei a un altro capitolo della tua penosa ipocondria”). Attacchi che possono lasciar scrivere “della morte appena trascorsa” sia pure nella paura “che dilata i sensi” e “li fa grezzi” e che, dunque, non lascia il tempo “di raffinare, di romanzare”.

I morti, poi, si sa, “non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina”. Ma quelli di Arminio, come vivi, parlano ancora e pensano e nutrono ansie o i meschini pensieri di ogni giorno (“Adesso ho una curiosità un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei milioni”). Soprattutto non parlano del perché della morte, evitano il banale e inutile tentativo di carpirne il segreto, filosofico o escatologico che sia. Ci dicono semmai laconicamente come si sono inceppati i loro corpi, in che circostanze consumate quelle vite. Del resto, “come si fa a credere in dio quando uno muore mentre sta parlando di una ringhiera?”.

Arminio, insomma, non ci porta nessuna presunta verità da un aldilà, condita di luci, visioni, ectoplasmi. Non svolge nessuna funzione rivelatrice del dopo. Attraversa, invece, – lui, i suoi personaggi – il malessere, l’angoscia, la malattia, la solitudine della morte, la dimenticanza di chi resta, il dolore nel vivo della carne. E poi, con maestria, stende la sua scrittura, rapprende come gesso il bianco dilagato della pagina, del morto crea un calco capace di tenerne assieme plasticamente forme e tempo. Arminio non guarda alla morte, Arminio guarda la vita dalla morte, da dove meglio se ne può rivelare il senso ridotto al suo osso, una rivelazione spoglia, a volte cruda altre volte ironica: “Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima”. La morte non cambia niente, indugia ancora – asciutta – su noi vivi.

Arminio adotta una strana forma di tanatosi, quella strategia che a volte gli animali impiegano per scampare ai predatori. Strana perché i suoi esercizi mimetici della morte non sono gesti scaramantici, non sono simulazioni nella speranza la morte passi avanti possibilmente, come nella grande lezione antropologica di Elias Canetti, a ghermire qualcun altro. Arminio adotta la tanatosi della volpe, che invece è quella del predatore che si finge morto per poter meglio avvicinare a cogliere il vivo.

“Cartoline”, dunque. Poche righe. Tutto lì. Però molte. E potenzialmente infinite nella loro casistica, innumeri declinazioni del morire. Tanto che, alla fine, tutte sembrano disporsi come altrettanti paesi che Arminio visita e narra. Allotopie: mondi, modi alternativi di morire. In un libro che potrebbe risultare paradossalmente il suo più paesologico. Un viaggio lungo i bordi di un cratere altro, “intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa”.

Ha scritto recentemente il paesologo irpino che “in un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta dalla vita. Forse non sarà divertente, ma è una situazione clamorosamente interessante.” Si tratta di un’intuizione fondamentale (tra l’altro del tutto in linea con una moderna visione scientifica dell’entropia dei sistemi), che induce all’abbandono di certe visioni arroganti della vita e dell’io e ci induce invece alla comprensione della fragilità della vita, qui intesa in un senso dilatato: come comune spazio abitativo, luogo di espressione della nostra esistenza, di valorizzazione della sua qualità. E ci rivela come Arminio possa scrivere cartoline dai morti e poi farsi paesologo e ancora accendersi di civili passioni contro la necrofilia politica di certi amministratori. Ed è un’altra storia, certo. E però abbisogna dello stesso sguardo.

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Rettifica pubblicata sul QdB del 21/12/2010:

NELL’INSERTO domenicale “Q, la domenica della Lucania”, in edicola domenica 19 dicembre, l’articolo pubblicato a pagina 17 dal titolo “Tanti saluti dall’aldilà” è stato scritto da Antonio Celano e non da Mimmo Mastrangelo come erronaeamente riportato. Ce ne scusiamo con i lettori e con l’interessato.

Written by antoniocelano

dicembre 20, 2010 at 10:46 am

Recensione a: Ettore Cinnella, Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia (Della Porta, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 05 Dicembre 2010.

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Nuova luce sull’icona

Diciamo la verità. Sarà per come ce l’hanno insegnata a scuola, sarà per la scarsa capacità degli accademici a saperne scrivere in maniera accattivante (per poi lasciarla vittima dei pasticci metodologici di certi giornalisti), sarà per personale avversione, la lettura della storia spesso ci maldispone. Austeri, pedanti, irti di cifre, date e note, i libri di storia.

Tuttavia, a non leggere le pagine di Ettore Cinnella Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia (Della Porta Editori, 2010, 188 pp.), si farebbe gran peccato. Innanzitutto perché si presenta come una ricostruzione storica molto ben narrata, con una scrittura godibile e appassionante, adatta anche a un pubblico più vasto di quello solitamente interessato a questo genere di studi. Poi anche perché l’opera pare un’utile anticipazione a Il grande brigantaggio (1861-1865): una ferita nella storia d’Italia, di prossima uscita per gli stessi tipi e sul cui tema proprio Ettore Cinnella si è diffuso il 19 maggio 2010 per il ciclo La parola alla storia. Centocinquant’anni divita nazionale, organizzato a Palazzo Lanfranchi di Matera, a cura del Liceo Classico “E. Duni”.

Centocinquant’anni che saranno, peraltro, festeggiati a partire dal prossimo anno, ma che rischiano proprio in quanto celebrazioni (basti dare un’occhiata, sia pur fugace, ai siti ufficiali sponsorizzati dal Consiglio dei Ministri e dal Ministero per i beni e le attività culturali) di lasciare in un canto qualche pagina certo meno rassicurante, ma che parimenti ha inciso nella formazione dell’Italia unita condizionandone tuttora un presente apparentemente cambiato di polarità.

Lettura del libro appassionante, si diceva, ma che nulla cede al rigore dell’impianto metodologico che, invece, legge a sua volta la documentazione disponibile e i fatti con il necessario distacco che il secolo e mezzo trascorso impone agli eventi, soprattutto inquadrandoli in quella “grande storia” che impedisce ogni abbandono a localismi di sorta e a idealizzazioni fuorvianti dei protagonisti. Del resto Ettore Cinnella fa da decenni il mestiere di storico in maniera eminente. Nato a Miglionico nel 1947 è stato allievo della Scuola Superiore Normale di Pisa, insegnando poi storia contemporanea e storia dell’Europa orientale nell’Ateneo pisano. Le sue opere maggiori restano legate ai temi della rivoluzione russa del 1905 e del 1917, nel quadro dellequali Cinnella ha, tra l’altro, rispetto ad altre linee interpretative, meglio individuato e valutato il peso e il senso politico delle rivolte contadine.

La biografia di Crocco è dunque il tentativo di far nuova luce, appena fatta l’unità d’Italia, sulla “prima grande tragedia nazionale” a causa della quale “lo Stato unitario nasceva con una ferita che non si sarebbe rimarginata facilmente”. Una ricostruzione che Cinnella affronta privilegiandole fonti lasciate da chi Crocco conobbe direttamente: dalla biografia del capitano Massa fino agli studi dei lombrosiani (con qualche correttivo) Penta e Ottolenghi, che lo definì “il Napoleone dei briganti”.

Un’impostazione critica che, se permette a Cinnella di confermare complessivamente le radici sociali del fenomeno brigantaggio “alimentato dalla spaventosa miseria dei contadini e dall’abissoche divideva ‘cafoni’ e ‘galantuomini’”, permette pure di svecchiarne l’approccio storiografico rifiutandone, con solidi argomenti, la visione che da Molfese a Hobsbawm, non senza passare per Del Carria, ha fatto del grande brigantaggio “una furiosa guerra di classe ed embrionale rivoluzione contadina”, e del brigante un protagonista “animato da un primitivo ma genuino senso di giustizia sociale” (nel caso di Crocco pure con qualche responsabilità nell’uso delle fonti da parte dello storico Pedìo).

Dunque, fuor di ogni leggenda, anche per lo scaltro pastore di Rionero Carmine Crocco (soprannominato Donatelli), figlio di un contadino e una cardatrice di lana, nessuna particolare angheria subita dai suoi familiari da parte di aristocratici locali. La carriera di rapinatore e grassatore comincia con la brusca fine del suo servizio militare nel 1852, quando si dà alla macchia probabilmente in seguito al regolamento di conti con un commilitone. Una carriera che comincia rocambolescamente con arresti, condanne ed evasioni che dureranno fino alla fatidica data del 1860.

In questo frangente la vita di Crocco pare prendere, per un momento, una svolta finalmente positiva seguendo le pieghe della storia più complessiva della Basilicata. Mentre l’azione militare dei Mille dissolve il fragile regno di Francesco II, a seguito del moto risorgimentale che scuote la regione tra il 16 e dal 18 agosto, per Carmine Crocco si apre una possibilità di perdono in cambio dei servigi resi al governo rivoluzionario e alle truppe garibaldine. È un’illusione di breve durata. Già il tumulto di Matera contro “l’irrisolta questione demaniale” presagisce il levarsi della reazione borbonica a fronte dell’incapacità del locale notabilato liberale moderato, dopo il plebiscito, di aprire all’integrazione e all’assenso delle schiere più diseredate della popolazione. Il resto lo fanno la frettolosità, il pressappochismo e l’ottusità della nuova classe dirigente sabauda che finiscono per ingrossare a dismisura la soldatesca dei briganti. Infatti, una nuova denuncia, vincendo le protezioni fino allora godute, spinge nuovamente alla macchia Crocco (lo seguono De Biase, Stancone e NincoNanco) che in breve si farà forte di un esercito di almeno mille uomini.

Sono vicende, quelle di Crocco, “talmente straordinarie e rocambolesche, che non necessitano di ulteriori fronzoli” mitopoietici. E del resto è proprio qui che la penna di Cinnella, ricostruendo la personalità di Crocco il suo genio e le sue mirabolanti vittorie militari, si fa più appassionante.

Quel che però qui occorre mettere in rilievo è che lo scoppio dell’insurrezione borbonica dell’estate del 1861, oltre a connotarsi come una vera e propria guerra civile fatta di contrapposti agguati ed esecuzioni sommarie, sempre si sostenne su un equivoco di fondo (almeno in Basilicata). Cinnella è chiaro: “Sulla carta la causa borbonica disponeva di prestigiosi e devoti paladini, i quali però preferivano ai rischi della guerra la tranquillità e gli agi della Roma papalina (…) A scendere incampo e a rischiare la vita (…) furono per lo più, alcuni aristocratici e ufficiali stranieri” sovente abbandonati a loro stessi. E non a caso, il fallimento di quel moto insurrezionale, mal organizzato e diretto, e l’esecuzione di Don José Borges (Borjes), fecero cadere la “foglia di fico” con cui la reazione colorava politicamente le gesta brigantesche di cui doveva forzatamente servirsi.

Il brigantaggio espresse, dunque, più autonome forza e ragioni di quanto si sia diposti a credere. E del resto mai Crocco, causa anche il suo carattere volitivo e ambizioso, si sarebbe fatto burattino di una causa di cui molto bene conosceva gli attori locali: quei galantuomini che dopo averla sobillata erano “usciti pressocché indenni dalla tempesta politica da loro scatenata, mentre erano stati i briganti e i popolani a pagare il fio della tentata restaurazione borbonica”. D’altro canto certo sempre convenne allo scaltro capobanda di ammantarsi della causa borbonica per ottenere favori, armi e onori, mentre le continue vessazioni manu militari operate dai nuovi burocrati savoiardi sul territorio ne accrescevano il favore popolare e il radicamento.

Caduto l’equivoco sulla guerriglia partigiana e lungi dal rivelare, successivamente, la sua natura di moto sociale, il brigantaggio resta a questo punto per quel che fu sempre nella mente dei suoi protagonisti: “una splendida occasione di bottino e di fama” cui posero lentamente fine le stesse truculenze di cui i manipoli briganteschi si andarono macchiando, la mancanza di strategie politiche meno che abbozzate, nonché una più attenta gestione politico-militare del governo sabaudo a seguito del varo della draconiana e più volte prorogata legge Pica (agosto 1863).

Questa lunga seconda fase del brigantaggio, apertasi tra la fine del ’61 e il ’65, travolge finalmente anche Crocco, a differenza di molti suoi compagni d’avventura sfuggito alla morte e arrestato definitivamente nel 1870. Processato e condannato a morte, pena commutata nei lavori forzati a vita, Crocco si spegne negli stessi panni del suo esordio: dopo aver conosciuto la fama di più importante brigante della storia d’Italia, la ricchezza del bottino, la vittoria militare, di lui restano all’atto della morte nel bagno penale di Portoferraio: “Calze di cotone paia 6; maglie di cotone 1; Maglie di lana 1; Berretto da notte 2” e la comunicazione agli eredi che il deceduto “non ha lasciato peculio”. È il 18 giugno 1905.

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dicembre 5, 2010 at 5:21 PM

Recensione a: Andrea Nicolussi Golo, Guardiano di stelle e di vacche (Biblioteca dell’Immagine, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 14 Novembre 2010.

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Siamo fuori dal vicolo cieco

È un difficile tratturo nel bosco quello impegnato dallo scrittore Andrea Nicolussi Golo, che incrociando vissuto personale e memoria storica, intreccia i sentieri dei dintorni montani e contadini della comunità dei cimbri di Luserna, oggi sul pericoloso ciglio, come del resto la maggior parte delle minoranze etnico-linguistiche italiane, di una definitiva estinzione.

I Cimbri, attualmente stanziati per la maggior parte in alcuni centri nell’area montuosa tra le province di Trento, Vicenza e Verona, parlano un idioma di ceppo germanico. Provenienti da un’area compresa tra Baviera e Tirolo, si stabilirono in Italia a partire dalla seconda metà del X Secolo arricchendosi in seguito di altre ondate migratorie. Dopo un periodo di fioritura tra ’500 e ’700, subirono una significativa perdita di autonomia durante il periodo napoleonico, una pressoché irrimediabile crisi con la Grande Guerra e, successivamente, furono fortemente gravati da alcune scelte del regime fascista.

Introdotto dalle ultime riflessioni di Mario Rigoni Stern, prima che il grande scrittore morisse, “Guardiano di stelle e di vacche” (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2010) è una raccolta di racconti che tenta di ridare voce, con una capacità narrativa e affabulatoria davvero sorprendente, all’antica cultura degli “tzimbar”, i boscaioli, oggi ridotta a poche centinaia di abitanti sul versante trentino dell’altipiano di Asiago. Però con la convinzione che non basti, per salvare un mondo, limitarsi alla raccolta di vecchie storie tradizionali e leggende, bensì evocarne l’antica voce per rielaborarla in storie nuove e personali, godibili al lettore di oggi. Perché una comunità può avere un passato e una sua storia viva solo se è ancora capace di produrre presente, pena l’autoconsegna all’archeologia. Solo così, forse, “i cimbri vivranno, per gioia, per rabbia, per amore, per orgoglio, per dispetto e un giorno riapriranno la loro piccola scuola”.

Tuttavia l’autore non si sottrae ai perché di un declino. E spetta al racconto “Storia di Katerj” – tra i più belli e convincenti dell’intera raccolta – aprirci alle inquietudini di quel “Secolo Breve” dove luci e ombre, bene e male, identità e diversità sembrano smarrirsi scambiandosi continuamente di posto e di polarità. A partire dalle stagioni, da un insolito inverno caldo di inizio secolo e dalle tardive nevicate primaverili. A seguire con l’incendio del 1911 che distrugge “anche il ricordo delle antiche case, le lunghe case con un solo piano e con i tetti di paglia o di scandole di larice”. Fino a precipitare nel gorgo della Grande Guerra.

Ultimo avamposto austriaco verso l’Italia, i lusernesi sono i primi a fare la prova del fuoco italiano, che ne provoca l’evacquazione in Boemia (e come profughi nella “Città di legno” saranno malvisti e malsopportati da tutti: “se ne incontrate uno, sputategli in faccia!” ebbe a dire un Mussolini ancora giornalista dell’”Avanti!”). Al ritorno si ritroveranno cittadini italiani. È in questo spazio – mentre la Rivoluzione industriale morde a morte le carni del mondo contadino, fa strame dei suoi custodi, ne acceca i profeti – che si muove Katerj, profondamente figlia di questa nuova alba fino a farsene metafora genetica, fino a introiettarne i confini smarriti e confusi della comunità in una marcata androginìa, con il suo guardare bifronte alle vecchie fedeltà imperiali austro-ungariche e il suo realizzare in anticipo la libertà della donna, sia pure sotto mentite spoglie di levatrice e di uomo di fatica.

Non c’è mai, in “Guardiano di stelle e di vacche”, alcuna idealizzazione delle minoranze etnico-linguistiche. Una comunità, lo si è già detto tra le righe, è solo un confine più particolare che si apre e si chiude nel tempo come tante altre realtà. Accoglie gli ebrei profughi dalle repressioni della Serenissima nel 1516 (“Il viaggio di Shimon”), si chiude nelle superstizioni scambiando per streghe altri estranei ai propri costumi (“La storia di Franza”), si scontra con altre minoranze accese della loro autonomia (“Begia e Mino”), subisce le repressioni dei regimi in cui si ritrovano a essere minoranza. È il caso delle “opzioni” imposte dal regime fascista sul finire degli anni Trenta: scegliere, cioè, se restare cittadini italiani, rinunciando alla lingua e alle proprie tradizioni, oppure prediligere la cittadinanza tedesca e abbandonare la propria terra per un Reich che certo non è più quello mitico di Francesco Giuseppe e di Carlo I, ma quello prosaico e liberticida dello “sciocco imbianchino di Branau” (e del resto, in seguito, rapporti distesi non vi furono né con i nazisti in ritirata né con i partigiani).

Il senso delle storie di Nicolussi Golo è tutto qui, in questo passaggio novecentesco dall’esser qualcosa (o ancora qualcosa) in un mondo arcaico e premoderno a non esser più nulla di preciso. Perché, insomma, nonostante il sorriso ritrovato nelle storie di tutti i giorni (“L’ultimo cacciatore”, “Errare è umano?”, “Undicesimo comandamento”) la vera e propria sconfitta dei cimbri giungerà per davvero non con le guerre, ma con la chiusura del “Secolo Breve”, con l’arrivo della modernità, della “furia modernista degli anni Settanta”, con la consapevolezza di aver “gettato il bambino con l’acqua sporca”, ma ancor peggio, di aver forse “buttato il bambino e tenuto l’acqua sporca. Come abbiamo fatto con i nostri mobili massicci di abete o addirittura di larice sostituiti con quelli di formica” (e “ora non esistono più né gli uni né gli altri”).

Ma pure qui, per Nicolussi Golo, la nostalgia per la “sconfitta” definitiva non coincide mai con nessuna foga nostalgica o antimodernista. In una recente intervista, l’autore di “Guardiano di stelle e di vacche” ha condivisibilmente dichiarato: “Non viviamo fuori dal mondo, quindi anche noi siamo stati raggiunti dai prodotti della globalizzazione, dalle ‘cineserie’. Forse quello che ci distingue è l’aver capito prima di altri che questa strada è un vicolo cieco. Siamo abituati da almeno quarant’anni ad essere sotto la lente di ingrandimento: proprio per questo ci siamo accorti prima di altri che non ci sono più identità particolari, o meglio, che tutte le identità particolari stanno morendo… Ora essere cimbri significa avere una maggiore consapevolezza della propria identità particolare, un’identità un po’ diversa dalla massa. Che sia un bene o un male, questo non si può dire a priori, ma di sicuro la consapevolezza di questa differenza ci forma come gruppo”.

Andrea Nicolussi Golo è nato a Trento nel 1963 e vive a Luserna. Lavora in fabbrica e compone filò dal sapore antico. Questo è il suo primo libro.

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Recensione a: Alessandro Petruccelli, Un giovane di campagna (Gremese, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 3 Ottobre 2010.

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La campagna racconta
Da Petruccelli a Bufalari: immagini agresti e realtà quotidiana

Mio padre comprò la prima edizione di Un giovane di campagna di Alessandro Petruccelli nel 1976, nella libreria della stazione di una Firenze ancora editorialmente vivace, benché già in rapido declino. Il volume era uscito – dopo essere stato insignito nell’ottobre 1973, ancora inedito, del premio Rapallo – nella collana letteraria “I David”, diretta da Gian Carlo Ferretti per i tipi dei capitolini Editori Riuniti. Come Pietro, il giovane contadino protagonista della storia, anche mio padre s’era da poco “affrancato” dalla terra grazie agli studi universitari. E tuttavia, pur avendolo letto con necessario ritardo, il libro ha sempre avuto una ragione anche per me che invece ho vissuto la mia preadolescenza in una campagna che mi appariva ancora viva e che invece era già morta da tempo.

L’opera di Petruccelli, dopo aver conosciuta una seconda edizione nel 1979, è poi stata ripubblicata in edizioni scolastiche e tradotta all’estero fino a essere riscoperta e ripubblicata dalla piccola Gremese, sempre di Roma. Piccola ma coraggiosa, direi, perché, nonostante la vittoria di un Pennacchi allo Strega, quasi del tutto indisposta appare la grande editoria a stampare, peggio a ristampare (con opera di ricerca), romanzi legati alle nostre radici contadine. Dunque, se il libro è pure stato recentemente insignito a Potenza del primo premio alla XXVI edizione del Concorso nazionale di poesie e narrativa “Lucania”, presieduto da Antonio Santarsiero, l’occasione non può che rallegrare e, in qualche modesta misura, forse, risarcire.

Ambientato nelle campagne del basso Lazio (Petruccelli è originario di S.S. Cosma e Damiano, in provincia di Latina. Oggi vive a Formia), Un giovane di campagna ha finito, nella mia esperienza di lettura, per confrontarsi con un altro grande romanzo meridionalista, però pubblicato nel ’60: La masseria del fiorentino Bufalari, dedicato alla Lucania della riforma agraria. Perché, se in quest’ultimo i contadini, ignari e indifferenti a ciò che avviene, sono ripresi nel momento dell’improvviso e violento abbattersi di una modernizzazione che sembra seguire fini per loro incomprensibili, in Petruccelli siamo già un passo più in là. Vale a dire alla certificazione dell’avvenuta fine del mondo contadino e rurale. Un’apocalisse senza più schianti e strida, qui narrata ormai per fotogrammi, frammenti disposti a ricostruire l’incerta memoria di una forma ormai infranta, irrecuperabile nella sua unità e unicità.

Certo in apparenza tutto resta uguale: Pietro vorrebbe mostrare a Paola, la sua fidanzata di città, la “casa ai piedi del colle, il gelso che conosce i nostri segreti, il fico che ho piantato quando avevo sei anni” e il lavoro dei campi procede come sempre ognigiorno, le vacche al pascolo, la mietitura, la cura delle piante… In realtà la campagna è un ventre ormai vuoto di uomini, senza più voci – le strade, la luce e l’acqua una modernità (quella immediatamente utile) ancora attesa. E i contadini sembrano ancora tanti ma, frammescolati ai pochi rimasti, fanno numero i morti e gli emigrati: i fantasmi che la memoria di Pietro ci rende vivi attraversando e censendo terreni ormai incolti e pagliai in rovina. Gli emigranti hanno abbandonato le case intatte, come per l’imminente arrivo di un esercito nemico, oppure prima di partire si dedicano essi stessi alle distruzioni preda di una muta sofferenza. Le loro mete l’Australia, la Germania, la Scozia, la Svizzera, il Canada… Qualcosa di irreversibile è avvenuto: “Proprio ieri il compare Filippo ha sradicato decine di piante di fico e le ha messe a seccare con le radici all’aria. È forse questo il tempo in cui i contadini stanno rompendo per sempre quel dialogo che avevano iniziato, chissà da quando, con le cose della terra”.

Oggi, navigando in Internet, non mi meraviglia scoprire che dal 2007, per la prima volta nella storia, più della metà della popolazione mondiale vive in città, in immense periferie o bidonville. Non mi turba rileggere la cronaca di due o tre anni fa, quando una coppia di campeggiatori olandesi subirono un tentativo di stupro a Ponte Galeria, in una desertissima campagna romana, a opera di due pastori nemmeno più italiani.

Procedendo nella lettura, anche il protagonista del romanzo di Petruccelli, Pietro, può essere utilmente paragonato al professore del romanzo di Bufalari. Mentre quest’ultimo viene da Firenze ed è rappresentante di una civiltà più moderna cui costantemente paragonare la realtà osservata, Pietro è figlio della classe contadina di cui narra ma dalla quale, allo stesso tempo – avendo avuto la possibilità di accedere agli “alti studi” – comincia a distaccarsi (“Sento di vivere due generazioni e non so con chi andare”) per diventare in seguito insegnante. Metà dentro e metà fuori della propria condizione, vive una personale mutazione, una sorta di emigrazione da fermo: narra e partecipa alla dolorosa fine della sua comunità di origine, ma può forse narrarla proprio perché ormai individualmente figlio salvato, o prodotto (perché poi possa raccontare), da questa particolare Fine dei Tempi. Può conservare un suo proprio ottimismo nel futuro portando con sé, nella memoria, il ricordo di ciò che è stato proprio perché l’apocalisse glielo ha consentito come partorendolo da sé.

Insomma, la “certezza della perdita quasi supera la sua gravità e induce in una sorta di serenità e perfino di buon umore che non è incoscienza ma forse ancora un  bagliore della secolare saggezza contadina”, scrive Giuliano Manacorda nella sua lucida introduzione alla prima edizione del volume. E il romanzo termina proprio con la laurea del giovane di campagna e con la sua successiva partenza per il militare, come a segnare il definitivo distacco per un mondo altro, non noto e irriducibilmente diverso. Una visione progressiva, anch’essa probabilmente giunta oggi al suo binario morto (e non saprei dire con quante ulteriori possibilità palingenetiche).

Manacorda detta qualcosa anche sullo stile di questo romanzo appartenente al filone del realismo ma, come pure sottolineato da Pampaloni per un’altra opera di Petruccelli (“Una cartella piena di fogli”, Interlinea 2001, anche questa su precedente edizione Editori Riuniti 1991), senza le “esibite professioni ideologiche” e gli “stridori espressionistici” tipici del neorealismo.

Nell’opera di Petruccelli, prosegue Manacorda, non si rintraccia “un rigo di arcadia” perché “nata non dalla partenogenesi letteraria ma da un’esperienza reale”. Petruccelli parla da un “fondo autobiografico senza slittare né sui facili piani inclinati della tenerezza e del vagheggiamento del proprio io adolescente, né sugli specchi di una fredda e tutta sapiente letterarietà. Il suo piccolo miracolo lo aveva compiuto proprio in questo equilibrio costantemente mantenuto fra la commozione dei fatti e la dignità della pagina scritta, tra il molto da dire e il dirlo con poco”.

Uno stile conciso, spesso composto di frasi strutturate su un soggetto, un predicato e un complemento, pure mai elementari negli esiti, o tendenzialmente naïf (semmai tra le pagine si avverte un incedere che ricorda la semplicità di certi passi evangelici, pur intrisa di una panica sensibilità pagana). Uno stile letterario tipico di quegli anni e pure di un modo contadino, che non impedisce alle emozioni di trapelare in superficie.

Un’essenzialità che per certi versi trovo condivisa dai grandi scrittori sopravvissuti all’esperienza di guerra o dei campi di concentramento e di prigionia, che è dire un’esperienza nell’asciugarsi preciso delle parole. Come alla fine di un mondo.

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«Nessuno coltiva quel pascolo»
Brani tratti da Un giovane di campagna

Un boschetto di canne
Ora questo piccolo campo nessuno lo coltiva più e io vi pascolo le mucche, ma da esso si alzano ancora le preghiere e le bestemmie per la pioggia che non veniva o per quella che veniva inopportuna; da esso s’alza ancora il mugolio sordo d’una giovane muta che lavorava come un’asina; da esso si alza ancora la voce d’una madre che, trascinandosi ammalata tra i solchi, ripeteva: – Chissà fino a quanto ce la farò.
E una mattina si accasciò sulle zolle e vi rimase. Noi accorremmo solo quando capimmo che il pianto del figlioletto che le stava accanto non era il pianto di vincigliate o schiaffi. Poi quel fanciullo, per ricordarsi del punto dove era morta la madre, vi piantò una canna. Quella canna mise radici e generò altre canne. Si formò un boschetto che ora diventa sempre più grande e in estate e in inverno bisbiglia al vento.

Vivardo e le gazze
Mentre cammino tra le stoppie, eccito le locuste che scappano saltellando; hanno paura come quando, rincorrendole di qua e di là, le acchiappavo e ne facevo lunghe “inserte” per darle alla cola. Com’era contento Vivardo quando le trovava! Prima sceglieva con lo sguardo quelle più grosse e poi con un salto le sorprendeva. Di gazze avvezzate ne aveva due e le portava sempre con sé e quando si sedeva in mezzo ai campi esse gli si posavano intorno e lui sembrava san Francesco. Una domenica se le portò anche in paese e una gli stava a destra e l’altra a sinistra sulle spalle e la gente si fermava a guardare e diceva: – Sembra uno del circo equestre.
Vivardo se ne andò che gli uccelli facevano il nido, ma le sue gazze, quando passavi presso la sua casa, le trovavi immalinconite sulla siepe dell’orto.

Vasi dalla finestra
Ieri sono andato con mia madre al pezzo di terra che abbiamo presso l’Ausente. Al ritorno una ragazza gettava vasi di fiori dalla finestra:
– Perché li butti? – le ha chiesto mia madre.
– Domani partiamo per il Canada.
Chissà come sarà triste restare ad assistere all’ultimo che parte.

All’ombra degli olmi
… Le ragazze ora non hanno neppure voglia di parlare. Causa non solo la stanchezza, ma il pensiero in cui cade ognuna. Le loro compagne, in quest’ora, sono al mare, sulla spiaggia contente o al fresco degli ombrelloni o siedono in compagnia nelle scuole di taglio e non sono rozzi i loro visi né incallite le loro mani; o studiano e imparano tante cose e sono rispettate.
Ognuna, in cuor suo, maledice la terra. Né entusiasma nessuna quella mietitrice meccanica che s’avanza, tirata da un trattore, nella proprietà di Don Marco e che, manovrata da un solo uomo, in un momento ha mietuto già un tomolo di terra. Al vederla, penso che, quando diremo ai nostri figli che noi abbiamo mietuto il grano con la falce, essi ci ascolteranno come se raccontassimo una favola antica.
Il sole è sulla casa di Mario il “guardiacaccia”.
– È già mezzogiorno, – esclama mia madre e va a preparare il pranzo.
Anche gli altri mietitori s’avviano, ognuno alla sua casa. Non si mangia più all’ombra degli olmi, presso le fresche riviere dei fossi, raccolti tutti insieme intorno a pasti preparati come per una festa, dove chi suonava il corno chi la fisarmonica.

Una casa vuota
… Resto a terra col corpo che grava sul cortile… È questo cortile senza bimbi e senza galline. La porta della casa è socchiusa. Entro. Trovo frantumi d’intonaco sul pavimento a mattoni, il camino affumicato ha sul focolare un treppiedi con le zampe in aria e inchiodata al muro una tavoletta su cui è posata una candela a petrolio; in uno stipetto sta una bottiglia riempita a metà di aceto, forse vino un tempo. Una sedia sciancata s’appoggia alla parete; dietro la porta c’è una vanga arrugginita che non sarà lucidata, a marzo; vicino giace un martello che servì a inchiodare scarpe rotte, uno zappone senza manico, un vomero consumato; solo solo, in mezzo alla parete, sporge un chiodo cui il capofamiglia appendeva il cappello; dalle travi del soffitto pendono alcuni anelli di ferro destinati a sostenere salsicce negli anni di prosperità; c’è anche un fascio di rami secchi e penso che, se restassi qui, quest’inverno mi riscalderebbero; le lucertole si rincorrono da un angolo all’altro; sotto il boccaglio del forno giace uno sgabello vecchio attaccato dal tarlo; anche un’immagine di San Giuseppe falegname hanno lasciato! Esco fuori con un desiderio di aria e di sole. Non so che vi sia nella stanza di sopra, ma le rondini e i passeri vi entrano e ne escono per la finestra spalancata. Il terreno intorno è disposto a chiazze: divise da macere, ove nereggia qualche olivo; le viti, non potate, distendono i tralci fra le pietre o si arrampicano bizzarre sui mandorli e sui fichi: di questi ultimi i frutti appassiscono sui rami non raccolti, fornendo cibo ai cani e alle formiche… Qui abitavano Adamo e Gilda. Erano fidanzati quando si costruirono questa casa. Io andavo alle elementari, quando Adamo piantava viti e aranci. Gilda vangava e cantava la ninna nanna alla sua creatura, la prima, che teneva accanto adagiata sulla terra smossa. Poi se ne sono andati in Australia. Ora dicono che quella bambina è diventata una bella ragazza e non sa che cosa sia seminare né vangare.

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ottobre 4, 2010 at 10:48 am

Recensione a: Antonio Paolacci, Salto d’ottava (Perdisa Pop, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 29 Agosto 2010.

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La vita in graffiti di MET l’invisibile

Salto d’ottava (Perdisa Pop, 2010), seconda prova del cilentano (ma bolognese d’adozione) Antonio Paolacci, è un romanzo dall’apertura potente che incede epicamente con anafore e accumulazioni, compatto nella trama, soprattutto convincente nella sua sostanziale bicromia: il color ruggine di una fabbrica dismessa (il “Rottame”) che precipita improvviso in una tonalità di sangue rappreso; il tuono grigio e sordo dell’esistenza e di una città “che colpisce dentro, nella carne come una smania” a cui non si può sfuggire. Colori e tonalità che sono pure il linguaggio moderno e complesso di un romanzo sull’identità, ma poi anche sulla morale (le ingannevoli scatole cinesi della maschera e della verità a essa sottesa), sull’individualismo, la società, i graffi della memoria.

Rispetto al primo Flemma niente più storie intrecciate. L’eroe che campeggia nella storia quasi del tutto da solo è Matteo, anche quest’ultimo narrativamente piegato in due da un unico colpo (la tendenziale linearità della vita curvata in una sorta di chiusa “U” temporale): un solo cadavere che è un buco nero densissimo e dall’irresistibile accelerazione gravitazionale.

Matteo. Persona sedicenne, Persona in skateboard. Matteo di famiglia ricca e perdigiorno appena adolescente, uno skater che riempie con lo spray i muri della vecchia rugginosa fabbrica, il «Rottame», nel limbo che è tra stazione e città. “Met”, graffita ossessivamente, come spinto dall’oscura coscienza di un’identità precaria. Met che fa suo però uno stile sottoculturale (“il mito dei reietti che bevono e fumano e scopano”) con cui crede possibile cambiare il mondo, uno skate per mutare gli ostacoli in opportunità. “Quello che ancora non sa è che la sua maleducazione è stata disegnata per lui, pensata dopo un’analisi di mercato, decisa da una Corporation e rifilata a lui da una campagna pubblicitaria in parte occulta”. Un bisogno di futuro diluito ad arte in un eterno presente.

Intorno al “Rottame”, la notte, gay e spacciatori, un mondo di uomini dalla doppia vita.

Un giorno, nella fabbrica, Matteo scopre un cadavere, scopre che è uno skater come lui, vestito come lui (stesse Converse, stessa felpa, stesse scuciture e strappi…), che ha la sua stessa posticcia identità. Ha la testa spaccata, ma scoprire come è morto o chi lo ha ucciso presto perde d’importanza. Nello spazio della vecchia fabbrica ora dilatato dalla paura, tocca improvviso il fondo di qualcosa che lo rivela nella sua limitata pochezza rispetto a un tuono sordo e smanioso d’improvviso più grande che non gli lascia dire l’orrore a nessuno.

La sera va a un concerto – si stordisce di droga e sesso – cerca di aggrapparsi alla sua identità che sa ormai infranta. Ancora intontito Matteo torna alla fabbrica, prende la decisione di occultare il suo facile doppio, di occultare il conflitto tra ciò che forse sa di essere, ciò che non è, ciò che forse sarà o potrà essere.

Ritroviamo Matteo molti anni dopo: non ricorda il suo compleanno, la sua età, il suo cognome. Si ritrova in vestiti costosi, un divorzio alle spalle (che è un altra liquidazione del suo passato), una piccola casa di produzione cinematografica lasciatagli dal padre ricchissimo, la maschera di uomo arrivato in una casa perfetta e asettica. Pure “Matteo Qualcosa” resta un uomo segnato, difficile ai rapporti sociali, dietro l’ufficialità una doppia vita fatta di luoghi equivoci e eccitanti appuntamenti via web. Matteo vive come se l’intera atmosfera del “Rottame” gli fosse rimasta appiccicata. In parte come Davide, il protagonista di “Flemma”, Matteo non manca di capacità di leggere lucidamente squarci del suo mondo e del suo tempo, ma senza la forza di trarsi fuori, ogni giorno un salto d’ottava, una nota che continua a ripetersi uguale benché con toni più acuti, che non produce melodia. Un’umanità, tra l’altro, fatto di finte trasgressioni, di contatti anaffettivi, di uomini con la maschera (protervi e insinceri anche sotto quella), di tentativi di sfuggire a se stessi.

In questo contesto Matteo è un uomo che resta in attesa di qualcosa, smarrito, irrisolto. Fino a quando il regista Campestri (scartando sulle solite produzioni da cassetta della casa) lo affascina con la proposta di un documentario sulla fabbrica dismessa, sulla sua storia e la possibilità di un suo recupero: un problema annoso e pure irrisolto, una ferita enigmatica nell’identità della città (che nulla ha a che fare con i cascami della vita notturna e morbosa della fabbrica). Matteo prima dell’inizio delle registrazioni deve ritrovare il coraggio di fare i conti con il cadavere nel “Rottame”: necessità, perché il documentario possa realizzarsi senza intoppi, ma di più lo stringente, improcrastinabile confronto con l’adolescenza, la possibilità che questo presente esteso torni a frammentarsi nelle tre forme del tempo, che l’alba possa nascere nuova sia pure con il suo carico di difficoltà.

Due ultime considerazioni. La prima stilistica. E si è già detto che la narrazione di Paolacci si precisa e si dispone su una sorta di spazio piegato con un punto comune e due “code” vicine a toccarsi (e non a caso l’adolescenza del protagonista è narrata in terza persona singolare, e l’età adulta in prima persona singolare, come a riprodurre distacco e simultaneità). Tuttavia Paolacci fa di più (perché lo fa ponendosi previamente un problema di sguardo e costruzione con un’accuratezza che credo gli venga dai suoi studi sul cinema): frantuma ad arte lo scorrimento narrativo e ne distribuisce i tasselli come in un paziente mosaico o un collage-frattale di cui può collocare pensosamente pezzo accanto a pezzo. E dunque le istantanee sulla vita del protagonista adolescente si alternano a quelle dell’adulto e così i ritmi narrativi, le informazioni e le analisi. Paolacci scrive un romanzo solo apparentemente realista, invece continuamente innervato di flussi di coscienza, pensieri e stati emotivi che costruiscono la scena percettivamente e in maniera necessariamente limitata. Il lettore è così avvertito di confrontare sempre il singolo tassello al contesto che mano a mano si costruisce.

L’ultima considerazione è sullo sguardo. Nel suo smarrito peregrinare tra uomini, identità e situazioni, Matteo incontra Doris, una studentessa che fa la escort (con regole molto definite) per pagarsi gli studi, eppure personaggio paradossalmente non doppio, anzi onesto nella sua scabra e fredda visione della vita: “Gli equilibri si fondano sui ruoli… C’è chi comanda e chi ha bisogno di essere comandato. A letto o per strada è la stessa cosa. Nessuno davvero aspira all’uguaglianza, e tanto meno all’imparzialità, mi spiego? Perché dove non esiste imparzialità non esiste limite”. Il che – sia detto incidentalmente (ma non tanto) qui e per il resto del libro – di Paolacci coglie il sicuro sguardo morale mentre dice, senza moralismi isterici o oscuri intenti politici, una parola definitiva e dura sull’uomo del tardo evo berlusconiano.

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agosto 29, 2010 at 9:27 PM

Recensione a: Roberta Lepri, La ballata della Mama Nera (Avagliano, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 26 Luglio 2010.

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Il mondo invisibile accanto a noi

Gli zingari, si sa, rubano. Ed è opinione diffusa che, rubare per rubare, si dedichino parecchio anche ai bambini. Per il suo romanzo “La ballata della Mama Nera” (Avagliano, 2010) la grossetana Roberta Lepri sceglie dunque un tema complesso, irto di luoghi comuni dove è facile cacciarsi. Terreno che però affronta con piglio sicuro, anche forte ormai dell’esperienza di tre romanzi e di una capacità di narrazione ormai solida (e un paio di imprecisioni temporali non incidono sulle sorti del romanzo). La capacità, anzi, di saper porgere senza intoppi e pesantezze la storia tenendone sempre strette le briglie è il pregio più visibile del libro che riesce, così, a svolgersi con una trama coerente e personaggi sempre credibili.

Ughino vive in una famiglia che ha fatto i conti con qualche naufragio di troppo nel gran mare delle speranze. Il piccolo, un bimbo emotivo e sensibile, non può dunque che idealizzare la famiglia della sua amica Sara Signorini: padre brillante chirurgo, madre assistente sociale, nucleo familiare praticamente perfetto. Il padre di Ughino, Gino Cellini, poliziotto manesco e poco brillante è intanto chiamato a indagare sul rapimento di un bambino, Marcellino, che si scopre essere stato ucciso e sepolto vicino a un campo nomadi. A capo della piccola comunità zingara, la veggente Mama nera, e tre donne che sembrano primordiali Eva provenienti dalle altrettanto riconosciute culle dell’umanità: il gelido Nord, L’Est euroasiatico e un Sud africano o amerindo.

Qui Gino Cellini già compie, con la scarsa elasticità dell’occidentale stanziale, un primo errore: confondere il piccolo assassinato con suo figlio in un pericoloso gioco di immedesimazione che si salda con la figura fosca, indecifrabile e dunque minacciosa dei nomadi. A nulla serve l’ovvia constatazione della Mama: “I figli ci avanzano i nostri. Se ne vogliamo degli altri ce li facciamo…” perché ci si mette pure lo zingaro Manuel a pedinare misteriosamente Ughino ogni qualvolta frequenti i Signorini, spaventandolo a morte e confermando Cellini nelle sue congetture.

La catastrofe (nel suo senso originario di “ribaltamento”) scoppia proprio quando Ughino confessa la sua terribile paura all’amica Sara, la quale si sente in dovere di rivelare a sua volta un segreto, ben più inquietante, celato a casa sua. Tutto a questo punto precipita: Manuel rapisce Ughino che è salvato, ma in realtà nuovamente rapito dai Signorini. Un gioco impazzito di pedine su una scacchiera più grande che alla fine si rivela nello scontro, attorno a una losca “donazione” di organi, tra una cosca mafiosa e la polizia dello scaltro commissario Spitzer, capo di Cellini. Quest’ultimo è messo di fronte, così, ai pregiudizi che gli hanno impedito di guardare al di là del proprio naso.

Insomma, pare dirci Roberta Lepri, cosa abbiamo contro gli zingari – che pure, è vero, rubano – quando l’orrore continuamente irrompe dall’interno della nostra società? Però con il pericolo di scagionare indirettamente i ricchi Signorini trafficanti d’organi se la colpa è poi di una potente criminalità che ve li costringe (e la pagina dove il “fascino del male” si fa incontro al chirurgo valeva la pena di essere indagata meglio e forse seguendo altre strade). Pericolo da cui, però, la Lepri riesce comunque a metterci in guardia, in qualche modo segnalandoci che tutti possiamo diventare ingranaggio di un sistema (mafia o altro) quando rinunciamo a lottargli contro in prima persona, magari non accorgendoci per tempo della rete compromettente in cui rischiamo di cadere.

Contraria la figura dello zingaro Manuel che, collaborando con la polizia (d’accordo con Spitzer rapisce Ughino a fin di bene) è costretto, per questa sua compromissione, a essere espulso dalla comunità di appartenenza e a “dissolversi” in quella dei “gagè”, realizzando così il costo della definitiva lacerazione tra coscienza individuale e irriducibile identità nomade. Il che mette la Lepri nella posizione di essere un’idealista pur senza idealizzazioni. Tanto da risultarci larvatamente anche un po’ pessimista, se il lieto fine – una possibilità di nascente convivenza civile – cui non rinuncia, sappiamo essere una convivenza per ora relegabile quasi del tutto solo a un libro.

Non ci rimane, allora, oltre alla Mama (che reintegra nella comunità Manuel in virtù della sua superiore comprensione delle cose), che affidarci a una figura come quella del commissario Spitzer, che si basa su solide indagini, e poco s’abbandona a sacrificare sull’altare dei luoghi comuni. Così come ci piace pensare abbia scorso i dati ufficiali sui rapimenti di bambini raccolti dagli organi di polizia e da studiosi del problema, cifre in cui gli zingari (confusi con chi?), nonostante l’opinione comune, non compaiono mai.

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Written by antoniocelano

luglio 26, 2010 at 12:32 PM

Recensione a: Marino Magliani, Colonia alpina Ferranti Aporti Nava (Senzapatria, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata», 11 Luglio 2010.

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Della morte e della rinascita

Ho conosciuto Marino Magliani, autore del libro Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava (Senzapatria, 2010), al Salone internazionale del libro. Un uomo dallo sguardo mansueto, il sorriso lontano di una vecchia fotografia, con cui ho scoperto di avere parecchi amici in comune. Magliani, ligure classe 1960, abita oggi in Olanda, sradicato in Olanda: “In quel mondo totalmente altro Marino non può attecchire in radice, e per questo fiorisce mondi” e scrive, dice di lui Marco Rovelli. Mentre quando torna in Liguria “vive, ma non scrive” pur solo là sentendosi pienamente scrittore. E Colonia alpina è un racconto lungo denso, scritto con una liricità sempre molto ben controllata, alla maniera antica, come direbbe il suo amico Vincenzo Pardini.

La storia nasce da uno spunto semplice. Davanti alle dune della spiaggia sempre mutevole di un paese nordeuropeo uno scrittore ricorda la sua infanzia in una stretta vallata della Liguria. Ricorda un padre già vecchio e lontano per lavoro, ricorda la madre dedita ai lavori della terra e alla raccolta delle olive. Ma soprattutto rivive (è altro il ricordare?) la sua infanzia divisa attorno ai due centri della vallata, la propria casa (sotto tutte le altre case,gravatada tutto il loro peso) e la chiesa di San Giovanni del Groppo (di cui diviene chierichetto), legate da un paese “piantato al selvatico, come si intende da noi quando il sole se ne va presto”. E buio è la parola che più ricorre nell’intera narrazione, un’oscurità che non è quella della notte, ma quella dei corridoi, dei portici, delle navate “che assomigliava a quella delle chiese, al buio che si forma distante attorno ai candelabri e ai lampadari, il buio che esiste soltanto perché da qualche altra parte esiste una concentrazione di luce”.

Un buio e un silenzio (anche questo mai perfetto, abitato da fruscii e piccoli rumori) che hanno un qualcosa di non esattamente definito, di non realizzato, di sconfitto. Lo stesso buio delle stalle, “in un tepore di code, gesti inutili e perdenti dall’eternità, con cui le bestie tentavano di togliersi di dosso le mosche”. Il che coglie pure una pendolarità dello sguardo che all’autore consente di saper immedesimarsi e guardare da punti di vista contrari, sorprendenti e stranianti: “La notte nel letto guardavo la fessura di luce che formava la persiana. Il mondo di fuori attraverso la mia stalla”.

Una vallata chiusa, una condizione antiedenica che tuttavia, insieme agli uomini, alle mosche, alle lumache, alle mulattiere e agli olivi, alla paura e al destino, sono comunque misticamente tutta la vita possibile del luogo. Un posto che si può rifiutare fuggendo, ma sempre con la coscienza che lo si farà mettendo a repentaglio tutto, la vita stessa. Anche così, agisce nel protagonista (che poi è Marino Magliani) un malessere che si concretizza in una vertigine che è solo la coscienza della sua inquietudine, una premonizione del suo futuro: “cominciai a chiedermi cosa avrebbe mai combinato nella vita uno come me, figlio di olivicoltori, se non riusciva a salire sugli alberi come faceva il popolo degli ulivi”.

Il piccolo Magliani sogna così luoghi, amici e attività che siano una possibilità nuova, un’illusione di diversa condizione di vita. E opera uno di quegli “strappi”, di quelle partenze improvvise e rischiose così frequenti nel libro e nella sua scrittura. Convince i genitori a trasferirsi per la continuazione delle elementari in un collegio a Nava e poi in altri a Mondovì e Velletri.
Un mondo che in realtà scopre anaffettivo e opprimente, un limbo che si rivela una nuova sconfitta (anche fuggire alla fine è una sconfitta) e che resta sospeso tra un’acuta nostalgia del ritorno e i tentativi di nuovi esili volontari.

Un tema ricorrente in Magliani, già trattato in altre prove, ad esempio in Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, scritto a due mani con il toscano Vincenzo Pardini (Transeuropa, 2010), libro che ha or ora vinto l’importante premio “Terre di Mezzo” che si tiene a Mortara, PV). Ma se là i protagonisti erano due gemelli eterozigoti, qui i due personaggi sembrano usciti da una gestazione dagli effetti teratologici e surreali. E tutto Colonia Alpina è in realtà un racconto che tiene avvinta in unità una lacerante dualità. Come già detto due i centri del paese, ma poi anche due le chiese, persino il numero 66 che la madre ricama sul grembiule del bimbo che parte per la colonia (un gemellare 6 + 6, che è anche un maledetto doppio 9 rovesciato, pur senza alcuna implicazione luciferina).

Davanti alle dune del mare, l’uomo ricorda tutto questo. La memoria pare forte e vivida. In realtà sta tentando da tempo di forzare i “lucchetti arrugginiti” che resistono agli innumeri tentativi di ricordare compulsivamente i luoghi dell’infanzia, che appare più volte rimemorata e riattraversata. Soprattutto un lapsus tormenta Magliani, un dettaglio per l’anno scolastico 1970-71, in quinta elementare: scopre, contrariamente al precedente biennio, di non ricordare dove ha dormito tutte quelle notti.
Decide così di partire, scavato dal tarlo, un giorno di ottobre del 2009, dall’aeroporto di Schiphol. Il ritorno sulle tracce della memoria è difficile. Già da tempo, infatti, la vallata gli era apparsa “estranea, chiassosa. Bestie nelle stalle non ne vivevano più, neanche le stalle s’erano conservate, al loro posto i muratori avevano costruito alloggi per i turisti”. E il lapsus della memoria scandalizza l’archivista della colonia, che indaga intanto su quei suoi anni trascorsi in colonia: scandalizza il fatto che il protagonista possa essere tornato in quel luogo (intanto anche quello sostituito da un centro sportivo) per un dettaglio così poco fondamentale, ma che invece per l’uomo è tutto, la possibilità stessa di esorcizzare una paura che ha inizio proprio quando da Velletri i frati, per una sorta di angosciosa incompatibilità con l’ambiente, lo riesiliano a casa, in un mondo che ormai gli sbarra il passo per il ritorno.

Insomma, il tentativo di fare luce esalta ancor di più il buio della penombra, la mancanza di un preciso ricordo di quelle notti finisce per risvegliare la dolorosa memoria del servizio militare che lo ha allontanato  nuovamente da casa e dal padre morente, e che scatena in lui una depressiva insubordinazione che gli costa il carcere, dove viene imbottito di psicofarmaci che gli dilavano ogni reminiscenza. E l’infruttuosità della ricerca ostina l’uomo che decide di non ripartire per l’Olanda iniziando a confondere le piste dell’andare e del tornare lungo un confine dilatato e allo stesso tempo soffocante che ha le sembianze di un bosco di notte. L’uomo fugge, è braccato dai carabinieri mandati dalla moglie a cercarlo o forse dalla forestale che però potrebbe essere anche una squadra di cacciatori che inseguono un cinghiale. Si inizia pure a dubitare se l’uomo sia solo: il protagonista incontra un bambino, sul grembiule ricamato un sinistro numero 90 (la paura, certo, ma pure i suoi 9 + 0 espressione del nulla della morte), o forse è solo un ricordo, o il delirio. Più avanti l’inseguito insegue un altro fuggiasco, viene a sapere dall’archivista che è morto, che si è gettato da una finestra alla fine della sua depressione in una caserma  militare nel 1979. E dunque, ci  veniamo a trovare di fronte all’assurdo.

Come scrive Giulio Mozzi nella sua deliziosa introduzione al volume: “c’è qualcuno che dovrebbe essere vivo e invece è morto, o qualcuno che dovrebbe essere morto e invece è vivo” perché il chiarore dell’alba che dirada il buio del bosco altro non è che una fucilata di un cacciatore che coglie la preda: un bimbo di nove anni fuggito quella notte da una colonia. Nei romanzi di Magliani, scrive con precisione Mozzi, “succedono sempre le stesse cose, e questo è meraviglioso. Succede sempre ciò che è questione di vita e di morte; e nient’altro ha importanza”. E forse ha ragione Francesco Improta, che questa morte (queste due morti, quella dell’andare e del tornare, racchiuse come in una matrioska) è un tentativo di Magliani “di esorcizzare quel periodo della sua puerizia”. Mi restano dubbi, invece, che il libro possa essere con certezza la fine di un vecchio modo provinciale di narrare che aprirà finalmente a delle novità tematiche meno ossessive. Perché se la morte è un mistero, lo è anche la rinascita, che spesso usa in forme nuove la stessa creta e in modi vecchi la creta nuova. E la paura della morte e l’ossessione della rinascita, mi pare soprattutto in Magliani, proprio come scrive Mozzi, sono temi di nessun provincialismo e il segno di un grande scrittore.

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Il caso Elisa Claps

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 2 Aprile 2010.

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Il commento: e ora, spiegatemi, cosa c’entra la ‘ndrangheta?

Le valutazioni sul caso Claps, soprattutto quelle via Facebook, mi pare che si siano in gran parte fermate al dato di attualità o all’espressione di opinioni localmente articolate sul dolore della famiglia. Molti hanno insistito sulle omertà di quell’ambiente “untuoso” di favori, protezioni e silenzi che molti lucani in fondo pensano sia Potenza, al di là delle polemiche e delle smentite che le hanno generate.

Ma cosa deve significare questo? che da questo punto di vista Potenza denunci delle gravi specificità locali rispetto al resto della Basilicata, oppure che, siccome tutto il mondo – almeno quello meridionale – è paese, di Potenza si deve pensare non possa, non debba, fare eccezione?

Io credo, intanto, che bene abbia fatto Gaetano Cappelli a criticare quanti, durante la manifestazione a sostegno della verità sul caso Elisa Claps, hanno anche richiamato alle vittime di mafia. Perché è certo, come pure ha scritto Paride Leporace, che quanti avrebbero dovuto amare luce e verità (inquirenti, autorità della chiesa, vari testimoni ecc.) hanno creato, invece, un clima omertoso e depistante intriso di familismo, favori politici, ataviche paure e imbarazzi. Ma è pur vero, mi si passi la metafora un po’ kitsch, che la ’nduja non è la salciccia lucana e che insomma, il porco è lo stesso, ma la lavorazione degli ingredienti è diversa, ché qui non si tratta di poteri che sono stato nello stato, di omertà sollecitate dalla violenza fisica, di infiltrazioni nella sfera economica a scopo di illecito lucro. Anzi il continuo richiamo alla mafia, alla camorra, alla ’ndrangheta calabrese può essere pericolosamente ascritta a una cultura del complotto tutta italica che, al solito, salendosene per li rami, va sempre a cercarsi una regìa settaria e occulta senza mai volto in cui tutto pare interconnesso, tutti sono colpevoli e dunque nessuno.

Invece il caso Claps e quello dei fidanzatini di Policoro recentemente ricostruito proprio sulle pagine di questo giornale da Andrea Di Consoli, certo con attori e ruoli parzialmente diversi, rivelano una specificità non tanto potentina quanto più largamente lucana. Una tipicità che sollecita non solo e non tanto dati di cronaca di sia pur scottante attualità, ma anche strutture ben più profonde di quanto si pensi che agiscono nelle situazioni delle quali ci stiamo occupando. E soprattutto a fronte di altri casi omicidiari dove i livelli di omertà e di perizia nelle indagini sono solitamente stati rispettivamente ben più bassi e ben più alti.

Nel 2003, proprio Di Consoli scriveva dei lucani che “è dalla notte dei tempi che gli abitanti di questa strana terra se ne stanno in silenzio, in attesa degli eventi. I lucani sono specializzati a ingoiare i rospi… a picchiare i figli pur di non picchiare i potenti. Non è un popolo litigioso quello lucano… la morale della Lucania è che bisogna essere amici di tutti”. Certo, concludeva lo scrittore, “bisogna sempre diffidare delle persone troppo buone, di quelle che sopportano le angherie e le prepotenze senza scomporsi”, ma purtroppo non è stato questo il caso. Qui non ha soccorso nessun interesse sovradeterminato capace di chiamare una comunità alla risposta sia pure ferma e civile come, ad esempio, per Scanzano qualche anno fa. Qui la reazione ha dovuto fronteggiare e soccombere ad avversari ben più potenti e invisibili di un qualsiasi governo, perché se ne stanno incistati da tempo immemore nella testa dei lucani: i localismi tribali, la prevalenza dei “fattori genealogici”, le invidie feroci, i perbenismi piccoloborghesi, il rispetto acritico delle sfere politiche ed ecclesiastiche, gli imbarazzi e i silenzi della chiesa, gli orgogli individuali e di casta (quelli che, come scriveva Nietzsche, alla fine vincono sempre sulla memoria dei fatti), le pigrizie intellettuali. Chincaglieria che ci portiamo dietro da tempo immemore. Una miscela potente che ancora una volta ribadisce, certo stavolta su più piccola scala, quanto sia difficile che in Basilicata possa imporsi una mentalità atta a creare quella consapevolezza in grado di “annientare l’incoercibile pensiero di non poter essere in nessuna possibile storia civile” (così, più o meno, vado a memoria, De Martino).

Parole fumose, astratte? ma io in realtà parlo – per Potenza, per Policoro, per il resto della Lucania –, non solo delle facilonerie e delle pigrizie investigative delle prime indagini, ma di fattori condizionanti che pure hanno funzionato nel paralizzare l’azione della magistratura e quella inquirente, parlo dei testimoni a orologeria per interesse personale o conto terzi (con relativi depistaggi), dico delle ascendenze politiche e delle rendite di status di certe famiglie locali, del fango gettato sulle vittime (non mi riferisco solo ai festini di Policoro) e sui panni sporchi da doversi necessariamente lavare in casa, dell’intoccabilità e dell’insospettabilità a prescindere delle autorità ecclesiastiche. E, per il caso Claps, parlo della recente “gara” tra i testimoni della Trinità a non voler restare con il classico cerino acceso tra le mani dopo la grottesca e paradossale scoperta del cadavere di Elisa addirittura prima della sua (ri)scoperta ufficiale.

Detto questo, va dunque sottolineato quanto la succitata manifestazione tenutasi nel Capoluogo lucano sia stato un fatto massimamente positivo per la reazione della parte sana della società, per il dato di protesta collettiva, per la tensione libertaria contro le locali collusioni. Una civile rivolta contro l’ingiustizia che però potrà avere un effetto strutturalmente e permanentemente positivo solo se ognuno (i soggetti indagati o coinvolti, i manifestanti, persino chi in questo momento scrive) sarà capace individualmente di risolversi a un coraggioso “combattere dentro” che, oltre a far andare incontro alle proprie responsabilità i colpevoli, contribuisca a spezzare quella cappa, quella camicia di forza storico-culturale, spesso appena palpabile ma pesante, che ci portiamo dentro ogni giorno. Perché poi non ci siano altre Elisa, altri fidanzatini, altri omicidi così malamente e straziantemente irrisolti.

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Recensione a: Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 14 Marzo 2010.

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Lavoro e sesso ai tempi dell’altoforno

Può  accadere che in un romanzo dedicato alla provincia industriale italiana, Piombino finisca in qualche maniera per chiamare Melfi. Il libro è Acciaio, esordio narrativo di Silvia Avallone (Rizzoli, 2010). Il suo primo risultato, quello di aver spaccato polemicamente la cittadina toscana in cui è ambientata questa storia d’amore e d’amicizia tra le adolescenti Anna e Francesca. Vicenda che si esalta e si consuma, per poi faticosamente ricostruirsi, sullo sfondo di una Piombino dominata dalla fiamma dell’onnipresente altoforno «Afo 4» – in realtà ultimo morente mostro di una mitica «Era dell’acciaio» ormai alla fine – che arroventa insieme a un inestinguibile rossore estivo i casermoni da socialismo reale di via Stalingrado (una strada inesistente nel piccolo centro siderurgico toscano, ma traducibile anch’essa dal russo, e dal nomignolo dato al baffuto compagno Josif Vissarionovič Džugašvili, come «Città dell’uomo d’acciaio»). In questo spazio tra fabbrica e città di mare i lavoratori delle acciaierie Lucchini vivono le loro storie di fatica e di morti bianche, ma pure di droga e di sesso, di inadeguatezza e di violenza familiare, di truffe e di furti, di fierezza e di sconfitte. Anche la loro estate trascorre come può su una spiaggia di fortuna, dove la gente se ne sta a guardare i traghetti che partono per l’Elba: un paradiso destinato solo ai turisti con i soldi per permetterselo.

Dunque ovvio potesse sollevarsi una difesa scandalizzata (e francamente un tantino ideologica) della rispettabilità operaia e dell’onorabilità cittadina. Purtroppo però, prima che il libro fosse realmente letto e attentamente valutato, come la realtà a esso sottesa (pur nella ferma convinzione che sbaglierebbe chi pensasse a un romanzo come a un saggio di sociologia).

Una situazione di cui si parlava, a proposito di Melfi, proprio sulle colonne di questo giornale il 25 febbraio scorso in un convincente articolo di Rocco Pezzano. Perché, per quanto se ne dica, il declino del paradigma fordista e gli irresistibili processi di globalizzazione e delocalizzazione delle imprese di questi ultimi decenni hanno nettamente evoluta l’identità operaia. E il romanzo della Avallone (come i dati snocciolati da Pezzano) si calano in una realtà vera a Piombino come a Melfi: la classe operaia, prima figlia di ceti contadini e artigiani violentemente sradicati e inurbati (della cui parabola finale e nevrotica racconta un altro bel romanzo scritto da Dante Maffìa, Milano non esiste, Hacca 2009), è ormai una declinazione piccolo-borghese della diffusa e nebulosa classe media nazionale. Gruppi con aspirazioni di vita e aspettative sociali radicalmente diverse dall’orizzonte di fabbrica e dai suoi ritmi e carichi di lavoro, origini che ne schiacciano nel disagio gli ormai sfumati contorni sociali, sottraendoli a ogni ulteriore progetto di palingenesi individuale prima che collettiva.

E allora la cocaina e le amfetamine in fabbrica, i telefonini sul lavoro, la musica sparata nelle orecchie, la discoteca prima del turno, il «perenne desiderio di scopare, là dentro» dando «un’occhiata alla bionda del calendario Maxim». E poi un quartiere abitato da disillusi e da sfaccendati, da piccoli spacciatori e da sbroccati, da giovani che sempre sognano di partire, dai rissosi, dagli sconfitti. A cosa serve asserire, allora, per citare l’ottimo Pezzano: «l’operaio non si droga»? A cosa serve sostenere che «la tristezza regressiva da provincia frustrata, così come lo smarrimento legato alla perdita presunta degli ideali del tempo che fu, cominciano a essere una caricatura un po’ datata e manierista della quale prima ci si libera meglio è»? (così il sindaco di Piombino su «Il Tirreno» del 2 febbraio 2010). Sorprende.

Invece, nel libro, nessuna realtà ridotta a macchietta, e nemmeno alcuna tentazione neorealista, ché alla giovane autrice ciò che interessa raccontare sono «le vite dei giovani che ancora vivono nei palazzi popolari» con l’uso di una scrittura veloce eppure controllata, dai dialoghi duri, spesso violenti, benché mai dai toni cinici o crudeli. Una strana mescolanza di realismo espressionista e di empatica attenzione alla sofferenza psicologica dei personaggi, di linguaggi bassi e citazioni colte (D’Annunzio, Carducci, Eliot).

Acciaio è il romanzo di formazione di due adolescenti, Anna e Francesca. È la scoperta della sensualità dei loro corpi sulla spiaggia, lo smarrimento delle prime emozioni, la lotta dei sogni contro la loro fragilità, contro lo svilimento e il pervertimento sempre tentato dal male del mondo circostante. È la storia di due ragazze della generazioneno-future: marginalità della scuola, individualismo, assoluta mancanza di ogni attitudine all’impegno sociale (l’autrice riesce a far toccare quasi con mano la reazione fisica di repulsione di Anna nei confronti di una coetanea portatrice di handicap), massimo gap generazionale con le famiglie (del resto diffidenti e lontane anche tra loro, composte di madri inconcludenti e padri balordi), una voglia infinita di evadere dal proprio mondo.

Acciaio è la storia di un’amicizia tanto forte da escludere il mondo circostante, di una complicità così vissuta da sfiorare l’innamoramento, da bruciare il proprio carburante fino alla separazione e alla ricerca di una possibilità altra di crescita finalmente fuori, nel mondo esterno. Meglio sarebbe dire nel deserto della propria città. Anna, personaggio più aperto e positivo, tenterà la via dell’innamoramento con un amico del fratello, sentimento ben presto strozzato da un’arida ripetitività, dall’incapacità di sostituire il vuoto lasciato dall’amica. L’introversa Francesca, invece, violentemente malmenata da un padre morboso e delusa da una madre incapace di difenderla, sperimenterà una personale catabasi che la trascinerà in un locale per soli uomini. Solo una tragedia, un incidente sul lavoro, creerà le condizioni per la problematica rinascita del sodalizio.

La vita di Anna e Francesca, come quella del quartiere al quale appartengono, sembra giocare tra due luoghi, meglio, tra due utopie. La prima è quella del falansterio operaio, l’altoforno che domina la città e che pare nutrirsi di un’energia inestinguibile. Un’eternità che si svela invece più apparente che reale: «Afo» è solo l’ultimo di quattro forni dismessi e delocalizzati che il sopraggiungere dell’inverno pare quasi spegnere. L’altoforno è il passato.

La seconda utopia ha il nome di donna: è l’Elba (non a caso dagli etruschi una volta chiamata «Ilva», come le acciaierie prima che fossero acquisite dalla Lucchini e compartecipate dai russi), l’isola dove alla fine Anna e Francesca si ritrovano. Come a dire un sogno più pulito verso il quale nuotare, il futuro femmina o forse la riappropriazione di un territorio che si è sempre avuto sotto gli occhi e sempre si è lasciato al godimento o allo sfruttamento di altri.

Di padre piombinese, Silvia Avallone è nata a Biella nel 1984. A 16 anni si è trasferita a Piombino frequentandone il liceo e muovendo i primi passi letterari. Vive a Bologna. Ha esordito con la raccolta di poesie Il libro dei vent’anniAcciaio è il suo primo romanzo. C’è chi lo sostiene per lo «Strega».

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Written by antoniocelano

marzo 14, 2010 at 7:36 PM

Intervista a Maria Carmela Calice

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il  30 Giugno 2009.

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La penna non è snob

L’editrice fra istituzione, voglia di sinergie e realtà lucana

Finita la festa, gabbato lo santo? Qualcuno può averlo pensato dopo la chiusura della Fiera del libro di Torino, magari pure rassicurato dal ruolo poco più che testimoniale espresso dalla presenza dello stand del Consiglio regionale della Basilicata.

Fatto sta che i problemi sul tavolo dell’editoria lucana sono rimasti tutti penosamente aperti. Il difficile stato delle case editrici creato dalle poche risorse non solo economiche, soprattutto la mancanza di una normativa regionale dedicata e una difficile concertazione dei tanti soggetti parte in causa: dagli autori alle case editrici, dall’Università alla scuola, dalla Regione al sistema bibliotecario, in un gioco culturalmente suicida di presente latitanza – ci si passi l’ossimoro – di un po’ tutti gli attori di questo singolare cast.

Tuttavia, grazie anche alla disponibilità di Maria Carmela Calice e di Rosetta Maglione, ci va di iniziare a scoperchiare finalmente la pentola, diradarne il fumo e saggiarvi lo stato dei principali temi contenuti. Uno sguardo dal di dentro, pregi e difetti inclusi, da chi questa situazione vive con disagio.

Con una speranza. Quella cioè che tutti quanti leggeranno le due interviste vorranno (editori, scrittori, politici, funzionari di istituzioni bibliotecarie e scolastiche, perché no?, intellettuali e lettori) a loro volta intervenire, dando maggior sostanza e senso al dibattito.

In questa prima puntata abbiamo incontrato la Calice Editori di Rionero in Vulture nella persona della Signora Maria Carmela che gentilmente, ma fermamente, come nel suo stile, ci risponde:

Dott.ssa Calice, sempre convinta che a Torino sia stato più importante portare i libri che partecipare di persona? Non crede che le fiere siano un’ottima occasione per intessere relazioni sul piano nazionale, per parlare del contenuto dei suoi libri ai curiosi e ai lettori?

Non ho mai pensato che sia meglio mandare i libri e non partecipare. Quest’anno è andata così, ma sia l’anno scorso a Torino che a Roma sono stata presente ed è stato interessante proprio per i rapporti che si sono creati con gli altri espositori e con i visitatori.

Nel suo intervento di risposta sulla mia inchiesta sulla presenza dell’editoria lucana alla Fiera del Libro di Torino ha molto ben spiegato quali sono le cause del ridotto peso dell’editoria libraria in Basilicata. Non crede se ne possa uscire anche con la collaborazione tra case editrici, magari associandosi, dividendo i costi dello stand (quello del Consiglio Regionale a parte) e ottimizzando i profitti con in più il vantaggio di dare un’idea di compattezza dell’editoria lucana sul piano dell’immagine?

Mi piacerebbe consorziarmi con le altre case editrici lucane, ma credo sia molto difficile perché, a parte qualcuna più antica, le altre sono di recentissima costituzione e penso che vadano ancora alla ricerca di una loro identità.

Non crede invece ci sia anche una certa dose di diffidenza o di pigrizia imprenditoriale? In fondo non si tratta di un afflato volontaristico, bensì di scelte con ricadute economiche anche importanti…

C’è senz’altro anche pigrizia e diffidenza, ma la verità è che ci vogliono investimenti rilevanti e nessuno di noi è in grado di rischiare.

Partecipa a fiere più piccole, dove i costi sono magari più  contenuti?

Sì, soprattutto alle piccole fiere locali.

Rispetto a quanto è possibile fare, come sono i rapporti con gli altri editori lucani? Nonostante la varietà dei vostri cataloghi, mi sembra di leggervi comunque uno stile, un tono piuttosto accomunante… proponete delle coedizioni, delle presentazioni, dei progetti comuni?

I rapporti sono buoni e cordiali, ma finora ancora non siamo riusciti a fare iniziative comuni.

Come mai l’editoria locale (se non per casi singoli) non riesce ad attrarre i grandi scrittori lucani? È una questione economica? Di distribuzione? Di innovazione delle collane? Oppure dipende dagli scrittori che magari vi snobbano?

Credo che nella sua domanda ci siano già le risposte, ossia: è un problema di costi, di distribuzione sul territorio nazionale (ma le grandi messaggerie non prendono piccoli editori), ma anche di snobismo: chi scrive un  libro preferisce pubblicare fuori regione, anche pagando e spesso il libro non viene distribuito affatto. A me, però, è capitato anche di rifiutare alcune proposte per mancanza di coraggio e poi me ne sono pentita.

Accosto due fatti solo apparentemente scollegati. Il primo è che nel panorama italiano il lavoro editoriale è andato mano a mano perdendo il peso di una volta anche con ricadute pessime sulla qualità del prodotto finale. Il secondo è il dato di fatto sottolineato giustamente da Paride Leporace e cioè che la “battaglia” per la presenza dell’editoria lucana a Torino si sia persa proprio sul piano della visibilità. Alla luce di ciò ritiene che gli sforzi per eventuali investimenti in marketing, comunicazione e grafica giochino tutto sommato un ruolo ancora marginale in Basilicata?

Sicuramente a Torino poteva andare meglio sul piano della visibilità e se avessero fatto gestire a noi editori l’intera operazione forse avremmo ottenuto di più, ma il problema è che il protagonista era il Consiglio Regionale con le sue pubblicazioni a cui si accodava l’editoria lucana e non viceversa, anche forse per colpa nostra…

Ma non ritiene una contraddizione nei termini o, per dirla più francamente, uno scandalo, che il Consiglio Regionale vi porti nel proprio stand e che invece la Regione invece non sia stata capace di varare un qualsiasi provvedimento di legge a sostegno delle vostre attività? Possibile che la Regione anche attraverso singoli esponenti non vi abbia mai fatto proposte concrete? E, se sì, perché sono sfumate?

Le spiego: quando fummo convocati la prima volta dall’allora presidente Bubbico, che aveva deciso di dare una svolta con una legge a sostegno dell’editoria, ci presentammo in tanti, pieni di entusiasmo e voglia di fare. Successivamente, quando si è compreso che la legge non sarebbe mai arrivata (e non ne comprendo i motivi) e che l’unica proposta che rimaneva in piedi era la partecipazione alle fiere con lo stand del Consiglio, si sono tutti persi per strada e alla fine ci siamo ritrovati solo in 3 o 4, ma temo che l’anno prossimo non ci sarà proprio nessuno.

Non si capisce perché non si riesca a fare una legge come in altre regioni. Ogni tanto qualcuno ci promette che se ne occuperà, ma poi tutto tace. Forse si crede che produrre cultura, tutto sommato, non serve a nessuno.

Certo in tutto questo la Regione sconta una pericolosa fragilità  di costruzione degli spazi di democrazia nel senso che l’istituzione non si fa, in quanto soggetto politico forte, promotore della crescita di un pezzo della società civile in Basilicata. Ma non crede che nel discorso, sul piano culturale, si annidi pure una malintesa concezione della modernità per cui protagonisti dell’editoria siano soprattutto quotidiani e televisioni? Che non esista una modernità del libro e anche un modo moderno di fare i libri, il che mi pare nasca da una generazione di politici che legge poco?

Il punto cruciale è proprio questo: si guarda al libro come ad un oggetto sorpassato. Quelli della mia generazione, quando si potevano permettere di comprarne uno, guardavano al libro come all’oggetto di massimo desiderio, se lo scambiavano con gli amici ed erano capaci, poi, di passare ore a discuterne, confrontandosi, scontrandosi anche, ma crescendo. In quanto alla classe politica, che dire? Oggi forse non hanno tempo, dovendo sempre ricucire liti e strappi.

Però  mi pare che questa fragilità costruttiva finisca poi per tradursi paradossalmente, sul piano pratico, in un vantaggio in favore della Regione quando quest’ultimo soggetto si fa a sua volta editore per motivi apparentemente istituzionali. Insomma, non crede che il Consiglio e la Regione per altri versi siano pure parte in causa e cioè che nonostante vi diano il contentino di portarvi a Roma e a Torino, la dura realtà è che l’istituzione regionale dal punto di vista editoriale resti un vostro agguerrito concorrente?

Lei esagera a parlare di agguerrito concorrente, ma una cosa è certa: sia la Regione che il Consiglio non dovrebbero fare gli editori…

Allarghiamo il campo. Come reputa nei confronti della sua casa editrice l’interesse di un’Università come quella della Basilicata?

Ecco, a proposito dell’Università, il ruolo della Regione doveva essere anche quello di raccordo tra i diversi soggetti che si occupano di cultura e penso anche alle associazioni culturali che ci sono in questa regione. Sarebbe straordinario se si incontrassero case editrici, associazioni, università per la costruzione di progetti di vasto respiro, il tutto mediato dagli uffici competenti regionali. In quanto all’attenzione dell’Università, non so che dire, forse perché la maggior parte dei docenti viene da altre regioni e non conosce la realtà locale.

Nel suo intervento a seguito del mio reportage su Torino ha detto che scarso è il sostegno delle istituzioni bibliotecarie lucane. In che senso?

In Basilicata abbiamo una Biblioteca Nazionale, due Provinciali e circa settanta Comunali di cui solo pochissime funzionano, nel senso che sono aperte al pubblico, la maggior parte sono sempre chiuse o aprono a singhiozzo, inoltre non tutte hanno un direttore, al massimo un dipendente comunale a cui è stato conferito l’incarico e non sempre in base alle competenze.

Cosa significa questo? Che non acquistano libri, non aggiornano, non organizzano nulla per avvicinare i giovani alla lettura con una ricaduta negativa sugli editori e sulle librerie. Insomma, sono tanti i problemi da affrontare da parte di chi dovrebbe, se solo ce ne fosse la volontà.

Un quadro desolante. Un’ultima domanda, la scuola dell’obbligo adotta libri del suo catalogo?

Né la scuola dell’obbligo, né quella superiore.

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Written by antoniocelano

marzo 12, 2010 at 8:44 am

Intervista a Rosetta Maglione

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Questa intervista è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 13 Settembre 2009.

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Leggendo s’impara

La storia delle Edizioni Osanna di Venosa

“Chi non legge pagherà”. Così sta scritto nella pagina di presentazione del sito delle Edizioni Osanna di Venosa. La frase, attribuita al premio Nobel per la letteratura Josif Brodskij, suona minacciosa e al contempo vera, perché segnala un reale pericolo di spaccatura tra chi in una società legge, pensa e decide liberamente e tutti gli altri. Ma la Basilicata, si sa, è un mondo capovolto e chi legge e pensa non viene messo nella condizione di decidere liberamente, di essere aiutato a essere più forte e autonomo. A pagare lo scotto di questa situazione, anche le case editrici lucane.

A proposito delle Edizioni Osanna, abbiamo conosciuto Rosetta Maglione durante la scorsa edizione di “Più Libri Più Liberi” di Roma: una signora dai modi cortesi ed eleganti, ma anche una donna pienamente conscia del proprio status di più importante e strutturato editore lucano. L’abbiamo nuovamente sentita a proposito della nostra breve indagine sullo stato dell’editoria lucana.

Come avete iniziato lei e il Prof. Vaccaro? Quali i perché della vostra iniziativa imprenditoriale?

Alle prime esperienze di pubblicazione di nostri lavori abbiamo scoperto il fascino del pensiero che si fa parola scritta e si diffonde. Da assidui lettori crediamo da sempre nella lettura che “aiuta a salvarsi” dall’ignoranza e dall’errore come bene da promuovere.

Perché  il marchio è stato denominato “Osanna”?

Osanna è  il cognome dei miei tre Figli, Rocco Aldo, Massimo e Antonio, ormai professionisti affermati: cardiologo emodinamico il primo, docente e direttore della scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università di Basilicata, il secondo, con sede a Matera, dottore commercialista il terzo. Nella loro primissima infanzia abbiamo perso il compagno e il padre, giovanissimo ginecologo venosino. Dopo oltre un decennio, un nuovo matrimonio ricostruiva il nucleo familiare. È stato il padre acquisito dei miei figli a volere che la casa editrice portasse il loro cognome.

A partire da quanto dichiarato nel vostro sito Internet, in che senso i vostri libri sono capaci di “autopromuoversi”? Non crede che ci voglia ben altro? Che sforzi può fare un Editore come lei in marketing, comunicazione, grafica ecc.?

Sono capaci di autopromuoversi per la qualità del prodotto, compreso la grafica, per i contenuti d’interesse sovraregionale, per la correttezza e puntualità dei rapporti con i committenti. Non vedo che altro fare, per ora, da una cittadina di provincia del Sud, isolata per la disastrata situazione viaria e l’assenza di comunicazione ferroviaria. Inoltre non si può accedere alle grandi reti di distribuzione in quanto come primo requisito si richiede la pubblicazione stabile di 30/40 volumi annui. Per la Osanna è molto funzionale (oltre quello con i distributori) il rapporto diretto con privati, con le quaranta librerie fiduciarie (che hanno stabilmente un buon quantitativo di volumi in conto deposito, con contabilizzazione semestrale) e con le circa trecento librerie che ricorrentemente ordinano volumi che forniamo contrassegno.

Sempre nella presentazione e nella dichiarazione di intenti della casa editrice pubblicata sul vostro sito si legge un’interpretazione del mondo editoriale legata a una prospettiva d’impostazione pedagogica della cultura e dei comportamenti di lettura. In tale quadro apparite meno preoccupati dalla “cattiva maestra” televisione che non invece dai pessimi libri e dagli atteggiamenti negativi ingenerati dalla famiglia e dalla scuola. Perché?

Abbiamo motivo di credere che ad allontanare i giovani dalla lettura non sono la televisione o i mezzi informatici, essi in una strategia multimediale possono avvicinare al libro in una reciprocità di sollecitazioni, per la curiosità e l’interesse che possono suscitare verso i vari ambiti culturali. Grande responsabilità ha la scuola gremita di insegnanti che non leggono, fatta qualche eccezione per i docenti di lettere. Mentre attraverso il libro, si dovrebbe stabilire un nuovo equilibrio tra progresso materiale e progresso culturale (quanti degli allievi delle nostre scuole, troppi, hanno raggiunto dignità economica ma non culturale). Un equilibrio tra modernità opulenta delle cose materiali e miseria dei pensieri e delle idee, che oggi segna contraddizioni clamorose. Siamo passati da generazioni di padri storicamente analfabeti, per un contesto di povertà e disagi, a generazioni di figli alfabetizzati, ma solo teoricamente alfabetizzati, nonostante il contesto di relativa agiatezza in cui vivono. E così i giovani italiani detengono il record della non lettura perché i modelli di comportamento giovanile legati al tempo libero propongono attività diverse dalla lettura, legate ad un mercato giovanile dai rapacissimi, grandi interessi economici.

Le istituzioni scolastiche (scuola dell’obbligo, superiore) adottano vostri titoli?

Vi sono stati periodi di grande interesse per i nostri volumi della collana “Narrativa Scuola”, con cicli di adozioni nella Scuola media inferiore legati alla sensibilità di qualche preside. L’entità della cosa ha destato la gelosia di alcune librerie ed è cominciata la guerra tra poveri, con il risultato di affossare alcune iniziative. Tuttavia continuano adozioni sporadiche nei vari ordini di scuola, e segnalazioni nelle università. In Venosa, nostri titoli vengono donati dalle scuole superiori in occasione di convegni e del Certamen Horatianum.

Quanto potrebbe fare la scuola per gli editori lucani?

In particolare le scuole superiori trascurano del tutto la lettura da parte degli allievi. Potrebbero doverosamente far apprendere a leggere e ad amare la lettura con ricorrenti indicazioni bibliografiche, con

Come si potrebbe promuovere meglio la lettura in Basilicata? una legge basterebbe? Con un aumentato concerto delle istituzioni in tal senso? Investendo maggiormente sui giovani?

Una legge sarebbe una buona base.

Per quali motivi secondo lei la Regione non ha mai prodotto un qualsiasi provvedimento in vostro favore? Crede che c’entri la debolezza strutturale dell’editoria lucana? Ma allora non crede che il meccanismo ingeneratosi sia quello tipico del cane che si rincorre la coda? Oppure è perché la Regione tende a farsi vostro concorrente?

Ricorrentemente la Regione edita in proprio, contravvenendo alle promesse di non farci concorrenza. Inoltre, le pubblicazioni regionali di rilievo economico sono dalla Regione e dalla Provincia commissionate a case editrici del Nord

La Dott.ssa Calice ci ha accennato al vostro primo incontro con l’allora presidente Bubbico: ci può dire come andò?

Già prima di quell’incontro il presidente Bubbico, in occasione della presentazione del volume di E. Soave, “Dopo Scanzano storia di scorie”, in Scanzano nel 2004 (eravamo al tavolo dei relatori), si impegnava a predisporre  una legge per l’editoria. Il seguito è noto.

Non crede che oggi i politici leggano poco? E se prima leggevano di più, perché non è mai stata varata una legge per l’editoria libraria?

Forse perché  in Basilicata il numero degli editori è esiguo e di irrilevante entità e quindi non assicura un ritorno in termini di consensi elettorali.

Dott.ssa Maglione, nell’intervista concessami dalla Dott.ssa Calice è stato detto (sia per le fiere che per le coedizioni e quant’altro) che i rapporti con gli altri editori lucani sono buoni e cordiali, ma le iniziative comuni latitano. Secondo lei per quali motivi? Come si può ovviare? Cosa farebbe dal canto suo?

Le distanze, aggravate da quanto sopra, sono un ostacolo a rapporti frequenti. Infatti la collaborazione è più assidua con la Calice. Con le altre recenti esperienze editoriali sono dissimili le strutture, le tematiche e anche gli obiettivi. Per ora non ravvisiamo alternative di respiro.

Tra le fiere, per lei, meglio Roma, Torino o altro?

Decisamente la preferenza cade su Roma, per la minore distanza, per il maggiore interesse dei visitatori per le tematiche meridionalistiche. Partecipiamo inoltre annualmente alle fiere che si organizzano in varie località della Basilicata e nelle regioni limitrofe, Puglia, Campania.

È più facile lavorare con singoli professori universitari per singoli titoli o con l’Università per collane?

Con singoli professori universitari. Le limitate esperienze dell’avvio di collane con l’Università di Basilicata si sono interrotte ai primi titoli. Per assenza di sostegno economico e di diffusione dell’università stessa e per l’esaurirsi della motivazione contingente di chi aveva dato avvio all’iniziativa, come è accaduto per la collana “Biblioteca di etnografia” ferma ai due primi volumi. Non si esclude che da parte nostra non si sia risposto alle attese.

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Written by antoniocelano

marzo 12, 2010 at 8:35 am

Fiera nazionale della piccola e media editoria Più libri più liberi (Roma, 2009)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 10 Dicembre 2009.

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C’è aria di “lucanità” alla Fiera di Roma

A Roma, uscita EUR Fermi del metrò ci accoglie un sole pigro e piacevole. È ancora presto e preferiamo andare in Fiera a piedi invece di utilizzare il bus navetta. Ci aggiriamo tra le masse severe dei palazzi monumento e il vuoto quasi perfetto di uomini in un giorno feriale. Finalmente incontriamo una ragazza. Fa la nostra stessa strada, ci chiede come meglio raggiungere il Palazzo dei Congressi dove si tiene la manifestazione dedicata ai libri. Raggiungiamo un’arteria principale, finalmente, questa, rombante di un traffico senza particolari eccitazioni. Intanto scopriamo che è appassionata di teatro e di letture, stagista di una casa editrice prestigiosa. E scopriamo che è di Melfi, il che ci pare subito di buon auspicio per il nostro reportage, ma poi anche prodigioso come facciano a ritrovarsi i lucani sempre nei posti più insoliti e deserti.

Comunque sia, appena giunti in Fiera, l’impressione complessiva è che la gente l’abbiano fabbricata lì di notte in quantità, una folla generata dal nulla che ci fa perdere in un attimo la nostra stagista tra la ressa, le cose da fare, le persone da vedere di una mostra che è l’antitesi di Torino: fagocitante come quella, ma non per gli spazi, la quantità, l’enormità. Roma è più serrata prossemica di intellettualità, di amicalità, una dimensione piccola, ma proprio per questo meno freddamente rituale, più densa e coinvolgente.

E infatti quasi subito, non sappiamo ancora come, riusciamo a trovare quella traccia di lucanità che cercavamo, stavolta in un luogo letteramente saturo di umanità. Abbracciamo così Andrea Di Consoli, gli facciamo gli auguri per la sua ultima fatica poetica portata a termine, quel Quaderno di legno voluto dalla piccola e coraggiosa Edilet. Ne parliamo come un libro che chiude un’ideale cerchio apertosi nel 2003 con Discoteca (Palomar di Altenative) e proseguito con La navigazione del Po (Aragno, 2007). Versi, questi lasciati al Quaderno, in cui di Consoli veleggia verso le terre estreme della sua scrittura, tendendo il suo cordame tra geometrie orizzontali (i luoghi, ad esempio: Roma, la sua Lucania interiore) e tutti i sensi percorribili tra la carne e dio, condensati in uno stile semplice e prosastico, ma non certo facile.

Il tempo di dare uno sguardo agli scaffali per cogliere due lampi (una copia di “Decanter”, il periodico di Calice, nella rivisteria; la torrida copertina di Deserti della nostra conterranea Raffaella Spera, esposta nello stand Manni), il tempo di scambiare un’impressione su Catozzella, ed ecco che il tempo dell’esordiente Dora Albanese è già venuto. C’è aria di partecipazione alla presentazione del libro Non dire madre (Hacca) un’anteprima del quale abbiamo già potuto gustare recentemente sulle pagine del nostro Quotidiano. Alla presentazione sono lo scrittore Andrea Caterini e il critico letterario Arnaldo Colasanti. Caterini sottolinea come la scritura di Albanese riesca bene a dirci la rabbia e il dolore di una scrittura che, mai lasciando sul testo tracce di incontrollato espressionismo, riesce a rimenere sempre ottimamante centrata sulla voce delle protagoniste del suo mondo. Colasanti, a ruota, ci offre invece un’acuta e penetrante (sbaragliante, diremmo quasi) analisi del testo della scrittrice materana, incentrata sul profumo (cioè su una matericità tanto individuabile quanto allo stesso tempo indefinibile) di una scrittura che altro non è che un’infanzia notturna e negata che lega e collega il voto più nascosto delle protagoniste della raccolta. Racconti che si concatenano e finiscono per sospendersi in una narrazione che rende, invece, un tono da romanzo.

Chiude il cerchio di questa ottava edizione della Fiera colui che l’aveva aperto a Torino, Gaetano Cappelli. Non avevamo fatto in tempo a lasciarlo nella capitale piemontese poco prima di scendere in lizza per lo Strega, che ecco rispuntarlo ora, sempre per parlarci del suo La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo (Marsilio) stavolta a gareggiare per la proclamazione del seguitissimo “Libro dell’Anno”, a cura della Redazione di Fahrenheit, che raccoglie i voti dei numerosissimi ascoltatori della trasmissione radiofonica emessa da RaiRadio3. E infatti ci pare salire sul palco perfettamente a suo agio con altri due pretendenti al titolo, Nicola Lagioia e Filippo Bologna. Pungolato da un ironico Giuseppe Antonelli, Cappelli si diffonde, per quanto consentito dai tempi parecchio stretti delle presentazioni, sulla sua ultima e avvincente commedia di costume e sulle suggestioni sprigionate dal suo protagonista, Dario Villalta, legato alla sua terra di origine, ma capace allo stesso modo di sentirsi perfettamente integrato nei più differenti contesti (questa volta il Nord Italia), sia pure un po’ sorpreso dai risvolti che un diverso contesto antropologico gli oppone. Parlando del suo Villalta, Cappelli molto ironicamente si sofferma, ad esempio, sui costumi delle vedove settentrionali e della loro troppo veloce elaborazione del lutto. E poi continua sugli ingredienti di un carnoso e carnale pacchero senza svelarcene, e fa bene, più di tanto gli ingrdienti. Insomma, anche come affabulatore e presentatore dei suoi libri Cappelli ci sembra uno scrittore ormai perfettamente padrone di un futuro che sembra lanciato verso traguardi di grande soddisfazione. Che gli auguriamo.

Contrariamente a quanto successo a Torino, non abbiamo, invece, troppa voglia di indignarci per l’ennesimo vuoto lasciato dalle istituzioni lucane alla Fiera della piccola e media editoria, stavolta lasciata orfana anche dell’attivismo del Consiglio regionale, che negli anni scorsi a Roma, nella promozione della nostra editoria, si era pure prodigato. Problemi di bilancio? Forse. Velenosi dissapori tra Consiglio e Regione? Gira voce. La scelta (sorprendente quanto spiazzante) di preferire la kermesse torinese in luogo di quella romana? Ma a pro di chi? Si mormora di associazioni culturali di lucani presenti in Piemonte. Comunque non certo in pro degli editori, ancora abbastanza diffidenti per organizzarsi insieme e in autonomia. E, del resto, a rimetterci sono stati proprio questi ultimi, cioè proprio chi, a Torino, con più ardore aveva difeso dalle critiche l’operato del Consiglio. Di cosa parlare, allora, se non dell’insostenibile peso della gratitudine? Tuttavia, al di là degli affari e del sostegno istituzionale, l’editoria lucana, anche per propri limiti, si presenta sostanzialmente tagliata fuori da ogni benefica vicinanza con editori di altra estrazione editoriale e provenienza geografica, nonché da ogni genere di visibilità. Il che, oggi, ha il suo peso.

Alla fine usciamo sotto un cielo mutato. Ma la pioggia a scrosci è una metafora che non ci appartiene se non per il rammarico. Singhiozzi e lacrime troppo poco credibili per essere con certezza creduti.

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La rassegna in cifre

Boom di visite e vendite

Si è  appena chiusa a Roma la manifestazione “Più Libri Più Liberi”, Fiera (in qualche modo anche festa) della piccola e media editoria italiana. Complice il lungo ponte dell’Immacolata, la mostra mercato si è allungata di un giorno rispetto al solito, prolungandosi dal 5 all’8 di dicembre. L’evento era chiamato a un’attesa conferma o smentita di alcune tendenze che, a cominciare dalla seconda metà dello scorso anno, avevano coinvolto il settore. I dati hanno però sgomberato il campo da ogni preoccupazione soverchia, anche se molti dati di fondo rimangono per alcuni versi ancora da chiarire.

I visitatori, ad esempio, sono stati oltre 55.000 con un incremento di oltre il 10% rispetto alla scorsa edizione e con un giro di vendita agli stand che ha fatto segnare un più 20%. Un successo che Enrico Iacometti, Presidente del Gruppo dei piccoli editori dell’AIE, ha così commentato: “massima soddisfazione per gli ottimi risultati di affluenza e vendita malgrado le difficoltà oggettive date dallo spazio e dalla crisi economica; dati che hanno superato i risultati già molto positivi della scorsa edizione. La maggior parte dei piccoli e medi editori ha dichiarato che Più libri più liberi dal punto di vista delle vendite è la manifestazione di gran lunga migliore rispetto agli altri eventi legati al libro in campo nazionale”. Obiettivo degli organizzatori è ora quello di “risolvere il problema di oltre 100 editori che a oggi vorrebbero partecipare alla Fiera ma non possono per problemi di spazio”.

Oltre a proporre interessanti dibattiti sulla promozione della lettura, sulle previsioni di vendita di piccola e grande editoria, sull’aumento delle traduzioni dall’italiano all’estero, la Fiera “Più Libri Più Liberi” pare però, metodologicamente, far propri i migliori atteggiamenti dei piccoli editori di ricerca. Spesso, cioè, anticipando le tendenze future di mercato.

Non a caso, in tal senso, la Fiera ha proposto due interessanti spazi. Il primo, nello spazio DigItal Cafè, dedicato agli ebook di nuova generazione (ma altrove non sono mancati anche gli audiolibri). Strumenti tecnologici capaci di contenere con pochissimo ingombro centinaia di libri, hanno, dei ritrovati più recenti della tecnica, anche l’innegabile fascino. Ne abbiamo provati della Bookeen, della Amazon Kindle, della Bebook, Foxit e altri, sicuramente tutti insieme capaci di essere in futuro una valida alternativa alla carta stampata. Risolti oggi i problemi di retroilluminazione (che incidono sull’affaticamento degli occhi) e, parzialmente, quelli della gestione della sottolineatura, degli appunti e delle illustrazioni (rimangono sempre in bianco e nero e non ad alta definizione) sono oggi proposti in una fascia media di prezzo che varia dai 200 ai 6-700 euro.

L’atro spazio è stato dedicato alla lettura dei più giovani. Una scelta sensatissima se pensiamo che la lettura e la cultura del libro potrà salvarsi solo attraverso grandi investimenti, non solo di danaro, sui giovani. Allo spazio ragazzi non hanno mai smesso di succedersi presentazioni di fiabe, romanzi, racconti, persino poesia con un continuo afflusso di giovani e scolaresche fatte oggetto anche di dibattiti molto interessanti intorno allo specifico tema. E pensare che molti giovani che oggi approdano all’università, sono dati del Censis, scoprono di non essere capaci di scrivere non solo in un decente italiano, ma anche (e la cosa inquieta molto di più) di narrare, cioè di strutturare (strutturandosi) logicamente un discorso di qualsiasi disciplina sia umanistica che scientifica.

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Written by antoniocelano

marzo 12, 2010 at 8:15 am

Yoani Sánchez

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 15 Novembre 2009.

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La libertà sulle stampelle

La blogger Yoani Sánchez rapita e picchiata


È ormai di un paio di giorni fa la notizia del rapimento e del maltrattamento subito a Cuba dalla scrittrice dissidente Yoani Sánchez, ora ridotta alle stampelle. Tuttavia, proprio per questo, si può procedere a qualche riflessione in merito.

Ci sono persone, ci sono intellettuali che, meglio di altri, sono capaci di restituirci l’epoca che viviamo, la sofferenza o le difficoltà di un luogo, l’arroganza o la doppiezza di un potere. Apparentemente raccolgono fatti non necessariamente eclatanti, spesso nemmeno collegati nel tentativo di costruire una tesi, tuttavia sempre capaci di svelarci immancabilmente il puzzle complessivo di un sistema scellerato e dannoso. Uno di questi è Roberto Saviano. Non è un caso che Yoani Sánchez – come ha dichiarato – abbia pensato proprio a lui nel momento in cui la violenza si è abbattuta non solo sul suo corpo.

La giovane blogger avanera era saltata l’ultima volta all’onore delle cronache italiane lo scorso aprile, quando il regime castrista le impedì di recarsi a Torino per partecipare alla Fiera del Libro, dove avrebbe dovuto presentare, a maggio, il suo Cuba libre. Vivere e scrivere all’Avana, una raccolta (edita in prima edizione mondiale da Rizzoli) dei più significativi pezzi raccolti nel suo blog. Il che già dice la mancanza d’acume di un potere che avrebbe potuto lasciarla partire evitando di alimentarne il caso. Un surplus di attenzione e vigilanza internazionale che la camorra e Khomeini, con gli stessi macabri metodi, seppero suscitare rispettivamente anche per il già citato Saviano e per Salman Rushdie. Da parte sua la Sánchez, più volte attaccata direttamente da Castro, era ben cosciente del pericolo: «questa proprio è una grande sciocchezza – commentava – pubblico le mie opinioni su un blog che non nasconde né foto né nome». E la sua rete di appoggi all’estero stavolta non è riuscita a evitarle il peggio.

Yoani Sánchez è nata a Cuba nel 1975. Emigrata in Svizzera nel 2002 ha poi deciso di tornare nell’Isola, contro il parere di tutti. Per vivere ha insegnato illegalmente spagnolo ai turisti. Laureata in filologia si è poi appassionata di informatica unendo queste due attitudini in un cocktail di formidabile efficacia contro il regime di Castro e di suo fratello Raúl. Yoani fa parte di quegli avaneri che oggi abitano e rifiutano un’utopia non più loro, costruita con sacrificio da una generazione ormai anziana e impossibilitata a potersene scrollare di dosso il fallimento e il peso liberticida.

Tuttavia la scrittrice è una dissidente atipica che non porta le stimmate dell’eroina: non è una guerrigliera, non ha cicatrici sul suo volto allungato, non spara, non contesta, non denuncia (anche se qualche volta, come Gesù nel Tempio, mostra con fermezza il suo carattere). Yoani semplicemente racconta nel suo blog Generación Y cosa significa vivere ogni giorno nel regime comunista cubano. Lo fa con un uso preciso della parola che non è pietra pronta a colpire, quanto ricostruzione di fatti, circostanze, stati d’animo di fronte alla sofferenza, alla fame, alle aspettative di libertà tradite. È una scrittura al femminile, forte ma priva di coloritura ideologica, stesa con un linguaggio fatto di quotidiana disperazione, che il traduttore e curatore piombinese Gordiano Lupi sa rendere al meglio sulle pagine che «La Stampa» quotidianamente le dedica sul web e una volta a settimana sulla carta stampata.

Yoani iniziò a scrivere cosa vedeva e cosa pensava su un computer assemblato con pezzi di seconda mano recuperati al mercato nero. Poi, salvato tutto su memoria portatile, con grandissime difficoltà, si connetteva (a Cuba Internet è appannaggio quasi esclusivo dei funzionari del regime) per poter spedire i suoi post a chi poteva collocarli nel suo sito (in italiano: http://www.desdecuba.com/generaciony_it) che nell’Isola è oscurato. Oggi ci informa anche con l’ausilio di un telefono, ma il concetto di fondo è lo stesso.

Così ogni giorno veniamo a sapere che faticose avventure si possano vivere nel cercare un limone che possa alleviare un fastidioso mal di gola o di quanto sia difficile per le donne cubane procurarsi anche i pannolini per il ciclo. Veniamo a conoscenza dell’importanza del mercato nero e di come la repressione, colpendolo, scateni feedback economici devastanti che finiscono per consumarsi solo sulla pelle del popolo avanero. Di come a scuola vengano premiati i più ligi alle attività politico-patriottiche; di come le notizie debbano essere decrittate più servendosi del non detto che di quanto viene propagandato; di come i cubani siano ormai ossessionati dal cibo, dalle loro case che vanno giù a pezzi, da una voglia insana di fuggire per mare, nell’alcol, lasciandosi andare, addirittura chiudendosi in casa per evadere – così – da fermi.

La minuta Yoani ha combattuto insomma con un mezzo moderno, imprevisto e spiazzante per l’inadeguato regime, ma tutto ciò non sarebbe bastato se, a differenza dei dissidenti che l’hanno preceduta, la scrittrice non avesse scoperto un’inaspettata radura nel fitto del potere castrista. Uno spazio che è poi il punto debole di ogni potere che si assopisca senza più mettersi in discussione. E che dormendo (per dirla con Hobbes e con Neumann), si appare in sogno come il Leviatano – ordine e rigore assoluto – invece russando con la pancia elefantiaca di un Behemoth – il corpulento demone del caos.

Yoani era stata già richiamata pesantemente dalla polizia. Del resto poca cosa, commentò chi oggi crede che l’intellettuale cubana per far parlare di sé si sia inflitta da sola le ferite di cui soffre, e chi pensa che il regime dei fratelli Castro non sia così odioso come quello del vecchio blocco sovietico. Pure, anche così, resta netta la sensazione che i sostenitori occidentali del comunismo in salsa caraibica siano più preoccupati di difendere un baluardo della lotta contro i nemici statunitensi, piuttosto che essere convinti realmente dell’efficienza del regime. Loro, come i turisti presi dai secolari monumenti, non guardano le buche nelle vie, ma in alto, verso un cielo troppo lontano per qualsiasi cubano. E girano la testa quando la violenza di stato picchia per strada e tappa la bocca al giusto dissenso. Come i turisti, amano portare a casa solo il souvenir, magari carino, fatto per generare assenso e approvazione. Ma che, tuttavia, resta un balocco di scarso valore, come il potere che lo ha generato.

Resisti, Yoani.

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Written by antoniocelano

marzo 12, 2010 at 8:00 am

Intervista a Giuseppe Bufalari

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Questa intervista è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 31 Maggio 2009.

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Il prezzo del progresso

Intervista a Giuseppe Bufalari per i cinquant’anni del libro “La masseria”

L’uomo che mi riceve nella centrale ma tranquilla via Dei Macci a Firenze ha la barba e i capelli bianchissimi. Ha gesti cortesi e semplici, come il suo modo di vestire: una camicia a quadri, un pantalone scuro di tela, un paio di sandali aperti. Chi mi ospita nella sua casa accogliente di libri, di legno e di un senso antico è Giuseppe Bufalari, classe 1927, autore del libro “La masseria”, uno dei capolavori del romanzo meridionalista. Accanto a lui il figlio Vieri e la moglie Ketty, a cui lo scrittore dedicò il volume.

Bufalari è  lucidissimo: “venni in Basilicata nel 1953 e per un anno sono stato in una masseria. Successivamente fui trasferito a Calvello per altri tre anni. Il libro lo scrissi solo dopo, quando ormai ero a Porto Ercole. Lo terminai là nel 1959, fu pubblicato l’anno successivo”.

D.: Il suo libro raccolse davvero molte critiche positive. Dopo averle lette resta però la curiosità di chiarire meglio le circostanze dei suoi esordi di scrittore…

R.: Vasco Pratolini era originario del rione San Niccolò dove sono nato anche io e lì abitava il suo babbo, ormai anziano. Lo conobbi e quando gli rivelai che scrivevo mi esortò a far leggere le mie cose al figlio. Vasco era già a Roma e mi consigliò di mettermi in contatto, a Firenze, con Romano Bilenchi, il quale era da sempre molto interessato alle giovani leve di scrittori. Bilenchi era molto amico di Luzi e me lo fece conoscere. Di Romano ammiravo la capacità di vedere il suo mondo, di saperlo dire, di saperlo far diventare profondo. Con Luzi c’era invece c’era un comune legame con il cattolicesimo. Io me ne ero staccato, ma dentro me ne era sempre rimasta una profonda traccia. Due amicizie diverse che si compensavano.

D.: Che genesi ebbe “La masseria”?

Bilenchi mi disse che a Milano la casa Lerici gli aveva dato il compito di curare una collana che aveva preso avvio con la pubblicazione del siciliano Antonio Pizzuto. Al momento non avevo nulla da pubblicare. Quando invece scesi in Basilicata, presi a scrivere delle lettere che inviavo a mia moglie, alla mamma e a Romano. Parlavo del mondo antico e profondo che avevo trovato: un cattolicesimo antichissimo e la capacità degli uomini, nonostante un mondo duro e avverso, di poter vivere, lottare, vincere o perdere. Nelle lettere c’era tutto questo ma io non me n’ero ancora accorto. Invece Bilenchi mi esortò a scrivere ancora perché le avrebbe volute pubblicare sulla “Chimera”, una rivista di Enrico Vallecchi. Ma a lui era rimasta in mente l’idea di volermi pubblicare in quella collana. Quando poi nacque il libro ebbi subito la fortuna di una recensione scritta da Montale. Da allora tutti si accorsero di me.

D.: Che idea poté farsi del mondo contadino lucano di quegli anni uno come lei che veniva dalla Toscana della mezzadria, delle città a misura d’uomo, da una regione che dell’equilibrio tra tradizione e innovazione già allora faceva vanto?

R.: Fu una scoperta straordinaria. Ero sempre stato in questo mondo cittadino ingombro di cose, fatto di giornali, di macchine, di chiacchiere. Invece mi trovai scaraventato in questa masseria in un tempo antico, antichissimo. Lì i contadini erano autosufficienti. L’unica cosa che mancava era il sale e infatti le donne avevano il gozzo. Facevano il sapone, il vino,  l’olio, il pane, tutto. Per cui era un mondo autosufficiente non solo materialmente, ma anche psicologicamente, perché tutto era spiegato: se uno si faceva male era perché era passato tra due alberi posti in un certo modo; se di notte uno si sentiva male era per la fattura di una “maciara” eccetera. I rimedi che si potevano adottare erano certo semplici: una scopa fuori dalla porta, ad esempio. Insomma c’era una tranquillità interiore. Cioè “so perché accadono certe cose, so cosa posso fare per affrontarle, dunque sono tranquillo”. Intendo interiormente. Insomma non c’erano delle nevrosi perché, se c’erano, allora si ricorreva ai balli o a rituali del tutto diversi. Devo aggiungere che essermi confrontato con Luzi su questi aspetti della spiritualità mi fece giungere più preparato a entrare dentro quel mondo, a viverci.

D.: In quel mondo riuscì ad adattarsi così bene anche alle condizioni materiali di vita, spesso così difficili?

Guardi che non era affatto un mondo povero. Lì c’era tutto, avevano tutto. Era percepito materialmente e culturalmente povero solo da chi proveniva dalle città. Ma altro che poveracci! Lì, tra l’altro, mi accorsi di cose che oggi tutti quanti vedono, cioè che questo nostro mondo ha perso tante cose che cerca affannosamente di recuperare in qualche maniera.

D.: Avrebbe potuto scegliere per il suo romanzo un punto di vista diverso: le classi medie, i paesani, privilegiando di più la tematica del rapporto tra comuni e campagne. Invece scelse questa campagna che continua a vivere ignara dell’apocalisse che incombe e che la spazzerà via.

Avrei potuto scegliere parecchi punti di vista alternativi, ma a me non premeva il paesano che avrebbe potuto scegliere di lavorare per la Riforma magari poi rifacendosi una vita altrove. A me interessava rendere pienamente lo stato dei contadini: non solo con l’intelligenza, ma con l’empatia, con tutto me stesso.

D.: Eppure dal suo libro pare che i contadini, proprio a Calvello, che la visse, non abbiano mai attraversato la stagione delle lotte agrarie provando così a inserirsi nell’ampio processo di democratizzazione del secondo dopoguerra…

Ripeto, non è questo ciò che mi interessava, perché i contadini che descrissi quell’esperienza non l’avevano fatta. Le dico solo, tanto per farle capire, che per andarli a trovare dal luogo in cui ero ci mettevo tre quarti d’ora buoni a passo sostenuto. Erano isolatissimi. Oppure che quando c’era da andare a dare il voto loro si recavano a Picerno e andavano da “Don Raffaele” per farsi spiegare bene che cosa fare. Certo qualche contadino della Riforma l’ho conosciuto, ma io volevo rendere un mondo che se ne va, che non avrei più visto.

D.: A questo proposito: è tornato poi in Basilicata?

Per quasi cinquant’anni non sono più tornato, volevo mantenere intatto il ricordo di quell’esperienza. Poi nel 2003 o 2004, non ricordo bene, la Biblioteca Nazionale di Potenza mi invitò per un convegno e partii. Andai anche a Calvello, chiesi informazioni sulla masseria. C’era il vecchio ponte, ma anche una strada nuova, persino la fiumara non aveva esattamente lo stesso corso di prima. Tutto era cambiato. Poi decisi di orientarmi con la punta del campanile di Picerno che io vedevo sempre spuntare da una parte del monte, come descrivevo nel romanzo. Non ritrovai nulla se non delle pietre in terra con vicino una casa nuova costruita dopo il terremoto del 1980. Nella casa c’era un vecchio: mi disse che la masseria non c’era più e mi chiese chi fossi. Presentatomi, mi riconobbe: era uno dei bambini a cui avevo fatto scuola. Chiamò tutti i parenti della vecchia masseria che avevo conosciuto. Vennero in Mercedes: mi fecero una festa che non scorderò mai. Insomma, i luoghi non c’erano più, erano stati resi irriconoscibili dal tempo. Ma l’impasto delle persone, le loro qualità umane erano restate intatte. Quel giorno ho sentito che cinquant’anni fa ero entrato nella loro vita per non uscirne più.

D.: Ma allora lei è per il cambiamento o no?

Nella sua recensione al mio libro Moravia colse con molta precisione il mio atteggiamento verso quell’esperienza: ogni avanzamento del progresso è necessario perché crea nuovi acquisti, ma è comunque pagato con perdite della stessa entità, anche se queste non appartengono necessariamente alla sfera economica.

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Il libro in breve

Scritto nel 1959 e pubblicato per i tipi di Lerici nel 1960, “La masseria” nacque dall’esperienza che Giuseppe Bufalari fece in qualità di maestro nelle campagne intorno a Calvello.

Sono gli anni della Riforma. Nel romanzo il protagonista è inviato in Basilicata dalla Cassa per il Mezzogiorno come assistente sociale per preparare la popolazione ai cambiamenti imminenti in quelle zone. Lasciatosi alle spalle Calvello, dove i giovani aspettano positivamente la Riforma come possibilità di riscatto economico e sociale, si addentra nelle campagne verso la masseria della famiglia Torraca. Qui trova una realtà fatta di reciproci odi e una vita scandita dalle feste propiziatorie. È un mondo isolato dove le poche notizie giungono solo con i rari venditori ambulanti che lo attraversano. L’assistente sociale, pur convinto della necessità del cambiamento, si rende conto che il tempo per operare mutamenti nella mentalità dei contadini non può essere che lungo.

Intanto la Riforma si è avviata e ben presto si presenta alle porte della masseria con operai, macchine, strade. Nessuno si è curato delle relazioni inviate dall’assistente sociale che scrive per informare del disastro che provocherebbe l’arrivo così subitaneo delle trasformazioni. In pochi mesi, con la costruzione di una diga, si formerà nei terreni della masseria un lago che la cancellerà. Intanto l’assistente è sostituito e trasferito in Calabria.

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marzo 11, 2010 at 5:17 PM

Recensione a: Giancarlo Ferron, La mia montagna (Biblioteca dell’immagine, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 30 giugno 2009.

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Giancarlo Ferron è un guardiacaccia: pratico delle montagne dell’Altipiano di Asiago, oggi lavora sul Monte Pasubio e sulle “Piccole Dolomiti” vicentine. Come scrittore ha subito esordito con un successo, “Ho visto piangere gli animali”, pubblicato dalle Edizioni Biblioteca dell’Immagine, una piccola grande casa editrice di Pordenone che ha visto transitare nel suo catalogo scrittori della stazza di Mauro Corona, Marco Paolini e, più indietro nel tempo, David Maria Turoldo. Nata nel 1985 la Biblioteca dell’Immagine si distingue, infatti, non solo per le sue pubblicazioni improntate al rispetto del paesaggio, degli animali, dei boschi e della montagna, ma pure alla valorizzazione delle radici e delle tradizioni.

Nella sua nuova prova Ferron si cimenta con un genere che va da qualche tempo diffondendosi in Italia: la guida spirituale alla montagna.

Un significativo esempio di questo diverso modo di leggere l’escursione, ma in ambiente appenninico, apparve nel 2007 ad opera di Andrea Bocconi, uno psicoterapeuta di formazione psicosintetica. Il volume, intitolato “Di buon passo” (edito da Guanda) era l’interessante tentativo di provare un lungo viaggio a piedi lungo i sentieri del medioevo tra Toscana e Umbria. Rapiva, dell’opera, la fondamentale differenza con una normale guida tesa a illustrare con tipico gergo le vie, i luoghi di ristoro, le emergenze artistiche, in un quadro di affidabilità su cui il turista può contare nei suoi spostamenti. Lo scopo dell’esperienza di Bocconi era invece improntato al recupero della dimensione del tempo e delle proprie radici storiche attraverso il paesaggio odierno, nella convinzione che oggi nessuno “sa quello che c’è a trecento metri da casa sua”. Tuttavia il “pellegrinaggio” non doveva la sua fascinazione alla descrizione del paesaggio attraversato, bensì al suo ridislocarsi su un terreno fatto sì di sentieri, fiumi, ostacoli e cime, ma del tutto interiori. La mappa poteva così disegnarsi nell’anima lasciando in secondo piano i luoghi appena attraversati.

Rispetto a questa tradizione, Ferron rivendica un posto suo. Apparentemente “La mia montagna” si presenta un po’ più come guida: corredata di bellissime foto – eccezionali quelle di alcuni contrafforti alpini –, di box con itinerari, di sommarie indicazioni di luoghi e spostamenti. In realtà, però, il tutto è liquidato in pochissime battute. Ferron stesso ne dà una convincente spiegazione: “Questa non è una guida turistica, ma è una descrizione del mio territorio. È un qualcosa che passa attraverso il sentire e il guardare di un uomo selvatico territoriale; è una condivisione di emozioni, pensieri e visioni dedicata agli amici della natura”. Ed è a questi amici che l’autore vuol rivelare ciò che conosce della montagna perché, giustamente, Ferron del turista “mordi e fuggi” non sa che farsene: “Siamo talmente abituati a sentir parlare di cose e posti straordinari che l’aggettivo stesso ha perso il suo significato: oggi tutto deve essere super, iper, mega, ultra, globale, spaziale, galattico, futuristico; mentre la normalità non esiste o ce la fanno apparire banale”. Andare per sentieri di montagna diventa così parlare di un camoscio, descrivere un faggio maestoso, cercare gli amici che gestiscono i rifugi, incontrare una donna che ha abbandonato l’ufficio per tornare a pascolare tra le antiche malghe, farsi rapire dalla vista della luna. Il territorio, insomma, come rete di relazioni, che l’autore ci restituisce con linguaggio semplice, che il camminare a piedi per i monti necessariamente spezza e sfronda di ogni orpello inutile. Una montagna come diretta esperienza da raccontare senza presunzione di imporla a nessuno.

Il libro non è nemmeno una guida come se ne possono leggere di dedicate in genere qui ai nostri luoghi, perché non sovrappone il lavoro intellettuale dello scrittore alle conoscenze del lettore. Non c’è traccia di scrittura ad alta resa letteraria, “pittoresca”, non c’è un lavoro di archivio sulle emergenze storico-culturali di un luogo, non si parla di morfotipi geologici, i nomi scientifici delle piante sono solo in calce alle foto poste a corredo. Insomma, scrittori come Ferron hanno dalla loro la circostanza, nonostante la loro grandissima competenza, di non dover colmare alcuna distanza con un territorio in cui non sono nati, né di dover farla colmare a chi poco conosce quei posti perché non indigeno. Non sono ossessionati dall’obiettivo di dover far gareggiare in bellezza o fascinosità il proprio mondo con quello altrui, né di attrarvi torme di possibili visitatori, né di crearne il mito.

È dunque qui che Ferron accentua definitivamente lo scarto con l’impostazione tradizionale delle guide, ma anche con scrittori come Bocconi. Sì, perché il territorio, l’amore per il proprio territorio rimane sempre ben presente al guardiacaccia di Castelnovo di Isola Vicentina. In una lunga escursione in solitudine, a un certo punto il territorio lo attrae e lo affascina spingendolo a camminare scalzo per i prati per sentire più intensa l’energia materna della Terra, fino a cogliere “in uno strato profondo del mio essere che in questo luogo gli uomini antichi le hanno dedicato danze e rituali sacri”. È un viaggio solitario dove l’anima espelle le residue scorie metropolitane, dove l’autore si abbandona agli incubi nelle vecchie trincee-ferite scavate durante la Grande Guerra sul Pasubio, dove alla fine, ridotto a una sorta di bestia selvatica, inizia a essere percepito dagli altri animali come uno di essi. È un’esperienza profonda, al limite di se stessi che, come per Bocconi, costituisce una morte e una rinascita. Ma laddove per lo psicoterapeuta lucchese l’esperienza era stata mistico-esoterica, in Ferron la rinascita è totalmente mistico-totemica: “Quando sono fermo sulla vetta mi pare di essere una roccia. Se ascolto il vento sulla faccia immagino di sentirmi come un albero. Se cammino sono uomo e animale, nello stesso tempo. In ogni caso percepisco di essere vivo in una dimensione più concreta e profonda. È cosa buona”.

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marzo 11, 2010 at 4:50 PM

Intervista a Franco Arminio

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Questa intervista è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basiicata» il 20 Maggio 2009.

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La Lucania? potrebbe essere una nuova frontiera

Intervista al paesologo Franco Arminio

Durante la Fiera del Libro di Torino Franco Arminio è stato ospite di un paio di dibattiti. Ne abbiamo parlato a margine. Arminio, paesologo, classe 1960, è di Bisaccia, in provincia di Avellino. Poeta, scrittore, giornalista, organizza eventi culturali ed è animatore di numerose battaglie civili. Attualmente anima il blog “Comunità Provvisoria”.

D.: Quest’anno a Torino hai esordito con un doppio impegno. Il primo in compagnia della redazione di “Cartaditalia” la nuova rivista edita a cura dell’Istituto italiano di cultura “Carlo Maurilio Lerici” di Stoccolma. Con te Davico Bonino, Domenico Scarpa, Andrea Bajani e Roberto Alajmo. Una compagnia di intellettuali sicuramente atipica…

R.: Di Scarpa sono amico. Bajani mi ha scritto una bellissima lettera sul mio ultimo libro (“Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia”, ndr). Gli altri li ho incontrati in questa occasione, ma spero di conoscerli bene in futuro.

D.: Come ritieni che oggi un Paese colto, evoluto, ma pure così distante come quello svedese possa percepire il tuo sud fatto di piccoli paesi che non superano i due-tremila abitanti e di cui racconti una malattia forse terminale?

R.: Non so, certo l’Italia non è più un paese esotico come una volta. In fondo io racconto un sud molto diverso da quello che racconta Saviano, un sud per certi aspetti nordico. Il clima di Bisaccia non è molto diverso da quello svedese.

D.: Pensi sia più facile raccontare il sud al resto d’Europa che al resto d’Italia?

L’Italia del nord non è interessata più di tanto al sud. Per certi aspetti si potrebbe trovare più ascolto in Europa, ma il problema è che i libri belli non superano le alpi.

D.: Speriamo “Cartaditalia” possa contribuire… Il tuo secondo impegno è stato invece quello di partecipare, in compagnia di Marcello Fois, al dibattito “La strada del cambiamento. Come è cambiata l’Italia. Qui l’alta velocità non passa”. Come valuti il tema sapendo che la tua Italia è fatta soprattutto di sud?

R.: Io racconto quello che vedo e quello che vedo è un sud con molte ombre. Alla durezza della civiltà contadina si sono aggiunte le miserie dell’universo piccolo-borghese: l’ipocrisia, il provincialismo. Il paesaggio umano al sud è decisamente sconfortante. Le persone migliori vivono isolate. I comuni sono gestiti da gente senza idee. D’altra parte al sud, almeno in certe zone, resiste ancora il paesaggio. E questo mi conforta molto. Secondo me i territori vuoti, i territori non invasi dalla modernità incivile possono essere il punto di partenza per un nuovo modo di abitare il sud.

D.: Dunque bene o male che l’alta velocità non passi da qui?

R.: Se deve fare gli effetti che ha fatto altrove è bene che non passi. Oggi per me l’Italia più bella è quella dei paesi più affranti e sperduti. So bene che il mio è un giudizio estetico e non si vive solo di estetica, ma credo che questa bellezza possa diventare anche un fattore di sviluppo economico, uno sviluppo che però deve essere inteso assai diversamente dal passato.

D.: A proposito di paesi sperduti: tu che vivi con un piede in Campania e un altro in Lucania cogli una specifica diversità di fondo tra i piccoli paesi delle due regioni, oppure sono solo minime variazioni a un tema comune?

R.: La Lucania è meno ingombra di cose. Si vede molta campagna tra un paese e l’altro. Direi che ha una densità ottimale. In Campania, a parte le zone più interne, è veramente un disastro. Io mi sento più lucano che campano. E spero tanto che il mio paese prima o poi finisca per appartenere alla Lucania. A Bisaccia c’è la stessa aria di Potenza. Quando vado a Napoli mi sento all’estero. Napoli non capisce i piccoli paesi, non li ha mai capiti. Abbiamo bisogno di politiche e di una cultura che parta dai piccoli paesi. Da questo punto di vista la Lucania potrebbe essere la frontiera di una nuova Italia, ma non sento molti fermenti. È importante che ci sia una saldatura tra i lucani che stanno fuori e quelli che sono rimasti. Una saldatura per riabitare, per riabilitare questi luoghi bellissimi, ma troppo spesso trascurati proprio da chi li vive.

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marzo 10, 2010 at 9:52 PM

Fiera internazionale del libro di Torino (2009)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 20 Maggio 2009.

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Alla Fiera di Torino la ricerca di una Basilicata fuori dal guscio

L’uovo è dappertutto. Ci segue attraversando Torino fino a giungere al Lingotto, scorre le lunghe file di visitatori che attendono di fare il biglietto d’entrata, rotola tra i padiglioni e gli stand degli espositori. La presenza dell’immagine che meglio riassume il senso della ventiduesima edizione della Fiera del libro ci accompagna costantemente: un uovo che sta per dischiudersi e che chiama chi lo guarda a farsi forza, a uscire fuori dall’isolamento del proprio guscio per aprirsi agli altri, al mondo esterno. Durante la Fiera, da quell’involucro esce davvero di tutto, inondando i 51 mila metri quadrati di spazi che hanno accolto gli oltre 1.400 editori presenti. Scrittori vecchi e nuovi, editori grandi e piccoli, istituzioni specializzate, operatori, temi affascinanti, presentazioni, dibattiti, spunti interessanti, lettori forti e in erba, intellettuali, semplici curiosi. Un fiume che ci trascina via insieme a migliaia e migliaia di persone che scorrono, si fermano, creano ingorghi che si sciolgono improvvisamente, attratti da un dibattito, da un libro a lungo cercato, da un autore a cui chiedere un autografo.

In tutto questo turbinare a un tratto ci fermiamo e ci chiediamo se da quel guscio d’uovo possa uscire mai anche la Basilicata. La domanda ci sorge spontanea appena incappati nel padiglione della Regione Campania, si ripete davanti a quello animatissimo della Regione Puglia, ci ossessiona ai piedi di quello ricolmo di libri della regione Calabria (così finiamo anche per emozionarci al cospetto dello scaffale espositivo dedicato alle vecchie edizioni delle opere di Saverio Strati). Ci chiediamo insomma se il pulcino Basilicata sia rimasto ancora una volta rintanato nel guscio, pauroso di mescolarsi alla festa. Non ci consolano le sparute presentazioni a cura del nostro Consiglio regionale che presenta, con Prospero De Franchi, un libro di El Idrisi in un incontro intitolato “Sollazzo chi si diletta di girare per il mondo (e giunge quindi in Basilicata)”. Né ci conforta la totale assenza degli editori lucani. Certo, si dirà, come paragonare i poveri mezzi delle case editrici lucane al catalogo di alcuni editori calabresi, sardi o campani? Non ci crediamo, perché gli editori calabresi e sardi sopperiscono anche con orgoglio, voglia di fare, soprattutto con un pizzico di intelligenza. Perché si consorziano, ottimizzando gli utili e dividendo i costi, peraltro costantemente supportati dalle loro istituzioni regionali. Un atteggiamento coraggioso di cui la regione Basilicata ha saputo far sfoggio, non si sa quanto una tantum, solo alla fiera libraria di Roma dello scorso anno. Invece alla festa di tutta l’editoria, quella grande e piccola, nulla.

Però cediamo all’amarezza e allo sconforto solo quel tanto che basta prima di scoprire che invece un’altra Basilicata ha deciso di uscire fuori dal quel benedetto guscio mettendo fuori le zampette già forti. A interrompere il magone interviene infatti una gigantografia che a un tratto ci giunge dallo stand di un editore importante come è Marsilio. Il viso che ci sorride è quello di Gaetano Cappelli. A Torino lo ha da poco presentato il suo maggiore sostenitore e promotore, il critico Antonio D’Orrico che lo ha portato non solo agli onori della cronaca letteraria, ma dritto filato nella quindicina dello Strega, il più ambito (e remunerativo in termini di vendite) premio letterario italiano. Ci conferma tutto Filiberto Zovico, che ci accoglie con molta cortesia nello stand della casa editrice veneta: “la candidatura di Cappelli l’abbiamo valutata proprio a seguito di una provocazione lanciata da D’Orrico in una delle sue entusiastiche recensioni allo scrittore lucano. Detto fatto. Certo, avremmo potuto prendere in considerazione la cosa già ai tempi di ‘Storia controversa…’, ma forse i tempi non erano ancora maturi e comunque questo libro è resta assolutamente all’altezza di uno scrittore in cui crediamo fermamente. Dopo che il fiuto di uno scopritore di talenti della sensibilità di De Michelis ci aveva consentito di scoprire Cappelli e di pubblicarlo, ritenemmo opportuno crescere con editori allora più importanti del nostro, seguendo una politica che abbiamo sempre fatto nostra. Finché non è cambiata la situazione tanto da poter rinsaldare con Cappelli un rapporto sempre restato molto stretto”.

Prima di lasciarci Zovico non ci nasconde di essere soddisfatto anche di Giuseppe Lupo sia per le vendite che per lo spessore artistico di uno scrittore comunque commercialmente più “difficile” in quanto legato a tematiche più territoriali e di diversa profondità storica, a cui Lupo “reagisce” con una capacità davvero unica di scrittura e scioltezza.

Di Consoli lo troviamo invece un po’ dappertutto: tra i libri dell’Ancora del Mediterraneo, editore partenopeo, e tra quelli Rizzoli, suo editore attuale che non ha certo bisogno di presentazioni. Sulle sue tracce finiamo alla piccola ma promettente Hacca di Macerata, casa presa ora per mano da Francesca Chiappa che ha pensato bene di affidare a Di Consoli una collana che ha saputo subito far levitare con autori del calibro di Carraro e Paris, Veneziano e Bonina. Ci parlano più diffusamente di lui anche Anna Grazia e Agnese Manni, dell’omonima casa editrice leccese: “Andrea lo abbiamo seguito fin dai suoi esordi e siamo state molto felici di averlo in catalogo con un piccolo libro ma davvero ben scritto e ricco di vissuto e nostalgia come ‘Marisdea’. Insieme a Raffaele Nigro, uno scrittore che nel carattere unisce dolcezza e determinazione, (nella stessa collana di Di Consoli ha pubblicato ‘Maschere serene e disperate’, ndr) è probabilmente uno degli scrittori più interessanti delle ultime generazioni di scrittori lucani. In catalogo abbiamo avuto poi anche il piacere di avere Giancarlo Tramutoli, uno scrittore giovane, spigliato e irriverente. Il lavoro editoriale su ‘Uno che conta’ è stato davvero divertente”.

Usciamo dal Lingotto con sentimenti contrastanti, sempre costretti come siamo a trovare una Lucania che non è mai dove dovrebbe essere, sempre costretta fuori da se stessa, lasciata a diluirsi nel mondo. Il che ci amareggia, ma pure ci allieta, perché il talento non è mai così provinciale.

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“Io, gli altri” alla XXII Fiera del libro di Torino

Si è appena conclusa la ventiduesima Fiera del libro a Torino (Lingotto, 14-18 maggio). Solo tra qualche giorno conosceremo i dati di affluenza definitivi e soprattutto di volume di affari sviluppato da una  rassegna che pare essere giunta alla fine di un lungo ciclo e in attesa di un rinnovamento non più rinviabile tra notevoli problemi di budget e il ritorno all’antico nome di “Salone del libro” che ovviamente comporta in sé problemi non solo semantici.
Paese ospite di questa edizione l’Egitto, fin dal primo Ottocento meta ambita dagli italiani, prima archeologi oggi turisti. Paese-mondo dalla ricca cultura, anche letteraria – animata da scrittori come Naguib Mahfouz o Ala Al-Aswani – che certo merita di essere conosciuta quanto le piramidi o le incantevoli spiagge di Sharm.
Filo conduttore della Fiera, invece, il tema “Io, gli altri”, una lunga riflessione ispirata dall’osservazione, tanto semplice quanto sistematicamente trascurata, che la conoscenza e la tolleranza verso gli altri passa necessariamente dalla conoscenza di se stessi. Innegabile quanto oggi l’Io sia malato. “Esibizionista, egoista, autoreferenziale, indifferente al destino e alle necessità degli altri, ha perso il senso della comunità ed è incapace di elaborare progetti condivisibili, di riconoscersi in una causa di utilità comune. Un Io che non sa guardarsi dentro”, che preferisce creare alter-ego virtuali offrendo di sé un’immagine edulcorata che non è il ritratto di quello che si è, ma di quello che si vorrebbe essere. Un tema che non ha mancato di investire le discipline più disparate: dalle neuroscienze alla psicoanalisi, dalla politica alla storia al diritto fino all’etno-antropologia con il concorso di autori del calibro di Edoardo Boncinelli, Luciano Canfora, Alberto Manguel, Elena Loewenthal e molti altri. Un tema centrale forte che però, perfettamente in linea con le sue premesse, non ha fatto ombra alle tante altre questioni discusse – impossibile seguirle tutte – collegate all’attualità: la giustizia, i diritti umani, la crisi della sinistra, il mondo del lavoro, il caso Rai, le mafie, le politiche della Chiesa.
Una congerie davvero senza fine di dibattiti, autori, editori, appassionati e operatori del settore. Senza farsi mancare qualche vip (uno su tutti Emanuele Filiberto di Savoia) della quale onnipresenza il mondo del libro, pur da sempre di bocca buona, non si sa francamente quanto abbia bisogno per rilanciarsi. Più gradite le numerosissime scolaresche che si sono accalcate tra sale e stand: la sopravvivenza futura del libro, questo semplice oggetto ad alto concentrato idee, ha molto bisogno di loro.

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marzo 10, 2010 at 6:03 PM

Recensione a: Serena Maffia, Sveva va veloce (Azimut, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 24 Gennaio 2010.

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Generazione da flipper

Come per il romanzo del cilentano Paolacci recensito qualche tempo fa sulle colonne di questo giornale, anche l’ultima bella prova di Serena Maffia, “Sveva va veloce” (Azimut, 2009), può servirci a fornire materiale generazionalmente utile a riflettere sullo sguardo letterario dei giovani scrittori di origine meridionale.

La trentenne Serena Maffia vive e lavora a Roma ed ha già al suo attivo pubblicazioni importanti con editori capitolini e toscani. È giornalista, autrice e regista per il teatro e per il cinema, collaboratrice e autrice in ambito televisivo, facendo così delle narrazioni il proprio pane quotidiano. Una capacità particolarmente apprezzabile nella solidità dell’intreccio e nella naturalezza dei dialoghi, con solo qualche scivolamento su immagini e situazioni più dolciastre e televisive e il bisogno di meglio precisare, in un paio di punti, i tempi di sviluppo della narrazione.

Nel libro si susseguono futilmente i giorni di villeggiatura estiva in una località della costa jonica calabrese non distante dal confine metapontino. Un gruppo di amici, altrimenti sparsi tra la vita di paese e quella romana, si raccoglie intorno ai tavoli e al flipper del bar della coetanea Caterina tra battute, ricordi, piccole avventure. Collante del gruppo è l’esuberante Sveva, a cui la Maffia consegna un ruolo di regista-protagonista della storia, raccontata passando da una prima a una terza persona variegate di toni diaristici e scanzonati, di atmosfere intime e di dialoghi, come già detto, sempre credibili.

La circostanza conferisce alla protagonista un ruolo simpaticamente stregonesco, che a volte rende la prepotente “bambina” amabilmente urtante ai restanti amici del gruppo, capace com’è di scovare particolari scabrosi della vita altrui per confidarli senza veli e ritegno alcuno, magari anche con intenzioni di autocompiaciuto egocentrismo. Un atteggiamento che non toglie mai comunque spessore all’ansiosa Sveva, continuamente pronta a caricarsi dei bisogni altrui grazie anche a una bulimica bisessualità che è come il segno di una capacità di cogliere con intelligenza la complessità delle cose. L’eros e il corpo, insomma, come modo di conoscenza del mondo più che come spasmodica attesa del Principe azzurro, il che equivale a credere nell’amore profondo, ma in nessuno che precisamente lo incarni. Sveva interpreta la vita come molteplicità da esplorare senza nulla tralasciare, luogo dove afferrare senza scegliere niente di definitivo, con uno sguardo morale moderno, tanto sublime quanto fragile.

Intanto, per il gruppo, si prospettano giorni d’inquietudine, grazie al coinvolgeneto emotivo nel suicidio di Paolo Fara, viziatissimo figlio di papà, cantante del gruppo Oradaria. La rivelazione postuma dell’omosessualità di Paolo e di un suo libro di canzoni, probabilmente manipolato per coprire le vere ragioni del suo atto, trascinano Sveva e la sua amica Miriam a un passo da una pericolosa verità alla quale non sono estranee oscure vicende di ’Ndrina e di droga. La storia man mano si intreccia con un altro episodio, quando Fabio, amante non troppo convinto di Caterina, alterca con la sua ex, Loredana, tossica in chiaro stato di astinenza. Solo Sveva sarà capace di intuire e cogliere i legami tra i due fatti, la verità sulla fine di Paolo e la sparizione di Loredana.

Però, è intanto il caso di stringere su due o tre cose.

Innanzitutto che Fabio, il quale appare e scompare come un personaggio secondario dalla narrazione della Maffia, ne è invece il vero co-protagonista. Angelo caduto della storia, passa il tempo a prendere a calci e schiaffi il Flipper del bar in un’eterna partita continuamente condotta con la paura (il terrore, il dolore) che la pallina possa impazzire e cadere giù “come inghiottita da un buco nero”. Spacciatore borderline, compromesso col malaffare della zona, riesce infine a credere all’amore di Caterina – di cui aveva salvato il sorriso da una possibile tossicodipendenza – poi colpendo duramente i suoi stessi clienti, quasi colpendo se stesso e ciò che è diventato dopo aver assistito all’esecuzione dello zio da parte di un sicario di una cosca locale. Insomma, Fabio colpisce chi lo tocca nei ricordi, negli affetti, sempre nel tentativo convulso di uscire dal binomio droga-morte. E solo Caterina riuscirà a perdonarlo e reciprocamente a redimerlo con pazienza (e con una certa dose di sospensione del giudizio morale) da una distruzione certa degli altri e di sé.

In secondo luogo, che a un certo punto, nell’ora di cena, il gruppo si ridistribuisce in famiglia, affonda nella solitudine degli interni abitativi, delle stanze quotidiane. Qui riemergono i vissuti personali, ombre che si muovono ovattate nel desiderio e nel dolore, pesanti come piombo. Una sorta di racconti nel racconto che lasciano prendere forma alle figure di contorno più interessanti: Massimiliano, ad esempio, il cui corpo sul letto matrimoniale non lascia mai impronte o come la grassa Laura, una vita bulimica in una casa in cui impera un letterale buio imposto ai suoi danni dalla madre. Figure in fuga, anche se non necessariamente con esito negativo (Maffia disegna le cose più dure mai ricavandole dal nero), contribuiscono a comprendere – come Sveva, Fabio, Caterina, Alberto, Michela… – la finale metafora del flipper che chiude il libro. Metafora non tanto della vita, quanto della conclusione dell’adolescenza (dell’attardarsi nell’adolescenza), del timore che quel gioco trascorra “inesorabile e noi siamo biglie fortunate che rotoleranno ancora per poco”.

Questo timore pare riverberarsi nella scrittura della Maffia con qualcosa di paradossalmente pudico e reticente, che lascia un po’ troppo sulla porta un certo mondo cui solo si accenna, più aperto ma pure più violento. Nessuno indagherà sulla sparizione di Loredana, nessuna ulteriore vendetta mafiosa si innescherà per la vicenda di Paolo. Un flipper troppo più grande, pare confessarci la Maffia (che deve e può osare dunque di più), per la dimensione delle giovani voci di questa storia. Storia che intanto può restare (solo apparentemente) ancora un’occasione speculativa, una stanza al riparo dal resto, un posto dove il dolore resti sempre un a tu per tu tra la pallina e il giocatore. Tuttavia con la paura costante che l’estate finisca.

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Written by antoniocelano

marzo 10, 2010 at 12:59 PM

Recensione a: Andrea Carraro, Il gioco della verità (Hacca, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 21 Aprile 2009.

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Per Andrea Carraro la verità è un gioco crudele

Ritorna in libreria l’autore del Branco

Dopo romanzi dello spessore del Branco, Non c’è più tempo, Il sorcio, lo scrittore romano Andrea Carraro torna ai racconti con Il gioco della verità (Hacca) sebbene con un passo molto più breve rispetto a quelli che avevano caratterizzato la raccolta intitolata La lucertola (2001).

Come valutare in Carraro questa nuova e accresciuta frammentazione dell’unità e della maturità della forma romanzo? un momento di stanchezza dell’autore, una fase di declino giunto alla fine di un periodo particolarmente ispirato? Niente di tutto questo. In queste pagine è come se la scrittura di Carraro si ingegnasse a moltiplicare tendenzialmente all’infinito una collezione di cammei dalla scrittura scabra e poco rassicurante. Un universo di brevi storie d’ambientazione piccolo-borghese che, accumulandosi, non disinnescano, anzi moltiplicano – trasformandosi in un fastidioso sciame – la minaccia che sentiamo nel leggere il loro male di vivere. Fino a creare, con i due racconti «La nonna morta» e «Il biglietto», un sistema parallelo, un paio di storie che differiscono tra loro solo per pochi particolari, quasi fossero state generate da un incubo fatto più volte.

I personaggi che abitano il mondo di Carraro sono quasi tutti preda di una particolare malattia, una patologia della forza di volontà, un tarlo che aggredisce la possibilità che la coscienza riesca a incidere sulle abitudini coattive, sulla capacità di reprimere positivamente le pulsioni. Insomma l’abulia nelle storie di Carraro è una patologia dello sforzo: c’è sempre nell’uomo un troppo marcato distacco, una zona vuota e scoraggiante tra il riflettere sul da farsi e il dare all’azione la forma di una decisione, di una qualsiasi convinzione. Il che non manca di trascinare i protagonisti alla deriva personale, in una sottile quanto irriducibile nevrosi, in esplosioni di rabbia esausta ma, proprio per questo, più distruttiva e inutile.

Come nel racconto «Il berretto» possiamo viaggiare in autobus notando la testa di un uomo che batte violentemente sul finestrino a ogni sussulto per poi accasciarsi sulle gambe dei viaggiatori e, insieme a questi ultimi, scendere alla fermata con addosso un peso indefinito. Possiamo tornare al lavoro perseguitati dal gioco crudele della coscienza che sa la verità (non tanto quella che l’uomo sia morto, quanto quella che non si è fatto nulla per avvertire o far qualcosa), ma cercando di continuare a scollarci narcisisticamente da quanto  accaduto pensando che domani è un altro giorno. Pur sapendo che morire toccherà anche a noi.

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Written by antoniocelano

marzo 10, 2010 at 12:51 PM

Recensione a: Antonio Paolacci, Flemma (Perdisa, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 3 Gennaio 2010.

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Lenta scorre l’agonia di vivere

Antonio Paolacci è nato nel 1974 a Torre Orsaia. Trasferitosi a Bologna e laureatosi in discipline dello spettacolo, si è già occupato di cinema, ha scritto racconti, è stato allievo e poi assistente di Luigi Bernardi (uno dei più noti scopritori di giovani talenti letterari), è stato collaboratore di riviste quali Fernandel e di case editrici importanti come Perdisa, per la quale ha scritto il suo primo lavoro: “Flemma”.

Secondo alcuni giudizi, questo noir mancherebbe, in parte, della compattezza tipica del romanzo. Ma il giovane scrittore è, invece, uno strano ragno capace di tessere una sua tela lenta e ricca di intersezioni quasi del tutto periferiche. “Flemma” non è, infatti, un romanzo corale di personaggi, ma una corale giustapposizione di bildung e di storie interiori, ognuna con una matrice autoriale comune eppure con una sua voce distinta, ognuna con un timbro di irriducibile solitudine, coltivata con linguaggio preciso, ma non freddo. Una scrittura solo apparentemente descrittiva, invece pensosa, cogitabonda e densa, che in qualche caso si attarda in certi modi “americaneggianti” nonostante l’autore ne stigmatizzi poi ironicamente l’uso. In tutti i casi, Paolacci dimostra una capacità di scrittura che strappa continuamente la giacca troppo stretta del genere e ce lo fa riconoscere già pronto per altre prove di maturità.

Un po’ tutti i personaggi di “Flemma” sembrano sperimentare una penosa, pericolosa, inquietudine interiore, una condizione fragile e precaria. È il caso di Chiara Lenzi che, sotto il ruolo della sua uniforme di poliziotta, mal controlla un suo fondo di erotica torbidezza. Tradita da questa interferenza, porrà fine alla storia del libro spingendone i protagonisti fuori, oltre quella volontà di rimandare una “vita normale” in un’adolescenza infinita, quel modo di guardare il mondo attraverso finestre opache alla luce. È anche il caso del Macaco, un ragazzo che sembra uscito da uno schedario lombrosiano, agito da una muta rabbia che finisce per armarlo in un efferato episodio di family killing di provincia.

È il caso dell’autolesionista Chiara, del balordo Giacomo, ma soprattutto della voce principale, quel Davide che la maschera la porta poi davvero, facendo l’attore dal difficile futuro su ribalte improvvisate. Davide che dialoga con il suo pubblico e con se stesso. Davide che è un giullare, lo specchio dei meccanismi morali dei suoi coetanei. Un buffone senza re, circondato da una corte dei miracoli distratta dalle canne, dalla tv, bisognosa di essere amata senza voglia e capacità di fare altrettanto, incapace di distinguersi se non attraverso un anticonformismo del tutto conformista.

D’altra parte, per dirla con Julian Jaynes (a cui il libro di Paolacci deve per il concetto di coscienza), Davide non è che l’immagine ribaltata dell’omonimo e invasato personaggio biblico che affronta Golia. Non ci sono più imperative, allucinatorie, voci interiori che suggeriscono immediatamente il da farsi, da secoli gli dei non parlano più direttamente agli uomini. E non esistono più uomini senza tempo, senza una dimensione interiore, senza ricordi e frustrazioni. Al protagonista (a tutti i protagonisti di “Flemma”) non resta che una precaria, intermittente e ingannevole coscienza di sé a fronteggiare la propria sofferenza (una percezione deformata delle cose, una depressione patologica), il dolore di “esistere senza più certezze, né risposte“ in una società spossessante e omologante, un Golia per il quale tra il grigio presente esteso di Bologna e il cilentano “paradiso abitato dai diavoli” (tra l’altro continuamente appesi a una tv) passa ormai poca differenza apocalittica.

È a questo punto che Paolacci tende la sua eccentrica tela narrativa. Spinto dalle sue deluse ambizioni, ma anche da un ultimo tentativo velleitaristico di riscatto, Davide segue Giacomo, cui si aggiunge il Macaco (una volta giunti nel Cilento da Bologna), in un poco convinto quanto abborracciato tentativo di rapina nel suo paese d’origine. L’abortito tentativo di rubare in casa propria si ribalta, alla vista dei genitori ormai anziani che gli chiedono quanto abbia intenzione di fermarsi, nella lucida e definitiva presa di coscienza di una diversità dagli altri solo presunta, di uno scoramento e un’inquietudine che, se non permettono a Davide di fare come il Macaco – di uccidere cioè con i suoi familiari una normalità incombente di consolidate abitudini: l’ordine, il lavoro, sposarsi, diventare padri – deflagreranno in urlo d’odio, tornato a Bologna, con il colpo di pistola esploso malamente dall’agente Lenzi.

Nessuno pare salvarsi, insomma, se non Luca (il cugino di Davide), non a caso orfano dei genitori naturali e libero da pressanti scogli edipici. A differenza degli altri volti che animano il romanzo, l’ancora nebulosa coscienza della diversità di Luca rispetto all’idea che il mondo esterno può farsi di lui, è chiamata a individuarsi e precisarsi in tempi molto rapidi a causa di un tentato “stupro punitivo” cui Luca reagisce con difensiva violenza. In qualche modo affrontando i modelli di famiglia, scuola, amicalità e sessualità che il suo mondo cerca di imporgli (e non si tratta qui, come è stato scritto, di arretratezza dei piccoli centri meridionali), Luca sviluppa una più individuata coscienza di sé, prova a farsi autonomo e progettuale, a rassicurare le proprie paure introiettando in sé figure e modelli positivi di vita. Dal canto suo “Flemma” prova ad avvertirci, con Jaynes, che la coscienza di sé è un’invenzione dell’uomo ancora troppo recente e precaria perché possa guidarci onnipresente nel mondo e nelle scelte senza autoinganni.

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Leggi la recensione sul sito del Gruppo Perdisa Editore

Written by antoniocelano

marzo 10, 2010 at 11:30 am