Antonio Celano

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Recensione a: Ugo Riccarelli, Un mare di nulla (Mondadori, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 227 (gennaio-febbraio 2007), p. 43-45.

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Dopo la morte del padre, Ugo Riccarelli deve avere a lungo rielaborato questo evento così doloroso se accade che in Un mare di nulla spazi, tempi e temi che già avevano abitato il suo precedente lavoro subiscono ora l’effetto di mutarsi e disporsi in maniera affatto diversa attorno alle nuove invenzioni narrative che caratterizzano il suo ultimo romanzo.

Si amplia lo spazio d’azione, itinerante tra i paesaggi appenninici toscani, quelli prealpini piemontesi e il brullo Atlante nordafricano. Si contrae l’arco storico entro cui l’intreccio si colloca, ridotto quasi del tutto a quello del ventennio fascista, fino al tragico 8 settembre e, già prima, alla veloce disillusione sulla possibilità di guadagnare un «posto al sole» tra le grandi potenze coloniali europee. Ma, soprattutto, come per effetto di una stringente legge fisica, si riduce il volume dedicato allo sviluppo delle vicende familiari che avevano animato precedentemente Il dolore perfetto, aumentando, all’interno di queste che pur resistono, il peso del rapporto tra il protagonista –il fantasma di un padre trasognato narratore di fatti e memorie– e il figlio, gravemente ammalato, sospeso tra la vita e la morte da una macchina che lo aiuta a respirare.

Un legame di affetto e dolcezza che, nel dar vita ai fatti che il genitore rimemora e tramanda, comporta la presenza di una sorta di doppia voce narrante. La prima, diretta, del figlio, che riporta il racconto dalle parole –che al lettore giungono indirette– del padre, ma che, per quanto mediate (cristallizzate) dalla scrittura, sono le uniche ad avere il privilegio e il potere di ritrarre fedelmente, filtrare o manipolare a piacimento la realtà, di far conoscere al figlio (e al lettore) i fatti, a questo punto non si sa più se veri o falsi, ma non importa, di cui si sostanzia il romanzo. Il che, oltre a richiamare alla mente la mitica genesi della scrittura dall’oralità, richiamando nel contempo la fabulistica superiorità della seconda sulla prima, lascia riflettere anche sul gioco di sincerità e di menzogna, sull’abile equilibrio tra realtà e invenzione che si costruisce quando queste servano a preservare la vita, a lenire il dolore, a dilatare il più possibile il tempo della fine ingannando la morte.

Ed eccezionali, quasi mitologiche (come in ogni romanzo del realismo magico che si rispetti)  appaiono anche le origini di questo «mago imbroglione», nipote di un marinaio, Mondo, uso a solcare la violenta materia liquida e ventosa degli oceani, a sfidarla o a ripararsene imbrigliandone la forza con «incroci di funi che sapevano tenere fermi insieme pali e paranchi, gallocce e ormeggi, solidi come pugni eppure leggeri come sogni, nodi di bitta e corde doppie capaci di reggere la forza di un tifone ma anche di sciogliersi al tirare gentile di un bambino». Abilità che nel protagonista (grazie alla madre, una spigolatrice «annodata» invece alla terra e che lo ha partorito sotto un cavolo) si trasfondono e si mutano nella capacità femminile di legare a sé e di sedurre con la parola, ma che si manifestano anche in qualcosa di più (e con prepotenza, non a caso, al momento della morte di suo padre, il capomastro del paese), cioè nel magico potere delle parole di imbrigliare le onde della paura della morte, fuggendone attraverso il mezzo dell’illusione creato dalla parola. Quasi che il dolore, quando sia troppo forte per esser sopportato, spinga a costruire qualcosa d’altro a lato di una realtà troppo dura, una creazione artistica che serva a lenire i dolori che la vita porta con sé. Una fuga da fermo, non attuata fisicamente, insomma, che si realizza così anche perché, in fondo, «ogni buona illusione», come ogni buona menzogna, ha «bisogno della realtà» del «contatto dei piedi con la terra».

Il resto della famiglia, che il protagonista raggiunge in seguito è, invece –in senso riccarelliano– tipico luogo di scontro tra figure nettamente contrapposte ed estremizzate, ma comunque sempre semplificative di particolari atteggiamenti di vita. È il caso del contrasto tra i due zii «piemontesi», l’uno titanico e volubile inventore, costruttore di macchine bizzarre (metafora della creatività gratuita, ormai un topos dei lavori di Riccarelli), capaci, tra l’altro, di attirare con positivi risvolti la particolare attitudine al culto mistico della tecnica dei nazisti occupanti; l’altro opportunista, violatore del «patto alchemico» col suo maestro a cui ruba, nella speranza di facili e rapaci guadagni, le formule di distillazione più segrete. Tranne poi a spaurirsi per l’arrivo della guerra, del redde rationem apocalittico, e costruirsi in giardino non si sa bene se un rifugio o un enorme loculo dove seppellirsi vivo con la sua angoscia, ma che poi mette meritoriamente a disposizione –come una sorta di piccolo Perlasca in predicato di mondarsi l’anima– di rifugiati, renitenti e perseguitati.

Nel frattempo, l’artistica e creativa menzogna del nostro eroe ha modo di confrontarsi, ben al di fuori degli stretti confini familiari, con quella ben più prosaica e distruttiva che la storia gli riserva. Quella messa in piedi dal regime di Mussolini –ben più temibile e invisibile «grande attore» (per definirlo efficacemente con l’anarchico Camillo Berneri)– che lo spedisce, con tanti altri ignari e raggirati compagni di sventura, in uno dei tanti cubi di sabbia coloniali. Strani scenari che lo vedranno contrastare con umanità e inventiva le terribili brutture della guerra e del deserto, questi sì proverbiali grandi mari della morte in cui perigliosamente avventurarsi. Ed è proprio tra questi flutti, una volta prigioniero dei francesi, che il magico illusionista incontrerà se stesso e il proprio buio abisso interiore, dalle cui onde, questa volta, gli sarà impossibile salvarsi.

Una tempesta perfetta, stavolta, che lo sommerge di odio e amore, e che lo mette nella brutta situazione di lasciarsi vincere, fatalmente, da un istante incontrollato. Odio per lo spietato Laplace, metafora stessa del colonialismo più duro, una sorta di potente stregone che arricchisce il suo antro di inquietanti oggetti, feticci che paiono imprigionare per sempre anime, probabilmente delle innumerevoli vite che il francese ha strappato. Amore che lo lega agli irresistibili occhi berberi di una donna, schiava di Laplace, che spingeranno il protagonista a confrontarsi per la prima volta con una forza superiore alle sue magie. Tanto da scontrarsi più volte con Laplace fino a ucciderlo, uccidendo così anche le sue abilità, fino a perdere il suo stesso amore che si dilegua nel deserto pronunciando come una folata di vento il suo nome, Aisha, sulle cui ali scompare, forse anche incapace, come ogni ex-schiavo, di apprezzare subito la libertà donatagli, di sciogliere velocemente i pesanti nodi col passato.

Non sappiamo, non sapremo mai se, seguendo l’eredità paterna, anche il figlio abbia sentito scrivendo, come nell’esergo di Pessoa che apre al libro, la necessità di superare la sincerità quando si narra, se ci abbia, insomma, anche un po’ lui ingannati. Ma non è questo il punto se la lettura ci avrà avvinto al libro come un nodo stretto, tranne poi a sciogliersi con un soffio al momento definitivo di chiuderlo.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 3:18 PM