Antonio Celano

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Francesca Duranti, Come quando fuori piove (Marsilio, 2006)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione»,  n. 235 (dicembre 2007), p. 47-48.

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Capita spesso di notare, a chi si imbatte in italiani che per i casi della vita dividono l’esistenza più o meno equamente tra il loro paese d’origine e uno stato estero, una superiore esigenza di rigore morale, di insofferenza per le italiche debolezze caratteriali. Succede che il continuo confronto tra le strutture economiche e socio-politiche dei due mondi frequentati finiscano per sollecitare una maggiore aspettativa verso un radicale mutamento del modo di viversi degli italiani, una spinta endogena che sia capace di cambiarne definitivamente il codice genetico politico e sociale. A ciò pare non faccia eccezione Francesca Duranti, scrittrice di successo che si spartisce ormai da lungo tempo tra Lucca e gli Stati Uniti: «Lì, [a New York] percepisco quel sentimento diffuso di una patria che è e sarà sempre in formazione, a cura, spese e responsabilità dei cittadini. Non qualcosa che, come è successo a noi, ci è caduto sulle spalle da un’altura misurabile in due millenni e mezzo, e che così com’è, non ci si può fare niente tranne costantemente lamentarsi e dare la colpa a qualcun altro». La dichiarazione risale al 2003, ma probabilmente proprio questa è la cornice entro cui ha potuto prender forma Come quando fuori piove, romanzo scritto con stile chiaro e piano in un intreccio che ci restituisce un’allegoria sociale sulle italiche debolezze, sulle difficoltà di una seria e definitiva modernizzazione del Paese, ma anche su una costante presenza della speranza che il panorama possa, prima o poi, grazie all’impegno di qualcuno, iniziare a cambiare.

Le atmosfere sono rese già a partire dal titolo, che richiama alle mnemotecniche del gioco d’azzardo, sempre sospeso tra abilità e fortuna, e a quel sottile senso di claustrofobia delle sale da poker che pervade nello stare per ore al chiuso, magari non sempre con gente gradita e comunque mai bendisposta verso il successo altrui.

Silvia, la protagonista del romanzo, laureanda in Scienze Politiche, si imbatte per caso in tv in una figura tanto dimenticata dagli italiani da esser oggi quasi sconosciuta, quella di Mario Segni. Si butta, così, in una tesi a lui dedicata, che le riporta alla memoria l’enorme seguito ottenuto dal politico tra il ’90 e il ’93 e il successivo catastrofico dissolvimento del suo progetto. Progetto che la porta all’improvviso, con piglio tutto femminile, a paragonare tali vicende a una serie di oscuri fatti familiari e personali: «Mettere a confronto il colossale crack di quella speranza con il fallimento di quello che a casa mia viene chiamato “Progetto” è stata un’idea balorda che mi è venuta mentre cercavo il titolo per la tesi di laurea». Tuttavia Silvia, anche in questo caso, riesce a ricordare poco dell’accaduto e decide, con metodi da ricercatrice di storia orale, di intervistare le figure familiari che animano le «Cento Stanze» –così è chiamata la villa (un riuscito disegno della quale campeggia sulla copertina realizzata dalla figlia della scrittrice, Maddalena) dove abitano tre nuclei familiari imparentati, ma in perenne litigio e dissenso– a partire dal padre. Viene così a sapere che la villa è stata vinta a carte dal nonno, dispotico contadino agiato, ma anche abile giocatore e ammesso, per questo, nella società economicamente improduttiva del suo tempo, quella nobiliare. Di qui, invece di involarsi verso crescenti fortune, la vita della famiglia, bloccata dalle eccessive aspirazioni di status del capostipite, si trascina avanti stancamente tra mediocrità, fallimenti e crescenti dissapori.

Val la pena di notare che fin qui, come in seguito, l’incedere del romanzo pare assumere in più punti una descrizione pendolare delle vicende, quasi che quel già citato senso del viaggiare, dello spostarsi tra due o più fuochi per poi tornare a una base fissa, sia strutturalmente trasmesso dall’autrice a tutto il romanzo. E dunque, ad esempio, la descrizione delle curve per cui si inerpica l’auto che porta a casa la protagonista (che si spartisce tra Milano e Lucca) e che lascia scoprire di volta in volta, allontanandosi o avvicinandosi come per effetto di uno zoom, parti diverse della villa di proprietà; la ricostruzione delle alterne fortune del gioco in cui si impelaga il capostipite della famiglia e che gli permettono alla fine di vincere le «Cento Stanze» perdendo tutto il resto; il continuo recarsi di Silvia dai singoli familiari nel tentativo di recuperare la memoria storica delle vicende del caseggiato, ma anche di risolvere il «giallo» delle vicende del clan a esso legato. Giallo che in inizia a chiarirsi dopo una serie di vicissitudini che vedono dibattersi i tre tronconi della famiglia nel tentativo, non riuscito, di disfarsi dello scomodo condominio.

Giungono, così, i primi anni ’90 e l’eterna impasse della scollata e litigiosa famiglia subisce uno strattone. Sempre a causa di un nuovo azzardo, la maggioranza dei millesimi del condominio finisce nelle mani del giovane rampollo Davide, che finalmente tenta di realizzare il progetto di trasformare la villa in un «resort di lusso con scuola di alta gastronomia». Ma la salute del nuovo aspirante capofamiglia si aggrava velocemente, precipitandolo nella schizofrenia e il progetto sfuma, semplicemente perché altri non sa calzarlo e portarlo avanti. Cosa può aver fatto ammalare così Davide? Ogni familiare sbotta a Silvia la sua parziale, interessata, mezza verità. Ma questo continuo rimestare nelle vicende oscure della famiglia apre poi botole che sprofondano la protagonista (e il lettore con lei) in un crescendo di pusillanimità, rancori personali e immoralità che la tramortiscono. Ma Silvia è un’altra tempra e caparbiamente resiste, fino a provare a raccogliere, in un finale dalle tinte politiche, la bandiera di Davide lì dove lui l’aveva lasciata cadere.

È già stato segnalato quanto la presentazione del libro come «romanzo politico» sia quantomeno parziale, di quanto non tenga conto dei risvolti sociali della trama. E certo, nonostante la protagonista propugni, non verbalmente ma in ogni suo atto, che il personale è politico e viceversa, una certa ritrosia verso l’uso del termine potrebbe venire oggi dai mutati contesti socio-politici in (di) cui l’autrice scrive. Che sono quelli in cui certe prove si affrontano con occhio forzatamente più disincantato e incerto di qualche decennio fa. In Come quando fuori piove è diffuso un marcato pessimismo sulla natura umana, e la vita –le decisioni importanti della vita– non si sa mai se siano definitivamente improntate a una ragionevole probabilità di successo o a una sventata stupidità, un sogno che diventa «di movimento in movimento incubo o immagine di felicità». Alla fine non resta che l’ottimismo della volontà: «Il faut cultiver notre jardin». Di questi tempi comunque una scelta forte, se il giardino altro non è che un angolo in grado di rispecchiare il mondo.

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 12:20 PM