Antonio Celano

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Recensione a: Antonio Paolacci, Flemma (Perdisa, 2007)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 3 Gennaio 2010.

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Lenta scorre l’agonia di vivere

Antonio Paolacci è nato nel 1974 a Torre Orsaia. Trasferitosi a Bologna e laureatosi in discipline dello spettacolo, si è già occupato di cinema, ha scritto racconti, è stato allievo e poi assistente di Luigi Bernardi (uno dei più noti scopritori di giovani talenti letterari), è stato collaboratore di riviste quali Fernandel e di case editrici importanti come Perdisa, per la quale ha scritto il suo primo lavoro: “Flemma”.

Secondo alcuni giudizi, questo noir mancherebbe, in parte, della compattezza tipica del romanzo. Ma il giovane scrittore è, invece, uno strano ragno capace di tessere una sua tela lenta e ricca di intersezioni quasi del tutto periferiche. “Flemma” non è, infatti, un romanzo corale di personaggi, ma una corale giustapposizione di bildung e di storie interiori, ognuna con una matrice autoriale comune eppure con una sua voce distinta, ognuna con un timbro di irriducibile solitudine, coltivata con linguaggio preciso, ma non freddo. Una scrittura solo apparentemente descrittiva, invece pensosa, cogitabonda e densa, che in qualche caso si attarda in certi modi “americaneggianti” nonostante l’autore ne stigmatizzi poi ironicamente l’uso. In tutti i casi, Paolacci dimostra una capacità di scrittura che strappa continuamente la giacca troppo stretta del genere e ce lo fa riconoscere già pronto per altre prove di maturità.

Un po’ tutti i personaggi di “Flemma” sembrano sperimentare una penosa, pericolosa, inquietudine interiore, una condizione fragile e precaria. È il caso di Chiara Lenzi che, sotto il ruolo della sua uniforme di poliziotta, mal controlla un suo fondo di erotica torbidezza. Tradita da questa interferenza, porrà fine alla storia del libro spingendone i protagonisti fuori, oltre quella volontà di rimandare una “vita normale” in un’adolescenza infinita, quel modo di guardare il mondo attraverso finestre opache alla luce. È anche il caso del Macaco, un ragazzo che sembra uscito da uno schedario lombrosiano, agito da una muta rabbia che finisce per armarlo in un efferato episodio di family killing di provincia.

È il caso dell’autolesionista Chiara, del balordo Giacomo, ma soprattutto della voce principale, quel Davide che la maschera la porta poi davvero, facendo l’attore dal difficile futuro su ribalte improvvisate. Davide che dialoga con il suo pubblico e con se stesso. Davide che è un giullare, lo specchio dei meccanismi morali dei suoi coetanei. Un buffone senza re, circondato da una corte dei miracoli distratta dalle canne, dalla tv, bisognosa di essere amata senza voglia e capacità di fare altrettanto, incapace di distinguersi se non attraverso un anticonformismo del tutto conformista.

D’altra parte, per dirla con Julian Jaynes (a cui il libro di Paolacci deve per il concetto di coscienza), Davide non è che l’immagine ribaltata dell’omonimo e invasato personaggio biblico che affronta Golia. Non ci sono più imperative, allucinatorie, voci interiori che suggeriscono immediatamente il da farsi, da secoli gli dei non parlano più direttamente agli uomini. E non esistono più uomini senza tempo, senza una dimensione interiore, senza ricordi e frustrazioni. Al protagonista (a tutti i protagonisti di “Flemma”) non resta che una precaria, intermittente e ingannevole coscienza di sé a fronteggiare la propria sofferenza (una percezione deformata delle cose, una depressione patologica), il dolore di “esistere senza più certezze, né risposte“ in una società spossessante e omologante, un Golia per il quale tra il grigio presente esteso di Bologna e il cilentano “paradiso abitato dai diavoli” (tra l’altro continuamente appesi a una tv) passa ormai poca differenza apocalittica.

È a questo punto che Paolacci tende la sua eccentrica tela narrativa. Spinto dalle sue deluse ambizioni, ma anche da un ultimo tentativo velleitaristico di riscatto, Davide segue Giacomo, cui si aggiunge il Macaco (una volta giunti nel Cilento da Bologna), in un poco convinto quanto abborracciato tentativo di rapina nel suo paese d’origine. L’abortito tentativo di rubare in casa propria si ribalta, alla vista dei genitori ormai anziani che gli chiedono quanto abbia intenzione di fermarsi, nella lucida e definitiva presa di coscienza di una diversità dagli altri solo presunta, di uno scoramento e un’inquietudine che, se non permettono a Davide di fare come il Macaco – di uccidere cioè con i suoi familiari una normalità incombente di consolidate abitudini: l’ordine, il lavoro, sposarsi, diventare padri – deflagreranno in urlo d’odio, tornato a Bologna, con il colpo di pistola esploso malamente dall’agente Lenzi.

Nessuno pare salvarsi, insomma, se non Luca (il cugino di Davide), non a caso orfano dei genitori naturali e libero da pressanti scogli edipici. A differenza degli altri volti che animano il romanzo, l’ancora nebulosa coscienza della diversità di Luca rispetto all’idea che il mondo esterno può farsi di lui, è chiamata a individuarsi e precisarsi in tempi molto rapidi a causa di un tentato “stupro punitivo” cui Luca reagisce con difensiva violenza. In qualche modo affrontando i modelli di famiglia, scuola, amicalità e sessualità che il suo mondo cerca di imporgli (e non si tratta qui, come è stato scritto, di arretratezza dei piccoli centri meridionali), Luca sviluppa una più individuata coscienza di sé, prova a farsi autonomo e progettuale, a rassicurare le proprie paure introiettando in sé figure e modelli positivi di vita. Dal canto suo “Flemma” prova ad avvertirci, con Jaynes, che la coscienza di sé è un’invenzione dell’uomo ancora troppo recente e precaria perché possa guidarci onnipresente nel mondo e nelle scelte senza autoinganni.

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Written by antoniocelano

marzo 10, 2010 at 11:30 am