Antonio Celano

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Recensione a: Cristiano Ferrarese, 1976 (Hacca, 2008)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 246 (aprile-maggio 2009), p. 47.

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«… è necessario essere altri rispetto al mondo del quotidiano…». È in questa programmaticità che si coglie la cifra di 1976, secondo volume della «Trilogia dei matti», esordio narrativo di Cristiano Ferrarese. Non perché i pazzi –come scrive molto opportunamente al riguardo Andrea Di Consoli–, secondo un abusato luogo comune dell’antipsichiatria, siano rivoluzionari, quanto perché i loro sguardi, deformanti e incrostati di sofferenza, sono al contempo un luogo e un punto di vista irriducibili. Insomma la follia, i manicomi e ogni altro luogo di contenzione come momenti particolarmente adatti a metaforizzare una realtà come quella che precedette il ’77 in Italia. Un luogo spoglio e privo di colore che Ferrarese rende in una sola pennellata dai toni eliotiani: «una terra desolata e desolante dove si ride e si piange e non si riesce più a distinguere il buio dalla luce…», lasciando irrompere un sistema binario dove si trasmutano non solo lo spazio e il tempo –per cui non si sa bene se V., l’eroina della narrazione, ci parli di quegli anni o dei nostri–, ma pure i ruoli e i confini della realtà e dell’allucinazione. Dunque i deliri e le visioni di sangue della voce narrante, ma anche l’Austerity del «moriremo democristiani», il Sudamerica crudo di Videla, l’arresto di Curcio e il «suicidio» della Meinhof, la bomba a Brescia e lo scandalo Lockheed, una natura stuprata dalla diossina e a sua volta terribile vendicatrice di se stessa in Friuli. Come a dire: il delirio è la realtà, la realtà è il delirio; il potere della follia e la follia del potere.
Nel frattempo, 1976 realizza pure un salto di maturazione rispetto al suo antefatto 1967, dalle atmosfere più cupamente incubiche e mistiche, violente e gotiche. Non che in 1976 manchino anche di questi risvolti, soprattutto le tinte mistiche, ma qui risultano più sublimate e meglio articolate, meno pesanti. E l’immediata mimesi della violenza schizoide si vira ora in una rabbia di passione civile e politica «in nome di tutti i refrattari ad ogni potere bieco e opportunista», di cui V. si imbeve, facendosene piena interprete.
Ma, allora, chi è V.? è una ragazza doppiamente reclusa, costretta sulla sedia a rotelle e rinchiusa in un carcere (ma potrebbe essere un manicomio, oppure un convento nato dalla penna settecentesca di un libertino francese o ancora solo un parto della sua mente). A volte, con l’aiuto di un vecchio (il padre, il potere, un poliziotto, una nemesi, nessuno?) si ritrova a farsi spingere invece in un hangar enorme e vuoto, pure questo un luogo desolato dove di solito ciò che può volare è posto forzatamente a riposo. Qui, pervasa dalla visione del fratello (C., lo schizofrenico protagonista di 1967), ossessionata da violenti deliri di morte e di sesso con il padre e con una poliziotta legata al fratello (e di qui tutta una serie di connettivi déjà-vu con il volume precedente di Ferrarese), V. graffita col sangue immagini liberanti, dall’ispirazione cineticamente convulsiva alla Bacon.
Chi è dunque V.? una matta certo, dalla vita povera e inferma, ma anche una profetessa, una Cassandra. Meglio. Una versione femminile di Laocoonte, perfettamente lucida nella denuncia di un potere di volta in volta monolitico o proteiforme, repressivo o narcotico, e perciò continuamente dilaniata dai denti e ingoiata dalle teste del serpente dell’Isola di Tenedo. V. è una moderna Teresa D’Ávila, una mistica ai tempi della Controriforma, una corda continuamente tesa tra il fango e la levitazione, tra le esperienze soprannaturali e il diabolico. Un’invasata di Dio, un’estatica dedita all’isolamento e alle flagellazioni, rapita dalle fantasie autoerotiche col divino. Tuttavia una mistica pericolosa perché non contemplativa, ma missionaria, in grado di diffondere un verbo di profonda libertà. Una santa delirante capace però di guardare lucidamente in faccia il mondo e di individuarne le radici infette.
Rispetto a 1967 anche il modo di narrare in parte evolve, in alcuni punti frammentandosi maggiormente, rendendosi ancora più singhiozzante, per poi coagularsi improvvisamente in pezzi più estesi, spesso di denuncia e d’invettiva. Il che sembra molto ben adattarsi alla narrazione stessa, a renderne i ritmi e la sostanza. Molto si è detto, infine, sull’ascendenza céliniana dell’abbondante presenza di puntini sospensivi nella scrittura di Ferrarese, tuttavia qui forse solo un tic maniacale e ossessivo delle dita, un fastidioso ma necessario rumore di fondo creato dai chiodi o da una cucitrice ossessivamente impegnata a saldare alla meno peggio brandelli di realtà viva, ma tenuti assieme come un mostruoso Frankenstein.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 9:51 am