Antonio Celano

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Recensione a: Mary Gibilaro, Lo spostamento dei cirri (Edizioni La Zisa, 2013)

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Mary Gibilaro Cirri

Lo spostamento dei cirri, prima breve prova narrativa di Mary Gibilaro (Palermo 2013, 64 pp., 8.00 €), è un libro duale, eppure senza sponde opposte e nemiche; anzi luminoso, come nel carattere della sua autrice, nata a Santa Croce Camerina (RG) nel ’66, ma di adozione labronica ormai dall’82. Come a dire, già qui, due terre, due coste, due culture attraverso cui pendolare nel continuo rincorrersi, sulla superficie del mare, di presente e di passato. Un libro duale – dicevo – sin dal titolo, se i cirri possono spostarsi precipitosi verso le burrasche della vita oppure lentamente scivolar via ad annunziare la ristabilita bonaccia.

Ma così anche la natura di Lara, la protagonista di questo romanzo-lampo, che riesce a trovar forza e radice grazie al terreno personale di esperienza che l’autrice le dispone, trovando le giuste proporzioni per un calco unico del personaggio femminile, sempre credibile, capace di testimoniare di sé in prima persona. Lara (figlia musicista di un fanalista) che prende vita, nel racconto, proprio nell’atto di dar vita al piccolo Mariano e poi, qualche tempo dopo a Giorgio: onde arrotolate da un mare tranquillo. Ma poi, appunto, quel «qualcosa» di innominabile al midollo del primogenito, la velocità dei cirri intervenuta a spezzare la tranquillità del quotidiano, il mare corrugato, il rischio disperante che i genitori, che una madre possa sopravvivere al figlio.

E dunque in ogni nuovo capitolo, alla donna non resta che rifugiarsi in immagini che possano intervenire, in qualche modo, a lenire il dolore. A cosa ci troviamo di fronte? È la memoria che ricapitola la vita nel tentativo di un senso, prima della morte, per prepararsi a quest’ultima, sia pure di un figlio? Non solo.

Accanto al capezzale del bimbo, ammutolita dalle prescrizioni dell’ematologo, Lara attinge alla memoria musicale del mare, ritornando bambina al faro affidato alle cure del padre: riemerge, così, una struttura forte, alta, avvolgente, luminosa, capace di scongiurare gli scogli o di preannunciare il rifugio sicuro di un porto; al limite, il doppiaggio di un Capo per acque diverse. Ma pure una costante soglia di attenzione, la responsabilità che un’avaria del faro, il sopravvenire del buio, imporrebbe di fronte al naufragio.

E tuttavia è da notare come queste immagini positive progressivamente crescano, tolgano terreno alla narrazione della malattia di Mariano, come riuscendo a cicatrizzare il male. Il ricordo della ristabilita luminosità della torre, dei rossori spettacolari sulla costa sicula al tramonto diventano, così, il simbolo di una fede mai scossa nella vita che respinge il buio e riguadagna la speranza. Quasi come se le immagini fossero la traduzione di un altro linguaggio, sussurrato appena dietro i cirri da un angelo lì accampato.

Non è un caso, dunque, che tutto il libro si svolga con l’ausilio di una lingua sempre piana – in alcuni punti ancora, certo, letterariamente bisognosa di affinarsi e precisarsi – e di toni distaccati, che mai calcano sull’espressività o la disperazione, pur allo stesso tempo restando positivi, caldi e partecipi. Così, la narrazione delle vicende di Lara, evitando un qualsivoglia «effetto» sui lettori, si propone di precedere questi ultimi nell’esperienza, fornendoli di un portolano che possa accompagnarli «ad accettare ogni doloroso passo di quel nostro difficile cammino, non proprio come una lotta ma come uno svincolo nella strada della vita» pur se certamente molto accidentato.

Le vicende di Lara – sembra dirci Mary Gibilaro – non sono fatte per farci indugiare nel dolore, ma per narrarci una fede e sostenere una speranza per chiunque possa, a un punto, imbattersi in acque tempestose per la vita. Anche per questo l’autrice ha deciso che il ricavato del libro sarà devoluto all’AIL, Associazione Italiana contro le Leucemie.

Written by antoniocelano

gennaio 21, 2014 at 10:48 am