Posts Tagged ‘Antonio Celano’
Modigliani e Jeanne, un libro da leggere: Non dipingerai i miei occhi di Grazia Pulvirenti
L’articolo è stato pubblicato su «La Nazione – Livorno» il 9 marzo 2021.
Come un’onda che si tuffa sullo scoglio: la storia vera di Roberto Tancredi, portiere della Juventus
L’articolo è stato pubblicato su «QN – La Nazione Livorno» il 6 aprile 2021.
La caverna di Morandi e le bottiglie ombre – Andrea Caterini, L’oblio della figura. Nella stanza di Giorgio Morandi
L’articolo è stato pubblicato su «Avvenire – Agorà» il 4 dicembre 2020
Il tempo e il cambiamento. Lettera a Paolo Restuccia su Io sono Kurt (Fazi, 2016)
Caro Paolo,
“È proprio una cosa da ridere: abbiamo vent’anni solo per ricordarli quando ne avremo quaranta”, scrivi, con grande acutezza, aprendo il tuo romanzo Io sono Kurt. Eppure, la nostalgia non è la prima nota olfattiva, o la sola, che mi giunge dalle tue righe. Semmai una suggestione, una memoria generata dal sorriso di Anna, un ritornare indietro nel tempo e ritrovare le innocenti domande di Alice allo Stregatto uscito dalla penna di Carroll: che direzione prendere, che strada scegliere per arrivare da qualche parte, purché si cammini abbastanza a lungo? Domande candide, dicevo, ma forse anche illogiche se le aperture, tutti i luoghi del tuo noir sono, in fondo, corridoi: luoghi stretti e lunghi, claustrofobici nel loro obbligare al fondo, in basso e nel buio, in una corsa a fari spenti, dove persino un diavolo non domina, ma espia.
Perché l’Inferno è una buia fossa d’Oceano graffiata solo da rare luci elettrofore, lampàre feroci e mortali. Che però il tuo Kurt sa scartare, deviando ogni volta dal tracciato obbligato, seguendo i ricordi, scoprendosi impermeabile al Money it’s a gas dei nostri tempi, deviando dalla strada, mettendosi a inseguire un demone ma, in definitiva, solo se stesso, alla ricerca del suo passato emotivo.
Non è un caso che ci sia così tanta musica nel tuo romanzo: l’ho ascoltata tutta, leggendolo. L’ho trovata sempre necessaria al racconto, stringente, direi, come la matematica che tu giustamente evochi; o l’amore, la morte. Ma alla musica, come colonna sonora che riassuma una vita al bivio, resta sempre una marcia in più della logica, perché ha dalla sua quella dimensione così radicalmente umana che è capace di uno sfaglio che è redenzione, salvezza. Redenzione implica un’idea di liberazione da ogni stato di cronica impurità, di inettitudine, di afflizione: è possibilità di una rinascita una volta pagato il prezzo altissimo in rinunce che comporta. È per questo che è per pochi, anzi solo per Kurt.
E così mi faccio solo un’ultima domanda che possa essere rivelatoria del tuo romanzo: che forma abbia, quale struttura. Per fortuna, soccorrono i tuoi personaggi: Anna e Nadia oppure quest’ultima e Svitlana, Boban e Mauro… Coppie. Gemelli. Endiadi, forse. E poi Andrea Brighi/Kurt e Stefano Zanchi/Il Diavolo Biondo: doppi, questi ultimi, sempre con un sé più o meno scollato dalle intenzioni che i nomi di battaglia vorrebbero realizzare e imporre. Due protagonisti che trovo molto moderni. Tutti, comunque, personaggi a ribaltamento, oscuri in parte a se stessi, tutti costretti a guardarsi in uno specchio deformato dai feed-back, dirimpettai di se stessi in colonne separate di uno stesso condominio, da dove guardano trascorrere parallele le loro diverse stagioni. E tutto questo è possibile solo perché il personaggio principale del tuo romanzo – Paolo – è il Tempo. Un tempo curvo come i bracci contrapposti, vibranti e musicali di un diapason da dove anche Andrea Brighi guarda Kurt e viceversa, entrambi irrisolti, su e giù a rincorrersi nell’ascensore degli anni senza che la magica forcella riesca a produrre un definitivo “La” di accordo tra i due.
E così – a differenza degli altri naufragati personaggi – Kurt/Andrea, sconfitto o perdente che sia, cerca in tutti i modi di affrontarsi, di rincorrersi e cogliersi tra maturità e adolescenza. E questa ricerca scivolerà fino al suo punto focale, alla congiunzione dei bracci, dove, ognuno per suo conto e fuori ogni tempo massimo di recupero, Kurt e Andrea scopriranno, anticipati da un crudele espediente metonimico, l’odore nauseabondo della vita estirpata, dell’amore che, anni prima, s’era fatto necrosi e morte: quel lembo di cotone, luminoso e bianco, aborto avvenuto di ogni cambiamento: tra tutte le strade possibili quella che avrebbe potuto essere e non è stata.
Rossella Montemurro, Calci e pugni sul tetto del mondo. Biagio Tralli, identikit di un campione
Ci sono libri che si prendono per quello che appaiono a prima vista, finendo per non coglierne l’importanza più complessiva. Calci e pugni sul tetto del mondo. Biagio Tralli, identikit di un campione, di Rossella Montemurro (Altrimedia, 2019, pp. 112) è tra questi. Perché la lotta del campione, qui, anche se c’è, non è la prevedibile narrazione della quotidianità del sudore, del sacco, dei colpi, dei ganci né pretende, al contrario, di divenire nulla di letterario, di “alto” o sublimato rispetto alle vittorie o alle sconfitte sul ring. Resta essenzialmente una cronaca – molto ben raccontata in un libro ricco di retroscena e curiosità di ogni tipo – di come si possa arrivare, da una piccola città di provincia, a vincere, nel febbraio 2008, un campionato mondiale WAKO di full contact (nota specialità del kickboxing).
E tuttavia, ciò che si coglie in ogni riga dell’identikit di Biagio Tralli, è quanto la battaglia per la propria affermazione abbia richiesto un atteggiamento caparbio (ma con molto giudizio) ben prima di affacciarsi sulla porta di qualsiasi palestra o sul ciglio di un tatami. Perché il primo avversario, quando si nasce in regioni come la Basilicata, è il dato di mentalità della comunità dove si nasce e si vive.
Non si tratta di fare del comodo «cardellismo» o, in altre parole, della facile retorica su presunte, estreme opposizioni di un Sud retrogrado e violento ai desideri e ai progetti di affermazione di un ragazzo, magari anche un po’ suggestionato dai celebri anime basati sulle avventure di Naoto Date, L’Uomo Tigre, trasmesse in Italia, in Tv, a partire dai primi anni Ottanta. Si tratta, invece, di qualcosa di molto più sottile, per nulla violento e molto più efficace: l’osservazione che, avviarsi a un’attività qualsiasi che non appaia immediatamente «concreta» o «lucrativa», esposta all’incertezza del fallimento, trasforma ogni pur legittimo dubbio nel tarlo ossessivo dell’autocastrazione e di quella altrui. Scrive, non a caso, Rossella Montemurro, che Biagio Tralli: «ha saputo resistere alle critiche di quanti hanno provato a fargli cambiare idea, hanno tentato di incanalarlo verso un futuro tranquillo: un posto fisso, una famiglia…». Ed è qualcosa che non si sconfigge mai. Anche quando gli stessi familiari hanno iniziato a seguirlo nella carriera agonistica e anche dopo, quando il maestro Tralli apre a Matera, tra mille difficoltà, la sua prima palestra, ricorda il diuturno tentativo di infilare lo straccio nell’ingranaggio: «Mi remavano un po’ tutti contro perché si associava la kickboxing alla violenza e ai nasi rotti. Anche i miei genitori non volevano che l’aprissi. Avevo un posto buono, quello del tappezziere – facevo il doppio dei minuti della produzione perché mi servivano i soldi – addirittura mio padre mi diceva di non lasciare, “Quello è come un posto fisso”, il famoso e ambitissimo posto fisso del Meridione. Adesso è subentrata solo la cassa integrazione anche in quel settore: l’indotto dei salottifici, che portava benessere alla città. È entrato in crisi». Uno straccio che, anche una volta deposto dalla famiglia (che, alla fine, contraddittoriamente, pur non benestante, si svena per sostenerlo), è pronto a raccogliere la banca, che blocca il prestito: «avevo un nome ma ero punto e a capo come se fossi un ragazzino. Essere lì con la garanzia del papà a trent’anni non è il massimo».
Ma chi è, allora, prima del ring e sul quadrato, Biagio Tralli? Classe 1976 (Ariete: i segni zodiacali, nella lotta, svelano sempre qualcosa!), nel 1988 si iscrive in una piccola palestra di quartiere a Matera. L’anno dopo la folgorazione: l’incontro con Donato Milano, per sedici anni allenatore della nazionale italiana, giunto a Matera per uno stage. È l’incontro che pone fine ai sogni e alle illusioni dell’adolescente Biagio per trasformarli in aspirazioni e progetti per il futuro. Pur di farsi allenare da Milano, Biagio, a giorni alterni, fa ottanta chilometri in vespa per andare ad allenarsi a Gioia del Colle, nella palestra del suo mentore. Lo fa di nascosto – come sottraendosi agli occhi onniveggenti della comunità-Sauron – perché nessuno lo accompagnerebbe là, tredicenne. Biagio sale per la prima volta sul ring diciassettenne, ne scende solo nel 2009 dopo aver disarcionato il campione del mondo in carica, il franco-algerino Alì Kanfouah. In mezzo, mille lavori per sostenersi: aiutante fotografo, tagliatore di legna, raccoglitore di mandorle, pizzaiolo, tappezziere… niente alcol, niente sigarette, niente fumo o altri stordimenti che fiaccano la volontà di molti suoi amici, lasciandoli, a occhi chiusi, nel mondo dorato dei sogni.
Sacrifici, si dirà. Ed è detto anche nel libro di Rossella Montemurro. Però, le parole, a Sud, vanno cambiate. Non dico cancellate, ma consegnate a una nuova gerarchia. E allora facciamolo, perché Biagio Tralli non ha mai sognato mentre, invece, ha appassionatamente aspirato, e poi ossessivamente, coscientemente progettato la sua vita, come richiede uno sport come questi che è sì arte del corpo, ma pure eminente disciplina del cervello (quella che Tralli chiama la «centralina»).
Ribaltiamolo, allora, questo termine: «sacrificio». Cos’è il sacrificio? È un’offerta rituale, in questo caso di propiziazione, certo. Ma, nelle parlate meridionali, il termine ha preso la piega del dolore, della sottrazione subita, della rinuncia, del peso. Per cui, anche se il risultato, alla fine, è positivo, sempre rimarrà come appesantito da una patina scura. Una vittoria che è e sarà sempre di Pirro.
Ora, è ovvio che nulla di quello che ha realizzato Tralli sia stato scevro da duri «sacrifici», ma vogliamo sottomettere, finalmente, questo sostantivo a un altro che pure gli è legato? Scrive la Treccani: «Scelta: Libero atto di volontà per cui, tra due o più offerte, proposte, possibilità o disponibilità, si manifesta o dichiara di preferirne una […] ritenendola migliore, più adatta o conveniente delle altre, in base a criteri oggettivi oppure personali di giudizio, talora anche dietro la spinta di impulsi momentanei, che comunque implicano sempre una decisione». Ecco, a me piace immaginare che Biagio abbia fatto la sua scelta. Una scelta sempre più tersa, pura, limpida. Perché il successo, prima di scalare ogni cima, è un luogo di solitudine dove la tua volontà ti ha portato: un campo dove – se ti giri indietro a guardare – nessuno è riuscito a seguirti. E, se proprio là non cedi, spaventato da te stesso, è allora che sei pronto per scalare.
Oggi, dopo le sue battaglie, Biagio Tralli insegna la sua tecnica e la sua esperienza, forma i campioni a venire. Ma fa della sua palestra anche un luogo di esercizio di regole semplici e chiare, valide anche nella quotidianità. L’aretè è un termine che, in origine, a Sparta, designava la capacità richiesta a una persona (uomo o donna, alla pari) di assolvere bene il proprio compito in un certo ambito o luogo. E dichiara Tralli che, «personalmente, a me non è pesato, da adolescente, fare queste rinunce. Non mi è pesato perché la kickboxing mi piaceva. C’era chi fumava spinelli, chi si ubriacava, chi fumava le sigarette… Oggi me li ritrovo in palestra e mi chiamano Maestro. In tanti, anche, mi ripetevano “Tu sei pazzo”. Oggi mi chiedono scusa dicendo che ho fatto bene a pensare con la mia testa. E che hanno sbagliato». Insomma, Biagio Tralli ci dimostra che non si è ancora campioni nemmeno quando siamo giunti sulla cresta del monte, ma pienamente solo quando se ne discenda a dare senso e sostanza a un campo sia pur già fertile, ma che restava improduttivo.
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Alcuni momenti della presentazione del libro. Da sinistra Gianni Laterza, Donato Milano, Biagio Tralli, Gabriella Lanzillotta, Rossella Montemurro, Vito Santarsiero, Giuseppe Tragni
L’amore bianco di Francesca Piovesan. Parlando di A pelle scoperta, di Francesca Piovesan
Questa recensione è stata pubblicata su «Letteratitudinenews» il 21 dicembre 2019.
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Benché Francesca Piovesan sia veneta, c’è qualcosa di eracliteo nella sua raccolta di racconti A pelle scoperta (Arkadia, collana Sidekar, 2019, 128 pp.), qualcosa in continua trasmutazione: che è quello, ma che è anche non quello; un dinamismo della realtà che è stallo.
4. Wut!
Non credo che la natura di questa parte della Norvegia possa dirsi “sulfurea”, “torturata” o “violenta”, come invece quella islandese. Ma, certo, in molti tratti capace anch’essa di mostrarsi “aspra”, o “tormentata”. Sanno dirlo le frane, per esempio: quegli ammassi di pietre dove poco riesce a risollevarsi la vegetazione, o le incombenti pareti dei fiordi dove si generano: mai lisce, mai placide, scolpite alla brutta – solcate da lunghe, filiformi cascate estive – laddove tutto appare fisso eppure in forse fino a farmi temere che, tra i lunghi denti dei graniti, si annidi il fragile armistizio di un’apocalisse.
E questa opera di mare e di gelo dissolto sa a un tratto sorprendermi se, entrando nel Geirangerfjord, alla mia dritta mi osserva un volto guerriero. Che subito cerco di spiegarmi con due piloni staccatisi sotto un toro di roccia, poi con la Gestalt e con le manie antropomorfe a cui ogni uomo, alla fine, s’inchioda come al becco di sangue di un gabbiano. Eppure, la nave, avanzando, non riesce a glissare consegnando un’altra parvenza a quel volto, assolvendolo dal dover significar qualcosa. Il volto resiste, fermo: il suo sguardo nel mio. E mi sento, a un tratto, come di fronte a un Argonath scolpito solo dal caso naturale. Certo senza braccia che possano ammonire un’entrata improvvida, senza ascia, senza corona; eppure corrucciato, austero, gigantesco e grigio, come apparve agli occhi di Aragorn. Mi rallegro, quasi, che la sua spinta si sia spenta nella roccia, forse anche placata dai lisci capelli delle Sette Sorelle d’acqua che scorrono a mare. Ma per quanto?
In seguito, altri volti guerrieri, ma più sfuggenti e accorti, si sono defilati intorno all’Hyvlatonnå (Preikestolen) di Lysefjord.
Come per la Stavkirke di Fantoft, in Norvegia c’è qualcosa nelle cose: una storia geologica o umana, non importa, che vuole uscir fuori, che vuole liberarsi. Un tormento primordiale, irriducibile a tutte le strutture costruite sopra dal tempo. Qualcosa di irrazionale – le fiamme dei draghi – ma anche di improvviso. Selvaggio, ecco. Feroce.
Ne ho la prova giorni più tardi, in un luogo più a Sud, dove, per giunta, non dovrei più aspettarmi niente. Eppure.
Sono sulla Gotaplatsen di Göteborg, ormai in Svezia. Osservo il dio Nettuno di Carl Milles, fontana figlia dello stile “Accademico moderno”, ricca di soggetti mitologici classici quanto più lontani da qualsiasi Pantheon scandinavo. A differenza di altre opere di Milles, solitamente slanciate su colonne, Poseidone sorge in un gioco vitalistico di acque, circondato da piccole sirene festose e pesci guizzanti, tipiche dello stile di questo scultore.
Intento a far foto, arrivo di lato ai piedi della fontana e il mio sorriso si infrange sulla testa di una creatura marina, una tartaruga – non so – ma feroce di denti, gli occhi strabuzzati, che sfonda la base della scultura addentando un pesce nell’ultimo guizzo possibile di morte o di salvezza.
“Wut”, lo chiamavano gli antichi popoli germani e chissà se anche i primitivi abitanti di queste terre, i Geati, i Goti discesi dalle antiche tribù dei Götar. Wut: la furia, il gesto istintivo, rabbioso, collerico di vendetta o di guerra. Insomma, il “ferocem” latino, la “fera”, la belva, il “ferus” più selvaggio e, forse, anche il “ferre”, cioè l’abbandonarsi, il precipitare, sebbene in una delle sue accezioni più pure e inquietanti. Qualcosa di irriducibile, un’onda sfiguratamente spenceriana, che dagli uomini ho visto risalire – è stato un attimo! – verso ere ormai fossili…
Antonio Celano (agosto 2019)
3. Se (nel fiordo) la sera è la campagna
2. La natura del Vestlandet
Mitezza e asprezza mi hanno fatto visita costantemente navigando le coste del Vestlandet norvegese. Non parlo di uno stato interiore o dei caratteri delle genti di quelle contee; parlo di una “condizione” geografica di quelle insenature, di quelle rocce del Geirangerfjord o degli isolotti fino a Stavanger. Pietre tagliate dolcemente come pani ancora caldi, inaspettate rotondità “lacustri” che si susseguono in un’aria dolce (nonostante sia fredda), penombrale. È una natura placata, che si mostra temperata come, oggi, ormai, certe mura medievali ancora in piedi. Non più l’urlo granitico dello Scudo Baltico, non più lo stridore delle zanne di chilometri di ghiaccio verticale, lo sfregare di sassi su sassi, di pietra su pietra…
Scopro, allora, qualcosa di spossato in questa roccia, qualcosa di antico e di arreso; qualcosa che regala un’inattesa nostalgia del presente, tutta dentro il paesaggio: forse un ricordo, un rumore di fondo che non si fa ascoltare, ma che pure sento mentre la risacca della notte lentamente viene e poi scivola via…
Antonio Celano (agosto 2019)
1. A Bergen c’è una chiesa di legno
La chiesa luterana di Bergen (una delle “Stavkirke” diffuse un po’ in tutta la Norvegia) la trovo in un parco ai margini della città, protetta da un boschetto di faggi. La sua singolare struttura architettonica mi rivela quanta fatica abbia dovuto fare il processo di cristianizzazione in una terra così poco abitata, estrema e fredda per un proselitismo dai risultati davvero stabili. E, tuttavia, pure denuncia quanta resistenza abbia opposto il paganesimo norreno. Con il risultato di qualcosa di molto diverso da quello nostrano, alla fine sconfitto e sussunto residualmente in alcune pratiche religiose cattoliche. In Norvegia, credo, invece, abbia soccorso qualcosa di più, come una forza mai domata, dura come i ghiacci, ma vitale e, in certi casi prepotente: le fiamme e le scaglie dure del drago sui tetti e negli intarsi interni, le chiglie rovesciate delle navi vikinghe, i profumi sacri del faggio che si sentono aggirandosi per gli spazi angusti della costruzione.
Così ho pensato al cospetto di questa piccola, semplificata ed essenziale sede di culto recentemente ricostruita dopo un incendio a sfondo satanista/Black-Metal (probabilmente un altro intruso bicipite covatosi tra le ombre del puritanesimo e le pieghe della nostra modernità).
Antonio Celano (agosto 2019)
Un romanzo psicologico (e perché leggerlo). Parlando di A Bordeaux c’è una grande piazza aperta di Hanne Ørstavik
Questa recensione è stata pubblicata su «Letteratitudinenews» il 3 dicembre 2018.
Perché parlare di Hanne Ørstavik e del suo romanzo psicologico A Bordeaux c’è una grande piazza aperta (Ponte alle Grazie, 2018, 228 pp.)? In fondo – pur conosciutissima all’estero, tanto da esser stata tradotta in ventisei lingue e aver recentemente partecipato alla finale dei National Book Awards nella Shortlist della sezione «Translated Literature» – è una scrittrice norvegese tradotta per la prima volta in Italia, per giunta senza nemmeno essere una giallista.
Perché, allora?
“Il gattopardo oltre la storia”, incontro in occasione del 60° del Catalogo Feltrinelli (1955/2015), venerdì, 28 ottobre 2016 – La Feltrinelli Livorno
«Nulla più di un catalogo storico può rendere l’idea della luminosa fatica attorno a un’avventura editoriale che dal 1955 ha coinvolto migliaia di persone per migliaia di libri, per milioni di donne e di uomini» (dall’introduzione al Catalogo storico Feltrinelli).
In occasione del 60° del Catalogo storico Feltrinelli si è pensato di proporre una rinnovata lettura di uno dei titoli più interessanti proposti dalla casa editrice milanese, che è stato un vero e proprio caso editoriale e oggi è un classico della storia letteraria italiana: Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Ne ha parlato con me, Giuseppe Lo Castro, professore di Letteratura italiana presso l’Università della Calabria – Arcavacata. Ha letto dei brani Flavia Guidi.