Antonio Celano

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Recensione a: Serena Maffia, Sveva va veloce (Azimut, 2009)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 24 Gennaio 2010.

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Generazione da flipper

Come per il romanzo del cilentano Paolacci recensito qualche tempo fa sulle colonne di questo giornale, anche l’ultima bella prova di Serena Maffia, “Sveva va veloce” (Azimut, 2009), può servirci a fornire materiale generazionalmente utile a riflettere sullo sguardo letterario dei giovani scrittori di origine meridionale.

La trentenne Serena Maffia vive e lavora a Roma ed ha già al suo attivo pubblicazioni importanti con editori capitolini e toscani. È giornalista, autrice e regista per il teatro e per il cinema, collaboratrice e autrice in ambito televisivo, facendo così delle narrazioni il proprio pane quotidiano. Una capacità particolarmente apprezzabile nella solidità dell’intreccio e nella naturalezza dei dialoghi, con solo qualche scivolamento su immagini e situazioni più dolciastre e televisive e il bisogno di meglio precisare, in un paio di punti, i tempi di sviluppo della narrazione.

Nel libro si susseguono futilmente i giorni di villeggiatura estiva in una località della costa jonica calabrese non distante dal confine metapontino. Un gruppo di amici, altrimenti sparsi tra la vita di paese e quella romana, si raccoglie intorno ai tavoli e al flipper del bar della coetanea Caterina tra battute, ricordi, piccole avventure. Collante del gruppo è l’esuberante Sveva, a cui la Maffia consegna un ruolo di regista-protagonista della storia, raccontata passando da una prima a una terza persona variegate di toni diaristici e scanzonati, di atmosfere intime e di dialoghi, come già detto, sempre credibili.

La circostanza conferisce alla protagonista un ruolo simpaticamente stregonesco, che a volte rende la prepotente “bambina” amabilmente urtante ai restanti amici del gruppo, capace com’è di scovare particolari scabrosi della vita altrui per confidarli senza veli e ritegno alcuno, magari anche con intenzioni di autocompiaciuto egocentrismo. Un atteggiamento che non toglie mai comunque spessore all’ansiosa Sveva, continuamente pronta a caricarsi dei bisogni altrui grazie anche a una bulimica bisessualità che è come il segno di una capacità di cogliere con intelligenza la complessità delle cose. L’eros e il corpo, insomma, come modo di conoscenza del mondo più che come spasmodica attesa del Principe azzurro, il che equivale a credere nell’amore profondo, ma in nessuno che precisamente lo incarni. Sveva interpreta la vita come molteplicità da esplorare senza nulla tralasciare, luogo dove afferrare senza scegliere niente di definitivo, con uno sguardo morale moderno, tanto sublime quanto fragile.

Intanto, per il gruppo, si prospettano giorni d’inquietudine, grazie al coinvolgeneto emotivo nel suicidio di Paolo Fara, viziatissimo figlio di papà, cantante del gruppo Oradaria. La rivelazione postuma dell’omosessualità di Paolo e di un suo libro di canzoni, probabilmente manipolato per coprire le vere ragioni del suo atto, trascinano Sveva e la sua amica Miriam a un passo da una pericolosa verità alla quale non sono estranee oscure vicende di ’Ndrina e di droga. La storia man mano si intreccia con un altro episodio, quando Fabio, amante non troppo convinto di Caterina, alterca con la sua ex, Loredana, tossica in chiaro stato di astinenza. Solo Sveva sarà capace di intuire e cogliere i legami tra i due fatti, la verità sulla fine di Paolo e la sparizione di Loredana.

Però, è intanto il caso di stringere su due o tre cose.

Innanzitutto che Fabio, il quale appare e scompare come un personaggio secondario dalla narrazione della Maffia, ne è invece il vero co-protagonista. Angelo caduto della storia, passa il tempo a prendere a calci e schiaffi il Flipper del bar in un’eterna partita continuamente condotta con la paura (il terrore, il dolore) che la pallina possa impazzire e cadere giù “come inghiottita da un buco nero”. Spacciatore borderline, compromesso col malaffare della zona, riesce infine a credere all’amore di Caterina – di cui aveva salvato il sorriso da una possibile tossicodipendenza – poi colpendo duramente i suoi stessi clienti, quasi colpendo se stesso e ciò che è diventato dopo aver assistito all’esecuzione dello zio da parte di un sicario di una cosca locale. Insomma, Fabio colpisce chi lo tocca nei ricordi, negli affetti, sempre nel tentativo convulso di uscire dal binomio droga-morte. E solo Caterina riuscirà a perdonarlo e reciprocamente a redimerlo con pazienza (e con una certa dose di sospensione del giudizio morale) da una distruzione certa degli altri e di sé.

In secondo luogo, che a un certo punto, nell’ora di cena, il gruppo si ridistribuisce in famiglia, affonda nella solitudine degli interni abitativi, delle stanze quotidiane. Qui riemergono i vissuti personali, ombre che si muovono ovattate nel desiderio e nel dolore, pesanti come piombo. Una sorta di racconti nel racconto che lasciano prendere forma alle figure di contorno più interessanti: Massimiliano, ad esempio, il cui corpo sul letto matrimoniale non lascia mai impronte o come la grassa Laura, una vita bulimica in una casa in cui impera un letterale buio imposto ai suoi danni dalla madre. Figure in fuga, anche se non necessariamente con esito negativo (Maffia disegna le cose più dure mai ricavandole dal nero), contribuiscono a comprendere – come Sveva, Fabio, Caterina, Alberto, Michela… – la finale metafora del flipper che chiude il libro. Metafora non tanto della vita, quanto della conclusione dell’adolescenza (dell’attardarsi nell’adolescenza), del timore che quel gioco trascorra “inesorabile e noi siamo biglie fortunate che rotoleranno ancora per poco”.

Questo timore pare riverberarsi nella scrittura della Maffia con qualcosa di paradossalmente pudico e reticente, che lascia un po’ troppo sulla porta un certo mondo cui solo si accenna, più aperto ma pure più violento. Nessuno indagherà sulla sparizione di Loredana, nessuna ulteriore vendetta mafiosa si innescherà per la vicenda di Paolo. Un flipper troppo più grande, pare confessarci la Maffia (che deve e può osare dunque di più), per la dimensione delle giovani voci di questa storia. Storia che intanto può restare (solo apparentemente) ancora un’occasione speculativa, una stanza al riparo dal resto, un posto dove il dolore resti sempre un a tu per tu tra la pallina e il giocatore. Tuttavia con la paura costante che l’estate finisca.

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Written by antoniocelano

marzo 10, 2010 at 12:59 PM