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Recensione a: Franco Arminio, Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle con il film Di mestiere faccio il paesologo (DeriveApprodi 2011)
Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» il 5 ottobre 2011.
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Avrebbe certo meritato maggiore attenzione e una rassegna stampa meno esile l’accoppiata libro e dvd firmata dai due campani Franco Arminio e Andrea D’Ambrosio. Ma è probabile che la pur ottima proposta della casa editrice DeriveApprodi resterà un po’ schiacciata tra la recente uscita di Oratorio bizantino (Ediesse) e l’imminente pubblicazione di Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia (Mondadori) che, pur nella loro diversità strutturale e d’ispirazione, segnano un 2011 straordinariamente creativo, quantomeno per il paesologo di Bisaccia. Soprattutto se si pensa che anche Cartoline dai morti (Nottetempo) è uscito in libreria nel novembre del 2010.
Ed è proprio a quest’ultimo agile volume firmato da Arminio che Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle (80 pp., 15,00 euro) pare somigliare per la struttura, presentandosi come una raccolta di «versetti» (uno dei quali dà il titolo al libro) raccolti, nella fattispecie, in rapidi capitoli tematici. E dunque ecco gli aforismi degli emigranti e quelli delle vecchie strade, i versetti dal paese della cicuta e quelli dall’edicola, quelli degli ipocondriaci, quelli della transumanza. Aforismi denotativi, scabri ed asciutti come brevi narrativi che, però, a differenza delle Cartoline subito appaiono impregnati dal tempo e dalle mutazioni storiche del mondo meridiano, forse anche con un accento di mestizia in più rispetto agli ardori pure insorgenti tra le pagine di Oratorio bizantino.
«Qui» registra Arminio con grande lucidità «siamo passati direttamente / dall’età della pietra / a quella della piastrella», senza che niente collegasse in mezzo, con il pagamento di un pedaggio parecchio salato per la modernità e per un benessere tutto materiale rispetto alla constatazione che oggi, in Irpinia (e altrove al Sud), «la felicità è poca / e noi siamo tanti». Sapendo di certo che, in qualche modo, la parcellizzazione individualistica della felicità ha già fatto aggio sulla stessa come risorsa collettiva e obiettivo comunitario. Si viaggia, allora, tra gli aforismi di Arminio come incontrando sulla pagina volti, case e vie che sono cocci di un tutto che non si sa più se avrà la forza di ricomporsi in virtù di un qualche nuovo collante.
Un dato esistenziale dalle profonde implicazioni storiche che Arminio riprende, nel dvd Di mestiere faccio il paesologo (girato con criterio e luminosa poesia dalla mano di Andrea D’Ambrosio), appena esauriti i preliminari dedicati al concetto di paesologia come impossibile restare o andare via dai propri luoghi, «una doppia incapacità che crea lo spazio per un racconto» sul mutamento dei paesi. Lo sguardo dal basso del paesologo, pur senza mai perdere in ironia e poeticità, affronta, così, un nodo ineludibile per chi voglia capire la condizione dell’osso appenninico: la fine della civiltà contadina. «La cultura contadina è diventata dolce perché sconfitta. Quando era l’unica cultura era […] una cultura opprimente, dominante. Ora che è stata sconfitta se ne sta ai margini, è una specie di residuo, sembra diventata una cosa bella. […] ora sono come i poeti i contadini, sono falliti». Un passaggio epocale cui si è sostituito nulla, se non una società diversamente angusta, e più sottilmente violenta, generata dall’impatto del consumismo che ne ha pervertito le comunità, almeno prima solide e autonome, in un molle aggregato di individui che si aggirano sparuti per le piazze di paesi imbellettati (ormai fuori tempo massimo), ridisposti attorno al centro e dunque ormai senza più centro. E snaturati, asettici, senza più nessuno: né uomini, né animali («Ci sono certe volte che parlo da solo per sentire se ho ancora la voce», dice ridendone un vecchio).
È in un bar che Arminio ironizza e metaforizza mirabilmente una società e un intero processo storico. Davanti al vetro di un bancone dove sono esposti cibi su due livelli, illustra: «Primo piano civiltà contadina: salumi, caciocavalli, cose vere, cose di sostanza, per stare in piedi. Secondo piano i giochetti della società post-industriale, le gomme, l’America». E poi, appena un salto più in là, un piccolo mercato paesano che è già meticciato sociale (che «parla nu dialette tutt’ammischiate» direbbero i Paranza Vibes, curatori del testo musicale che chiude il dvd).
I paesi, che prima respiravano con il ritmo della campagna, si riorientano ora verso le città di cui ridicolmente scimmiottano le mode («telefonino, scarpe tods, / occhiali dei marocchini, / maglieria di barletta, / la rivista focus sotto il braccio»). Si trasformano, per paradosso, in «paesi agricoli senza agricoltori», in discariche (anche reali) della sciagurata opulenza delle aree metropolitane (Napoli, Salerno, il capoluogo Avellino). La stessa politica locale è mutata nei suoi attori, oggi «avvocati, medici, piccola borghesia». Una politica fatta cioè dai figli che hanno rinnegato la civiltà contadina di provenienza, che amministrano procurando una pensione, qualche contentino, privi della capacità di scommettere in una politica che possa essere al tempo stesso visionaria e comunitaria.
Altrimenti non restano che contrade desolate, dove si registra la continua emorragia di gente e di senso e dove – tra il Comune, il cimitero, il bar – la vita sta, diventa «una cosa così», «non triste ma nemmeno bella», un limbo dove la morte non fa più paura (e perché dovrebbe?). Si gioca a carte, si beve birra.
Paradossalmente è stato il terremoto del 1980 ad aver sollecitato un momento importante di fervore legato all’emergenza, per aver fatto sentire più vivi i rimasti vivi, buttandoli fuori dai divani e dalle case, perché, dice Arminio, «la vita o è terribile o ti sfugge». Ed è per questo che lo sguardo di Arminio non si addormenta mai sul corpo vivo, di belva, dei paesi, «creature con cui combattere, ma che ti tengono al mondo». È noto, la critica lo ha evidenziato più volte, che per il paesologo irpino ci sia una continuità tra il proprio corpo (nella sua fisiologia e nella sua patologia) e quello dei paesi. E tuttavia, in questo continuum di carne viva, anche un forte legame tra contemplazione e lotta, tra passione e abbattimento, tra definitivo andare e eterno restare, si è detto. «Il mio è un dolore che combatte», ci dice Arminio.