Antonio Celano

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Livorno, giovedì 21 luglio ore 21,30. Eden/Parole e musica alla Terrazza Mascagni (15-23 Luglio): La bambina e il sognatore di Dacia Maraini

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settembre 11, 2016 at 8:28 PM

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Bianca Garavelli: Le terzine perdute di Dante. Presentazione sabato 20 giugno 2015 – “Premiata Belforte 1805 – Libreria” Livorno

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Invito presentazione Bianca Garavelli Le terzine perdute di Dante

Sotto: la presentazione del libro Le terzine perdute di Dante (Rizzoli, 2015) negli spazi della «Premiata Belforte 1805 – Libreria» di Livorno. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli.

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Sotto: Un altro momento della presentazione del libro. Da sx: Antonio Celano, Bianca Garavelli, Francesco Mencacci.

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Sotto: finita la presentazione, Bianca Garavelli legge il Canto XXVIII del Paradiso affrontando, durante il commento, il tema della cosmologia dantesca.

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Sotto: al termine della serata, foto di gruppo. Da sx: Antonio Celano, Nino “Belforte” Di Paolo, Bianca Garavelli e Francesco Mencacci.

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Recensione a: Andrea Di Consoli, La collera (Rizzoli, 2012)

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Copertina LaCollera

Questa recensione è stata pubblicata, in forma ridotta, su «l’immaginazione», n.  274 marzo-aprile 2013.

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Diciamolo subito: Pasquale Benassìa, il collerico protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Di Consoli, è l’autentica impossibilità di avere, del Sud, un’idea dialettica. Uno spazio meridiano, cioè, in cui gli opposti riescano, in qualche modo, per breve o lungo gioco di composizioni successive, a trovare una sintesi, un equilibrio superiore, il raggiungimento di una vetta che alla fine non frani disfacendo tutto. Tanto da piegare il tempo narrativo in una circolarità che è prima dei Lumi e prima di Cristo, e forse pure fuori da ogni possibile paganesimo, se alla fine non soccorre nessuna naturale palingenesi a riscattare un qualsiasi futuro, sia pure individuale. La collera –lo sottolinea Andrea Caterini in un’intervista all’autore– altro non può essere, così, che la definitiva presa di coscienza dell’«impossibilità d’essere liberi dal bisogno, e quindi terrorizzati dalla propria incapacità a riconciliare la vita ai sogni che la animano»; facendoci pensare che i panni di Benassìa siano pure sostenuti da un’amarezza che è dell’autore, anche se Di Consoli davvero difficilmente ci pare romanziere da poter perdersi in qualche modo su strade che sono proprie dell’autofiction. Anzi.

Ma intanto l’eroe di Di Consoli: che è un personaggio duale e caotico di visceralità e ardori, corporeità e spiritualità senza cautele, tanto da decretarne un’irriducibile quanto rivelatrice inappartenenza al mondo. Fin dall’infanzia, dove il giovane Pasquale Benassìa rintraccia i segni e i sogni, misteriosi (e perfidi) del suo destino, e il demone taurino e istintivo della sconfitta, delle macerie, della deiezione dalla storia, delle ragioni del torto (nasce lo stesso giorno della morte di Hitler). Cui miscelare, come instabile nitroglicerina, la gioia «santa», lo stato di grazia di certe visioni miracolistiche che paiono uscite da pagine antropologiche sul mondo contadino e pastorale (l’episodio della “resurrezione” delle pecore del padre). Pulsioni, passioni, aspirazioni ben presto messe alla prova dei «tornanti» cruciali e, per certi versi fondativi, della storia meridionale e italiana che sono gli anni Settanta.

E il fascismo personale che Benassìa crea e proclama, come parte della stessa collera che lo agisce, pare proprio originarsi e scontrarsi con le terrose radici del protagonista: trovando, in questo impasto e urto, la sua furiosa e sulfurea forza polemica. Pasquale è figlio di miserabili contadini calabresi, ben presto irredimibile tabagista catarroso e sovrappeso, ma pure autodidatta talentuoso dalle letture compulsive e disordinate, fantasticatore e visionario, umorale, atipico filosofo dalle singolari teorie eliocentriche ed entropiche (ché nel generoso dispendio fisico di sé e della propria energia intellettuale pare ricordare i tratti biografici di un Avicenna). Così, il fascismo sui generis di Benassìa non si costruisce su nessuna militanza, su nessuna disciplina di partito, su nessuna ora fatale della storia, ma rimane un umore sdegnosamente solitario. Anche quando il giovane calabrese emigra a Torino, operaio alla Fiat, negli anni centrali della contestazione e delle rivendicazioni operaie; di fronte alle quali resta, non a caso, sì contrario, ma piuttosto eccentrico.

Invece c’è, negli occhi del giovane Pasquale, qualcosa di impervio e inquieto: una presunzione di ascesa (forse anche un po’ guascona), la fantasia turbinosa di una guerra dello spirito che si ribella a ogni compassione, a ogni idealizzazione del mondo contadino, a ogni sguardo basso, piantato nel male della terra: «ché lui a Torino non era andato per evolversi da contadino a operaio… ma da contadino a pensatore, a filosofo, a sacerdote della verità». C’è in Benassìa una spinta che è stata anche, per qualche tratto, generazionale, ma nel contempo declinata e deviata individualmente in una fantasticazione irriducibilmente superoministica: «quello che davvero voleva era vivere nella forza, in un pensiero maestoso e inimitabile, e poi innamorarsi di una donna altera e intelligente, e poi studiare e poi farla finita con la commedia triste del socialismo delle lotte operaie e contadine e, infine, ergersi a pontefice della propria leggenda personale». Così, attraverso scombinate letture, il suo mondo trascolora in una sorta di confuso e romantico medioevo interiore: «Pasquale si rifugiava, nel tempo libero, nella lettura di riviste e di libri: soprattutto di storia e, tra questi, di storie monarchiche, manifestando sin da ragazzo una strana attrazione per le monarchie di ogni epoca, più volte trascorrendo del suo tempo adolescenziale a immaginare –in un guazzabuglio senza capo né coda– re, regine, cavalieri, templari e cortigiane». Col risultato, insomma, di un fascismo che subito depone le sue armi più immediatamente storico-politiche, per rivelare, nelle sue origini, un retrogusto letterario e filosofico: nel senso di certe concezioni nietzschiane o certe posizioni stilnoviste per cui la nobiltà può essere una virtù morale individuale blasonata di orgogliosa superiorità, più che indicare una condizione sociale di nascita privilegiata. E con esiti che possono sembrare persino donchisciotteschi, e tuttavia pure sempre cogliendo la verità che, spesso, l’«eterno fascismo degli italiani» altro non sia stato che un personale ritaglio, la declinazione di un’idea collettiva (storica, sociale, politica) dai contorni per nulla rigorosi.

Si genera nello scontro con le radici anche la collera. Che, se per dirla con Bodei, «nasce in genere da un’offesa che si ritiene di aver immeritatamente ricevuto, da una bruciante ferita inferta colpevolmente da altri al nostro amor proprio o alla nostra autostima», l’ira dell’aristocratico Benassìa non può che, all’inizio, rivoltarsi apparentemente in una sorta spirituale di odio di classe rovesciato, contro l’ingiustizia materiale rappresentata dalle origini. Pur sapendo che la collera risentimento non è –sia chiaro– e nemmeno odio: sentimenti notoriamente bisognosi di calcolo, dissimulazione, lunghi tempi di gestazione. L’ira, la collera, sono invece palesi, scoperti, senza remore o rispetti di sorta. Sono fatte di resistenza polemica e immediata, ma pure segnalano sempre la debolezza della breve durata, la fragilità di chi ne è agito, l’amarezza dell’anima e del corpo, le sue ulcere, le sue ipertensioni, le sue lacerazioni. La collera è, paradossalmente, profondamente contadina; è una jacquerie individuale che, in quanto tale, pare sollecitare una contro-risposta parimenti risentita del mondo, tanto che di Benassìa pure è stato detto con acume finisca per diventare un punitore di se stesso: perché noi meridionali «ci proviamo a essere civili, ci proviamo a riconoscere lo stato, ci proviamo ad affidarci al lavoro, ma poi perdiamo la testa e iniziamo a ragionare con la pancia, con l’odio, con il cazzo duro, con il fuoco in mano».

Tuttavia c’è qualcosa di più nella storia, qualcosa che travalica la sconfitta delle aspirazioni di partenza di Benassìa per colpire al cuore il suo protagonismo. Un risultato che a mo’ di zavorra, anche con risultati sottilmente paranoici nel lettore, pare in agguato fin dalle prime pagine del libro, subdolo e pronto a ingoiare nuovamente Pasquale nello sfondo meridiano da cui faticosamente cerca di affrancarla. Un peso, insomma, che prende le forme del suo coetaneo Germano Altomare (barista coinvolto in un losco giro gestito da siciliani) che, paradossalmente lo spinge a partire dal suo Paese dei Mori verso Torino. Pasquale Benassìa, dopo un viaggio attraverso l’Italia a bordo di una vecchia 500, approda, così, alla Fiat, dove si impiega logorandosi di lavoro come meccanico, tuttavia, come prevedibile, sprezzando i suoi colleghi meridionali (o di sinistra) e ingraziandosi il caporeparto Marini (piemontese e di destra). Inizia in questo modo quella che gli pare la scalata verso la vetta definitiva delle sue aspirazioni pur già comprendendo, sempre tra i fumi della collera, che anche il Nord, «stordito e istupidito dalla fame di soldi», non potrà essere che un’altra illusione. Sono affermazioni che preludono all’incontro con la siciliana Simona, capace di affogare Pasquale – nonostante i sensi di colpa per la sua fidanzata, Magda Beccaria (un’insegnante torinese) – in un gorgo di sensualità consumato in una camera d’albergo a ore. Un amore la cui meccanica confonde delle sue opacità i sensi e la mente sbigottita di Pasquale, rivelandone pure l’angosciosa incapacità di accedere al mistero della donna. Così come oscura e inconoscibile rimane la ragione della persecuzione da parte del gruppo di siciliani al rifiuto dell’incauto Pasquale, attirato nel bar dal solito Altomare, di fare, per loro, una non meglio esplicitata consegna. Fatto, tra l’altro, non si sa se e quanto legato alla «faccenda» di Simona, che nel frattempo s’è dissolta nel nulla.

Vicende che lasciano irrompere con forza nel libro –come ha notato Aurelio Picca– il romanzesco, col rocambolesco ritorno al Sud, sotto scorta, di Pasquale. Un rientro che ha la stessa repentinità di un’ancora gettata di colpo in fondo al mare e che lascia Benassìa in balia dell’assurdo. Faccende che lo avvincono nelle spire delle paure e di una vita allarmata, all’inizio appena lenita dal ritorno in famiglia o grazie al sostegno (tra l’altro collericamente tradito) dell’amico Anile o dell’incontro con la carne accogliente di Teresa. Terrori tuttavia definitivamente estinti solo dall’obolo umiliante (e che a Torino s’era voluto evitare) pagato ai taumaturghi moderni del familismo politico, dello scambio di favori, di quella mafia per ironia della sorte così affezionata a certa destra. Pure con la beffa di essere coinvolti, da protagonisti, in importanti fatti di cronaca, tuttavia tanto agghiaccianti da non poterne fare neppure menzione se non al rischio della galera o della vita.

Faccende e derive che non possono che consumare definitivamente ogni collera, se per dipendere da nessuno –dice Di Consoli– alla fine si finisce per dipendere da ognuno. E consumano anche Pasquale, che si spegne già quasi dimenticato da tutti, la sua nera anima di filosofo trasmigrata in un cane randagio che lavora rabbioso coi denti un osso di bue gettato per strada. Perché, per Andrea Di Consoli, ci pare, a differenza di altri intellettuali meridionali, la verità del Sud (quel Sud con il quale pure mai si riesce a farla definitivamente finita) non è mai fuori portata o abilmente nascosta, ma più semplicemente buttata via o dimenticata, non servendo a nessuno.

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febbraio 21, 2013 at 12:34 PM

Recensione a: Lilli Gruber, Eredità (Rizzoli, 2012)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» domenica 11 novembre 2012.

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La prima mail a darmi l’allerta via Facebook è quella sibillina di Vincenzo Pagano, fratello di tutta un’infanzia: “L’hai letto l’ultimo della Gruber?”, mi scrive dal paese. “No, non l’ho letto. Perché?”, gli faccio di rimando, e magari sarò risultato un po’ secco, ma in fondo francamente demotivato dagli ultimi due o tre sonori “pacchi” (più o meno romanzeschi) rimediati dall’ultimo giornalista di grido. Però, insomma, è successo che nel suo ultimo lavoro, ”Eredità” (Rizzoli, 360 pagg., € 18.50), Lilli Gruber ha parlato di Castelluccio e dunque la lettura del libro mi s’impone. Ma mentre cerco di capire cosa c’entri il paese dove sono nato, e come, con la notissima giornalista Dietlinde Gruber, detta Lilli, mi raggiunge un post dell’amico Sproviero che mi indica il dibattito in rete che intanto s’è avviato, e alla cui fonte trovo, infine, Giuseppe Pitillo, vale a dire uno che la memoria del nostro paese prova attivamente a tenerla in vita e – scopro con piacere – con un ruolo anche nella redazione delle pagine di “Eredità” più interessanti ai nostri fini. E alla fine va così, che vado in libreria quasi fisicamente sospinto dalla curiosità di una comunità dalla quale dovrei essere geograficamente e spiritualmente, ormai, piuttosto distaccato. Invece.

Invece quel richiamo che, a un certo punto, deve aver riconosciuto forte anche la cosmopolita Gruber – mi dico – se, al culmine di una riuscita carriera, si sente di scrivere un libro che ripristina i legami, anche intellettuali, con la sua Heimat (malamente traducibile con “patria”), esaurite le lunghe insofferenze giovanili per le tradizioni della sua terra e per certa “retorica patriottica che in Sudtirolo”, dove è nata nel 1957, è spesso sfociata “in aperto nazionalismo”. E dunque, se “Eredità” non può dirsi propriamente un libro di storia, ma un saggio dedicato alla memoria e al “recupero di un’eredità familiare e culturale” che appartiene all’autrice, però con la storia – la storia tormentata di una terra di confine (un tema, questo, di grande modernità) – fa i conti. Soprattutto con il “passato che non passa” di un Novecento che pare a volte davvero essersi consumato con l’ansia veloce di una sigaretta: per ogni vivace bagliore, fumo e cenere. Un passato da cui si enuclea la verità presente di un Sudtirolo complesso e stratificato (radici germaniche, apporti italiani, infine globalizzazione) cercato dall’autrice tra le pieghe vive della sua esperienza, attraverso un giudizio che direi appassionato quanto distaccato, attento alla storia e al quotidiano.

Mi pare, allora, che l’età dell’autrice non sia oggi necessariamente quella dei sopralluoghi nostalgici, ma quella che ci chiarisce un Sudtirolo alla prova degli anni cruciali del Secolo breve. Un trentennio segnato, nel libro, da due figure femminili dalla forte personalità: ribelli (ognuna a suo modo), caparbie e fortemente legate alle loro identità e terra. Sono la bisnonna di Lilli, Rosa Tienfenthaler e la prozia Helene Rizzolli, detta Hella. Figure entrambe, direi, della crisi. La prima, proprietaria terriera, le radici ottocentesche legate alle lealtà patriarcali dell’impero austro-ungarico liquidatosi, prima, nel trauma irrimediabile della sconfitta con l’annessione all’Italia del Sudtirolo; colpito, poi, quest’ultimo, dalla becera italianizzazione imposta dal fascismo. La seconda, legata a un futuro che guarda al passato, alle nuove speranze di ricongiungimento alla patria dei sudtirolesi, ma polarizzate questa volta dal liberticida Reich nazista: illusioni presto impantanatesi tra le pieghe di uno sciagurato patto tra regimi totalitari. Figure, dunque, entrambe, della crisi – dicevo – così come di una percezione del confine e dell’identità come casa, ma pure nostalgia, resistenza e attrito di fronte agli inevitabili rovesci della storia. Direi pure alternative a personalità più defilate nel racconto – Berta Rizzolli, ad esempio, o gli stessi genitori di Lilli – che denotano, invece, una più spiccata attitudine a vivere l’identità del confine, pur senza svendite, come permeabilità positiva, contaminazione, anche sfida, conoscenza della differenza, opportunità. In un Sudtirolo, oggi, comunque molto cambiato.

Ma riprendiamo le fila: dunque, Castelluccio Inferiore. Ma cosa c’entra? C’entra, perché proprio la repressione e la pesante offesa alla memoria di un territorio perpetrate dai fascisti (alle quali, in seguito, si salderanno le ristrettezze economiche imposte dalla crisi del ’29) finiscono per creare delle decise reazioni che spingono molti sudtirolesi tra le braccia del pangermanesimo hitleriano. Certo con imbarazzi, pericolose contraddizioni e qualche diffidenza tra i due alleati che, alla fine partoriranno la scellerata soluzione delle “Opzioni”. Ma pure con una mal riposta forza di illusione sulle reali intenzioni di riannessione naziste (giocheranno qui anche le false speranze suscitate del referendum per il ritorno della Saar al Reich), che scrive davvero una brutta pagina sulle compromissioni del Sudtirolo con il nazionalsocialismo, su cui la Gruber – va detto – non fa sconti di sorta. Nemmeno nei riguardi della sua prozia Hella che è, dal canto suo, arrestata l’8 gennaio 1938 come attivo agente anti-italiano e anti-fascista e incarcerata insieme a detenuti “comuni”, in questo caso prostitute – pratica (con alterni risultati) adottata, tra l’altro, da tutti i regimi totalitari, dalla Spagna franchista all’URSS stalinista, per umiliare e fiaccare la resistenza dei “politici”. Giunge, infine, la decisione del regime di comminare cinque anni di confino alla giovane attivista nazionalsocialista. Una condanna esemplare, che possa servire da esempio agli altri militanti sparsi per la Bassa Atesina, dove Hella opera politicamente.

Così, sulle tracce di Helene, confinata in Lucania dal 19 maggio al 18 novembre del 1938, la Gruber giunge a Castelluccio nell’agosto di quest’anno. Scrive l’autrice appena in paese: “Ho immediatamente la sensazione che quasi nulla sia cambiato da quando, settantaquattro anni fa, Hella si è ritrovata qui, al confino, mille chilometri a sud della sua casa di Pinzon”. Il che, se per un verso mi pare un’affermazione di accorata suggestione sul filo della propria riallacciata memoria, per il resto mi lascia perplesso, se dà l’impressione di scivolare verso certo “levismo” o fascinosa cartolina dell’immoto paesino-presepe, in contrasto o in accordo (ma non è questa la sede) con quell’invalidante scostamento della forbice modernizzante – buche nelle strade e odiosi viaggi in treno inclusi – che la Gruber individua tra dato oggettivo e personale fastidio, che è poi il complesso gioco tra termini assoluti e relativi del cambiamento del Sud rispetto ad altre italie.

Ma Hella? La Gruber ne ricostruisce i mesi della permanenza grazie alle lettere indirizzate alla famiglia conservatesi dal confino e grazie all’aiuto ottenuto sia dal citato Giuseppe Pitillo che dall’ingegnere (con il vizio della storia locale) Biagio Aiello. La Rizzolli è posta in pensione al numero 294 di via Roma, e rubricata, con tipico contorsionismo linguistico, come “casalinga”. “Perla” di imbarazzo ideologico cui ben fanno seguito altri errori e svarioni a carico dell’inefficiente macchina burocratica fascista, senza contare le molestie notturne dei tutori della legge che si assicurano, così, il rispetto del coprifuoco da parte della confinata. Pure, al di là di tutto questo, complessivamente il rapporto di Hella con Castelluccio rimane, pur registrando continui miglioramenti, piuttosto contrastato. Certo, gioca un “vero e proprio shock culturale” patito al suo arrivo, che Hella condivide con altri confinati, non solo sudtirolesi, di cui si sono potute ricostruire le vicende. Con in più le ipocrisie di qualche locale delatore; il contrasto con la nuova padrona di casa; la necessaria incomprensione di certi costumi per oggettiva mancanza di informazioni storico-culturali. E tuttavia si percepiscono nella Rizzolli anche connaturate rigidità di giudizio che la spingono ad alcune affermazioni francamente ingenerose, quasi fossero generate da una più complessiva inadattabilità all’ambiente o da una provocatoria interpretazione a tesi. Rigidità però sempre sorprendentemente compresenti, nel giovane “spirito ribelle” e temerario, alla capacità di cogliere con grande intelligenza e capacità descrittiva caratteri e ambienti che ci restituiscono pagine gustosissime e ironiche che sono come istantanee ancora vive del nostro “come eravamo”. Il resto lo fa il tempo, la progressiva comprensione che il fascismo regime – che nel Sudtirolo mostra monolitico la sua faccia più oltraggiosa e aggressiva – a queste latitudini è un totalitarismo sì fanatico e violento, ma pure inadeguato e disorganizzato, tanto che due sorelle di Hella, Berta ed Elsa, per farle visita e portarle i saluti della madre, Rosa, riescono ad attraversare tutta la Penisola senza suscitare alcun sospetto. Del resto Hella non è per nulla una donna fredda e lentamente, pure sollecitata dalla naturale socievolezza dei Castelluccesi, a sua volta inizia a coinvolgersi con quegli italiani alla fine abbastanza diversi, per indole, da quelli che vanno conculcando così ferocemente la libertà nella sua terra. Possono nascere, così, anche belle amicizie di cui la più forte resta quella con “Rita Lauria, di dieci anni più grande, sposata col signor Conte”, con cui trascorre molta parte delle giornate (rimpinzandosi di fichi, magari, o seguendo la spremitura dell’uva coi piedi) e che, prendendosi cura di Hella, riesce così a mitigarne molte comprensibili ritrosie, permettendole di mostrare i lati più solari del carattere. Certo suscitando (nemmeno i Castelluccesi sono perfetti) qualche gelosia, ma anche il riguardo da parte del podestà Ernesto Catalano. E le pronte attenzioni di qualche locale giovanotto (e non solo!). Ma sembra un attimo, perché la vulcanica, coraggiosa e geniale Berta riesce rocambolescamente a far revocare il confino alla sorella addirittura da Galeazzo Ciano. Risparmiando, così, più di quattro anni di ulteriore pena a Hella che, interrotta quell’esperienza e tornata a casa, resterà ancora del tempo in contatto con la signora Rita.

Ora, chiuso il libro, si potrebbe persino desiderare che Hella, forse, avrebbe potuto rimanere di più: conoscerci meglio, farci conoscere meglio (curiosi di natura come siamo) il suo mondo. Sicuramente, molti, a differenza di lei, giunti in cattività costruirono qui la loro libertà. Ma amiamo troppo la nostra terra per non comprendere che altre migliori, se non la sua, non avrebbero potuto esistere. Del resto, mi pare difficile anche pensare a Hella Rizzolli se non come a una di quelle persone massimamente libere solo se massimamente avvinte alla loro radice. Pensiamo sempre la libertà possa dirsi nomade; spesso invece ci sorprende, se porta con sé il nome di una mistica Heimat.

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novembre 12, 2012 at 2:21 PM

Recensione a: Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 14 Marzo 2010.

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Lavoro e sesso ai tempi dell’altoforno

Può  accadere che in un romanzo dedicato alla provincia industriale italiana, Piombino finisca in qualche maniera per chiamare Melfi. Il libro è Acciaio, esordio narrativo di Silvia Avallone (Rizzoli, 2010). Il suo primo risultato, quello di aver spaccato polemicamente la cittadina toscana in cui è ambientata questa storia d’amore e d’amicizia tra le adolescenti Anna e Francesca. Vicenda che si esalta e si consuma, per poi faticosamente ricostruirsi, sullo sfondo di una Piombino dominata dalla fiamma dell’onnipresente altoforno «Afo 4» – in realtà ultimo morente mostro di una mitica «Era dell’acciaio» ormai alla fine – che arroventa insieme a un inestinguibile rossore estivo i casermoni da socialismo reale di via Stalingrado (una strada inesistente nel piccolo centro siderurgico toscano, ma traducibile anch’essa dal russo, e dal nomignolo dato al baffuto compagno Josif Vissarionovič Džugašvili, come «Città dell’uomo d’acciaio»). In questo spazio tra fabbrica e città di mare i lavoratori delle acciaierie Lucchini vivono le loro storie di fatica e di morti bianche, ma pure di droga e di sesso, di inadeguatezza e di violenza familiare, di truffe e di furti, di fierezza e di sconfitte. Anche la loro estate trascorre come può su una spiaggia di fortuna, dove la gente se ne sta a guardare i traghetti che partono per l’Elba: un paradiso destinato solo ai turisti con i soldi per permetterselo.

Dunque ovvio potesse sollevarsi una difesa scandalizzata (e francamente un tantino ideologica) della rispettabilità operaia e dell’onorabilità cittadina. Purtroppo però, prima che il libro fosse realmente letto e attentamente valutato, come la realtà a esso sottesa (pur nella ferma convinzione che sbaglierebbe chi pensasse a un romanzo come a un saggio di sociologia).

Una situazione di cui si parlava, a proposito di Melfi, proprio sulle colonne di questo giornale il 25 febbraio scorso in un convincente articolo di Rocco Pezzano. Perché, per quanto se ne dica, il declino del paradigma fordista e gli irresistibili processi di globalizzazione e delocalizzazione delle imprese di questi ultimi decenni hanno nettamente evoluta l’identità operaia. E il romanzo della Avallone (come i dati snocciolati da Pezzano) si calano in una realtà vera a Piombino come a Melfi: la classe operaia, prima figlia di ceti contadini e artigiani violentemente sradicati e inurbati (della cui parabola finale e nevrotica racconta un altro bel romanzo scritto da Dante Maffìa, Milano non esiste, Hacca 2009), è ormai una declinazione piccolo-borghese della diffusa e nebulosa classe media nazionale. Gruppi con aspirazioni di vita e aspettative sociali radicalmente diverse dall’orizzonte di fabbrica e dai suoi ritmi e carichi di lavoro, origini che ne schiacciano nel disagio gli ormai sfumati contorni sociali, sottraendoli a ogni ulteriore progetto di palingenesi individuale prima che collettiva.

E allora la cocaina e le amfetamine in fabbrica, i telefonini sul lavoro, la musica sparata nelle orecchie, la discoteca prima del turno, il «perenne desiderio di scopare, là dentro» dando «un’occhiata alla bionda del calendario Maxim». E poi un quartiere abitato da disillusi e da sfaccendati, da piccoli spacciatori e da sbroccati, da giovani che sempre sognano di partire, dai rissosi, dagli sconfitti. A cosa serve asserire, allora, per citare l’ottimo Pezzano: «l’operaio non si droga»? A cosa serve sostenere che «la tristezza regressiva da provincia frustrata, così come lo smarrimento legato alla perdita presunta degli ideali del tempo che fu, cominciano a essere una caricatura un po’ datata e manierista della quale prima ci si libera meglio è»? (così il sindaco di Piombino su «Il Tirreno» del 2 febbraio 2010). Sorprende.

Invece, nel libro, nessuna realtà ridotta a macchietta, e nemmeno alcuna tentazione neorealista, ché alla giovane autrice ciò che interessa raccontare sono «le vite dei giovani che ancora vivono nei palazzi popolari» con l’uso di una scrittura veloce eppure controllata, dai dialoghi duri, spesso violenti, benché mai dai toni cinici o crudeli. Una strana mescolanza di realismo espressionista e di empatica attenzione alla sofferenza psicologica dei personaggi, di linguaggi bassi e citazioni colte (D’Annunzio, Carducci, Eliot).

Acciaio è il romanzo di formazione di due adolescenti, Anna e Francesca. È la scoperta della sensualità dei loro corpi sulla spiaggia, lo smarrimento delle prime emozioni, la lotta dei sogni contro la loro fragilità, contro lo svilimento e il pervertimento sempre tentato dal male del mondo circostante. È la storia di due ragazze della generazioneno-future: marginalità della scuola, individualismo, assoluta mancanza di ogni attitudine all’impegno sociale (l’autrice riesce a far toccare quasi con mano la reazione fisica di repulsione di Anna nei confronti di una coetanea portatrice di handicap), massimo gap generazionale con le famiglie (del resto diffidenti e lontane anche tra loro, composte di madri inconcludenti e padri balordi), una voglia infinita di evadere dal proprio mondo.

Acciaio è la storia di un’amicizia tanto forte da escludere il mondo circostante, di una complicità così vissuta da sfiorare l’innamoramento, da bruciare il proprio carburante fino alla separazione e alla ricerca di una possibilità altra di crescita finalmente fuori, nel mondo esterno. Meglio sarebbe dire nel deserto della propria città. Anna, personaggio più aperto e positivo, tenterà la via dell’innamoramento con un amico del fratello, sentimento ben presto strozzato da un’arida ripetitività, dall’incapacità di sostituire il vuoto lasciato dall’amica. L’introversa Francesca, invece, violentemente malmenata da un padre morboso e delusa da una madre incapace di difenderla, sperimenterà una personale catabasi che la trascinerà in un locale per soli uomini. Solo una tragedia, un incidente sul lavoro, creerà le condizioni per la problematica rinascita del sodalizio.

La vita di Anna e Francesca, come quella del quartiere al quale appartengono, sembra giocare tra due luoghi, meglio, tra due utopie. La prima è quella del falansterio operaio, l’altoforno che domina la città e che pare nutrirsi di un’energia inestinguibile. Un’eternità che si svela invece più apparente che reale: «Afo» è solo l’ultimo di quattro forni dismessi e delocalizzati che il sopraggiungere dell’inverno pare quasi spegnere. L’altoforno è il passato.

La seconda utopia ha il nome di donna: è l’Elba (non a caso dagli etruschi una volta chiamata «Ilva», come le acciaierie prima che fossero acquisite dalla Lucchini e compartecipate dai russi), l’isola dove alla fine Anna e Francesca si ritrovano. Come a dire un sogno più pulito verso il quale nuotare, il futuro femmina o forse la riappropriazione di un territorio che si è sempre avuto sotto gli occhi e sempre si è lasciato al godimento o allo sfruttamento di altri.

Di padre piombinese, Silvia Avallone è nata a Biella nel 1984. A 16 anni si è trasferita a Piombino frequentandone il liceo e muovendo i primi passi letterari. Vive a Bologna. Ha esordito con la raccolta di poesie Il libro dei vent’anniAcciaio è il suo primo romanzo. C’è chi lo sostiene per lo «Strega».

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marzo 14, 2010 at 7:36 PM

Recensione a: Laura Bocci, Sensibile al dolore (Rizzoli, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 233 (settembre 2007), p. 44-45.

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Pur nella differenza di toni, di senso e di stile, è già stata rilevata da Novella Bellucci («L’indice», n. 3/2007) una «comune discendenza» nella molteplicità e nella ricchezza di temi tra Di seconda mano, libro rivelazione di Laura Bocci, e il più recente Sensibile al dolore: il primo, caratterizzato da forme mescidate principalmente di saggio e narrazione; il secondo, romanzo polifonico costruito da tre voci femminili.

E tuttavia ci pare possa essere rilevato almeno un altro dato di continuità strutturale in più, quasi un atteggiamento mentale di fondo che riesce a tenere legate saldamente le prove apparse a due anni di distanza l’una dall’altra. Ci pare, insomma, che l’Autrice continui a proporci, in più punti del suo romanzo (e stavolta per bocca di una delle sue voci narranti), quell’atto e quella fatica del tradurre, nelle sue fondamentali operazioni di attraversamento e empatia, quella disponibilità a trasferirsi «armi e bagagli nel libro stesso, e poi a restarci dentro», già spiegata all’interno del suo primo testo dedicato, appunto, al particolare mestiere di «tradurre letteratura». In Sensibile al dolore non si tratterebbe ovviamente di tradurre un testo in un altro, quanto dell’arte ben più difficile di portar dentro, sempre attraverso le parole, una vita in un’altra –addirittura due in un’altra–, di portare alla coscienza, rivivendolo e filtrandolo in un altro sistema emotivo e culturale, il dolore vissuto da altri, condividendolo e lenendolo pur senza mai riuscire a estinguerlo. E tutto questo in un libro coltissimo che perciò invita alla lettura e alla rilettura, dalla scrittura densa e tuttavia urgente, capace di coinvolgere e di irritare, dai toni sempre perfettamente aderenti alle psicologie e alle esistenze di personaggi complessi e lacerati. Tanto da spingere addirittura alla scelta di caratteri tipografici diversi per ognuna delle protagoniste: per il diario di Anna, ad esempio, uno della famiglia dei Courier, dalle forme squadrate –Modern face o, come avrebbe detto il grande Aldo Novarese, «bodoniane»– e con aste sottili e eleganti, che con le spaziature larghe e invase di bianco si lasciano leggere peggio, ma bene sanno rendere lo stile da appunti provvisoriamente ricavati da un blocco note informatico; per le parole di Maria P., poi, un Monotype corsiva dal sapore antico e con qualche gotico contorcimento, che sembra incidere nella carta con la punta dura e affilata di un pennino metallico. Cosa che consente, tra l’altro, di farsi anche una rapida idea visiva della differenza caratteriale tra le donne che via via si danno il cambio in una narrazione costruita come una sorta di matrioska, dagli incastri modulari ma tutti estremamente ben collegati in un’unica struttura.

La storia è questa: una donna che viaggia in una cuccetta ferroviaria incontra casualmente una sconosciuta che risponde al nome di Anna, la quale decide di leggerle il diario da cui si apprendono uno spirito dalle complesse stratificazioni anche ideologiche e una vita segnata da alcune esperienze psicanalitiche fallite. Qui il lettore viene a scontrarsi con una quantità davvero notevole di temi e problemi affrontati: il femminismo e la crisi del ruolo maschile, la psicanalisi come strumento di liberazione e nel contempo come strumento storico del dominio maschilista, il rapporto corpo mente ecc. Tutti temi e spunti di riflessione teorica oggi sottoposti a una particolare pressione critica e di revisione, ma che comunque agitano e polarizzano dicotomicamente Anna, sovrapponendosi e interagendo con una personalità già per altri versi segnata, qui profilando e contestualizzando coerentemente del personaggio gli anni di crescita e di formazione.

Sparendo nella notte, Anna lascia in dono alla donna il resto dei fogli raccolti in una cartellina e una serie di ritagli di giornale. Tra queste carte segue l’incontro casuale di Anna con uno psichiatra, con il quale instaura subito un rapporto singolare soprattutto per una donna che, come ha ben sintetizzato Filippo La Porta, ha deciso «di vivere in un mondo svuotato del maschile». Un transfert dai connotati sentiti dalla paziente come decisamente simbiotici e emotivamente coinvolgenti, pur rimanendo nei canonici binari previsti da ogni buon manuale del paziente. Insomma, «una relazione che non esito a definire d’amore, anche se forse qui l’amore è da intendersi come una specie di protesta, o di resistenza vitale delle parti sane contro una sofferenza profonda, un dolore terribile subìto –impotente e senza mezzi di difesa– nella prima infanzia», che si può tradurre per Anna negli abusi sessuali subiti da un amico dei nonni, ma anche nel rapporto difficile e poi quasi interrotto da una madre che praticamente ha finito per emarginarla. Lentamente, aiutata dalla psicoterapia, ma pure coinvolta dalla sua personalità e dalla sua «presenza fisica», il trauma affiora dirompente dopo un lungo silenzio e viene finalmente detto e oggettivato, anche se esso difficilmente potrà essere compensato da un pieno superamento delle ferite ricevute per così lungo tempo. Siamo a un passaggio importante: aleggia qui il tema canettiano delle parole sensibili al dolore e tornano alla memoria i rilievi, ovviamente originati da un diverso contesto clinico, di Eugenio Borgna, recentemente così riassunti da Raffaele Crovi: «il silenzio non è mai una terapia della malattia mentale; sono le parole o le immagini i media del ritrovamento dell’identità soggettiva». Ma parole mai neutre, anzi impregnatesi nel lungo silenzio di un dolore grandissimo, di cui più non perderanno la cifra e il peso, che dopo la «guarigione» al massimo potranno essere trasmutate in nubi malinconiche di rimpianto o di rammarico.

Dai ritagli di giornale si evince poi che Maria P., un’irriducibile personalità borderline sempre in compagnia di un cane malandato e di una sporta piena di libri, incontrata da Anna nella sala d’attesa dello psichiatra, ha accoltellato quest’ultimo.

Sia i fogli che i ritagli interrompono bruscamente qui la loro narrazione. La donna decide, spinta da un coinvolgimento di cui non riesce a liberarsi, di costruire un finale comune per i protagonisti (incluso, non a caso, lo psichiatra). Un finale dove per tutti varrà l’accettazione del dolore e la convivenza con esso, l’accettazione di questa sua ineliminabilità dai percorsi della vita di ognuno di fronte alla quale anche l’analisi deve dichiarare i propri limiti. Per cui vale l’osservazione molto ben centrata di La Porta (espressa in una pagina web di www.avvenimentionline.it) secondo la quale, nel romanzo, si «potrebbe quasi configurare un primato della scrittura sulla psicanalisi: lo scrittore infatti, al contrario dell’analista, non si pone un obiettivo, non intende “guarire”, ma solo vuole aderire all’esistenza senza pretendere di curarla». Ma questo primato, aggiungeremmo, finisce per investire positivamente anche quell’atteggiamento inizialmente richiamato, simile al tradurre, al filtrare in modo del tutto particolare il dolore delle vite altrui, riuscendo alla fine in qualche modo a compierlo e, nel contempo, a superarlo. E ciò attraverso la scelta di un passo più decisamente creativo che afferra le vite e le cronache lasciate monche per deciderne un finale tra i molti possibili, quasi che il vero travaglio del romanzo iniziasse da qui, provandosi la scrittura a costruirne –e a costruirsi, dopo una lunga stagione di crisi non ancora invero risoltasi– una possibile via d’uscita positiva.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:16 PM