Antonio Celano

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Recensione a: Andrea Carraro, Il sorcio (Gaffi, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 239 (maggio 2008), p. 49-50.

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Non aveva tutti i torti Massimo Onofri («Diario», 5.7.2007) quando, interrogandosi sul successo di critica ottenuto dal romano Andrea Carraro, ne lamentava anche il troppo ridotto consenso di pubblico rispetto al reale valore dello scrittore. E una ragione c’è, perché Carraro –lo stile di Carraro– può ben far proprie le parole che, nel Vangelo, Matteo (10, 34) mette in bocca a un Gesù particolarmente duro con i propri discepoli: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» giunta, in questo caso, a dividere i lettori. La scrittura di Carraro è disturbante, mai rassicurante o consolatoria, capace com’è di rivelare il piccolo borghese che è in noi e di porcelo davanti come un gemello mai perfettamente somigliante, eterozigote, ma di cui in ogni istante si riconosce l’inquietante e irritante comune matrice. Una matrice non tanto genetica, ma esistenziale, come la sua tecnica: asciutta e cronachistica nello stile quanto solo apparentemente realistica nella sostanza, continuamente sottoposta ai corrugamenti degli stati psichici del protagonista. Il che pone il lavoro di Carraro nella linea della migliore letteratura italiana, quantomeno quella generatasi dalla crisi dell’uomo borghese otto-novecentesco, ma dagli esiti più estremi e moderni. Soprattutto se si pensa che il romanzo non costituisce un «a sé» dal resto dell’opera di Carraro. Come in una brevissima e personale Recherche, richiamandosi al precedente Non c’è più tempo, l’Autore ci consegna qualcosa che, più che le vicende di un singolo protagonista, rappresentano un vero e proprio tentativo di ricognizione sulla condizione umana.

Il libro è la vicenda di Nicolò Consorti, un impiegato che si dedica con un certo successo anche alla scrittura, relegato dalla sua banca in un distaccamento periferico. In questa sorta di claustrofobico scantinato si ritrova a essere vessato da un collega –soprannominato, appunto, il Sorcio– che lo maltratta con gretta violenza. Ma non è tutto qui, perché la narrazione man mano si allarga fino a rivelarci, della vita del travet capitolino, i dolorosi rapporti con il padre e la madre, con la moglie e il figlio, fino a scavare nella sua giovinezza, vissuta con un gruppo di amici. Il tutto raccontato entrando e uscendo dallo studio di un analista, così come dalla terza e dalla prima persona, dal passato e dal presente, dalla realtà e dalla fantasia, e in un continuo ribaltamento di atteggiamenti sadici o masochistici.

Sì, perché la violenza (non solo quella fisica), nella scrittura di Carraro, mai è dialettica, mai anela a futuri riequilibri sintetici, ma sempre ci si presenta in una sorta di forma organicistica per cui l’aggressore nasconde sempre in sé anche i tratti della vittima, e viceversa. Di più. Sotto questo paesaggio vincolante e dicotomico, si aprono nel protagonista spazi sotterranei dove lentamente stilla e scorre una pece composta di frustrazioni e di offese subite, fatta di uno scarto sempre troppo vivo tra aspirazioni e condizioni reali di vita, magmi che ben presto raggiungono una massa critica e iniziano a premere sulle pareti in cerca di cedevoli sbocchi eruttivi.

Il Sorcio rappresenta tutto quanto Nicolò in apparenza non è: la tracotanza, la rozzezza, l’assenza di ogni complessità e aspirazione creativa. Ma accade che il protagonista, inetto a pararne i colpi, non riuscendo a inscenare mai, nella realtà, la propria forza, la propria capacità di reagire alle vessazioni, paga dei picchiatori per dare una lezione al suo collega che verrà, alla fine, anche trasferito, pur non lasciando nessuna traccia di trionfo in Consorti, ma anzi «l’attesa ansiosa della disfatta che segue tutti i momenti di vittoria».

Intorno a questo episodio (che rinuncia a un facile topos dell’immaginario collettivo che vorrebbe l’uomo di lettere figura alta e distaccata) si dipana una vera a propria ricerca sul passato e sul presente dell’impiegato e sul suo mondo, un’indagine da cui, alla fine, anche tutti gli altri protagonisti paleseranno alla fine, chi più chi meno, quasi fossero usciti dalle pagine di un saggio di scuola lombrosiana, un volto per metà bello e ridente, per metà ferito o deturpato. È il caso del gruppo di amici che Nicolò frequenta durante la sua adolescenza. Un drappello di goliardici pariolini a cui il protagonista si unisce, non a caso, per precedenti delusioni amicali e che frequenta, pur percependo un senso di inadeguatezza sociale e di estraneità ideologica, ma proprio per questo prendendo con più forza parte attiva alle loro feroci scorribande. C’è anche, riprendendo le mosse da Non c’è più tempo, l’eterno conflitto con l’invadente figura del padre, che qui, però, pare un po’ allentarsi. A stemperarla interviene infatti il ricordo del nonno Omero che, a sua volta, ha umiliato e ridicolizzato il figlio di fronte alla famiglia. Peraltro Nicolò pare ora intimorito dalla nascita del figlio Filippo, convinto che possa far scivolare in secondo piano l’attenzione della moglie e della famiglia per le sue «esigenze»: la cura della depressione, a causa della quale si reca settimanalmente dall’analista, e la scrittura, vissuta ora con più acuto senso di colpa. Una scrittura che si caratterizza come il luogo di deiezione del protagonista, la discarica delle contumelie, delle «verità» senza sfumature di Nicolò Consorti che, per questo, come un Mida rovesciato, distrugge uno dopo l’altro tutti i suoi legami più profondi, addirittura riuscendo a guastare il carattere di chi lo legge.

Nel romanzo anche gli ambienti sembrano aderire all’interiorità monca degli uomini. L’ufficio della maga, lo studio dello psicanalista, la discoteca, i quartieri cittadini e i paesaggi, sono tutti più o meno dei posti spogli, tristi, desertici. Soprattutto la banca, lo scantinato dove si trascinano le esistenze di Nicolò e dei suoi colleghi, è un luogo freddamente funzionale, umanisticamente morto. Massimo Maugeri («Il Mattino», 2.10.2007) a tal proposito ha ritenuto utile consigliare che: «per difendersi dal [deserto metropolitano] si potrebbe far riferimento alle note opzioni di Calvino in Le città invisibili: “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”, oppure, “cercare e saper riconoscere che e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”». Ma purtroppo, la disgrazia dell’eroe di Carraro sta proprio in questa impossibilità di uscire dalle due opposte opzioni, condannato com’è a rimanervi in mezzo, eternamente sospeso in una situazione di scollamento narcisistico, antiedenica, pur all’inferno mai abituandosi.

Dunque nessun terribile epilogo, ma anche nessuna ottimistica speranza. È un mondo dove Gesù non nasce o, meglio, dove la sua nascita è dimenticata. Tutt’al più può soccorrere il desiderio. Il desiderio di una catarsi dal senso quasi ultramondano, di una ritrovata purezza, di un po’ di vita appena discosta dai miasmi dell’esistenza e dalla morte.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 3:26 PM