Antonio Celano

Archive for the ‘Labirinto centrifugo’ Category

Racconto: Labirinto centrifugo

leave a comment »

Questo racconto è stato pubblicato su «L’immaginazione», n. 255 (giugno 2010), p. 18-19.

_____________

Un reportage. Volevo fare un reportage – mi ricordo – e come un matto me ne stavo a un angolo del centro chiedendo ai passanti dove fossero mai i limiti della città e, oltre, cosa poi ci fosse. Ma chi sfuggiva infastidito, chi alzava le spalle. Qualcuno chiamava un agente. Da lì non capivo granché. La città digradava tutta nel tempo, indistinta, dalle colline all’Arno e poi dal centro in lontananza.
La Firenze che cerco invece non è qui, è fuori mappa, fuori dalle pagine di un saggio in una biblioteca, fuori dalla testa dei fiorentini. Sì, certo, questa città non ha confine – l’ho detto – ma ha una frontiera, uno spazio che si dilata e cambia e s’apre la strada in un mondo estraneo. Spazi da attraversare a piedi o con mezzi lenti: niente frenesie, auto veloci. La periferia come esperienza, sangue, carne, vita. Ecco. C’è un posto di questa città che non è fatto di pietra, di Storia, di un Rinascimento di cartone consegnato ai turisti. C’è un posto in questa città dove non c’è l’Uomo, ma i blocchi, i lotti, i palazzi in ferro-vetro. Una terra che nel ventre non ha terra, ma cavi, tubi, cemento, il sangue elettrico. Una campagna sconfitta, atterrita, d’acciaio, dove non ci sono alberi, perché non ci sono radici. Ci sono lingue, dialetti, vernacoli, ma non c’è Dante. E se mai passò di qui, anche da questo inferno, non si vede più.

Tempo fa mi aggiravo a Mestre. Un cielo saturo e indistinto, la testa vagava nel nulla riempito di case, di vecchi, di gente agitata nel volo confuso che fanno le mosche. Presi un mezzo solo per fuggire e più avanti, da qualche parte, l’autobus s’arrestò sulle rive di un mare piatto e salmastro. Dall’argine risalì un mestolone: stava fermo sul ciglio di strada, ci guardava come uno in attesa alla fermata. Così il bus mi parve all’improvviso una cosa fuori posto, una vecchia lavatrice, una tele rotta buttata appena oltre il ciglio della via. Mi ricordai allora di un mondo opposto, un frigo bloccato nell’acqua ghiacciata del Bormida, la notte che mia cugina era morta nell’incidente e se ne stava lì nella camera, vestita di un improbabile rosa, come il suo nome. Cairo Montenotte: l’ossimoro mi apparve dirompente all’improvviso. Col piede scostavo dalla via pietruzze calcinate dal freddo.
Di Potenza mi sovvenne solo dopo, l’autobus pieno di studenti prima di scendere in corteo contro la Falcucci, e mi chiedevo perché diamine mai la gente se ne stesse acquattata dietro le colonne dei palazzi. Fino a quando scesi, ché il vento tagliava la faccia con le lamette.

A Roma, invece, c’era a via degli Ausoni questo amico studente che mi disse «vieni» e io l’andai a trovare e entrai nella corte chiusa dei palazzi, i balconi con le ringhiere sottili di metallo rugginoso. Non un muro imbiancato, tutto era ridotto al suo telaio, al suo scheletro essenziale: una bicicletta senza ruote, una finestra senza vetri, un ombrello senza telo. E questa struttura che mi girava attorno come un mancamento, questa babele che si avvitava come una colonna, aveva il suo Minotauro. Un vecchio dagli occhi sottili, crudeli, una canotta lercia, i calzini, le mutande vecchie con la patta aperta, i testicoli avvizziti. Ci guardava ingobbito dal balcone. Fumava dal naso e la cenere cadeva giù.

A Firenze ci sono le risse e gli omicidi, i matti e gli stupri, i regolamenti di conti, gli scempi edilizi, le fatiscenze come altrove, ma se pensi la città ti scatta come un delirio e il Duomo e le colline fiesolane e i beni artistico/culturali saturano – a un tratto – la testa, la memoria, la coscienza, la nostalgia. E dunque anche il Pacciani io l’ho sempre immaginato alla sbarra cantare improvviso «la mi porti un bacione a Firenzeee!» con seguito di applausi a scroscio e sicuri ritorni turistici.

In via Baracca, sull’insegna del negozio c’era «Ettahoid», adesso c’è «Anour» mi pare, ma apre più tardi. Sulla soglia del negozio una gran barba squadrata. Il macellaio asciuga le mani in un canovaccio lindo. Più avanti, sulla via Pratese c’è una cupolina ottagonale, l’oratorio di Santa Maria Vergine. Non è tra i campi, come a Bolgheri. Fa da spartitraffico, schiacciata da un soprapassaggio, crepata dai motori. Dopo ci sono solo i cinesi, una Firenze che si srotola come una mappa antica, hic sunt leones. Però forse sono io che ci vedo tutte queste cose e altri no, e qui è solo un gran caos e voglio dare un ordine che, insomma, par che ci sia e – se poi t’aggiri dentro – non c’è, e la modernità è solo un gran baccano per distrarre l’attenzione.

Osmannoro. Lungo i viali larghi di questa città altra ma nascosta, cammino nel vuoto surreale, scorro le alternanze di spazi vuoti e capannoni. Ci sono luoghi, qui, in cui le case diradano e i capannoni iniziano, punti dove le costruzioni in muratura non cessano ancora e le strutture in ferro-vetro ancora non trionfano e allora accade che le tipologie si ibridano, le abitazioni ospitano officine d’auto e concessionari. Ci sono un paio di mutande stese nei pressi dell’insegna della banca.
Domenica. Perché sia venuto qui, ora, in questa luce implacabile e vuota, non so dire. Cartelloni muti, macchinari fermi, anche i cinesi sembrano dissolti da questo pomeriggio di primavera. Improvvisi vulcani vomitano dal cemento fiumi di formiche nere.
Dietro una grata c’è un pezzo quadrato di terra. Forse un giardino, nei primi propositi, ma incolto, quasi a dire che lo spazio per disegnarlo questo giardino, per piantarci fiori e per curare l’erba e disporre siepi c’è stato, ma non c’è stato il tempo, il tempo e i soldi per orpelli, belletti ipocriti, utopie da falansterio, decori casalinghi. Sul terreno crescono selvatici i ciuffi di canne, le garighe di inula, se piove le code d’equiseto quando la terra ha memoria dell’acqua, nostalgia del padule che era. Attraverso la grata sfondata entrano furtivi due ragazzi e una ragazza, mi sembrano slavi, portano buste della spesa. Guardo la costruzione che occupano: è piccola, un grumo d’uffici in disuso, con le finestre sbrecciate.

Dall’autobus scende impacciata una vecchia signora, sale una coppia. Sono cinesi, restano in piedi, parlottano aggrappati alla sbarra metallica. Lui segaligno, la faccia tagliata con l’accetta, smorti i suoi pantaloni marroni, smorta la sua camicia a quadri. Anonimo – mi dico – il volto e i vestiti. Ha i tratti tirati, è inquieto, sibila qualcosa a quella che pare essere sua moglie o una parente. Non capisco, ma forse è solo il loro modo di litigare. La donna ha un vestito grigio che non riesco a definire – ma importa? – ha questi capelli neri, forti, spessi, che si porta sulla testa come un buffo copricapo africano, il tetto di una capanna. Le labbra sottili celano due incisivi deformi, ribattono all’uomo con pause improvvise, più perentorie.

Eccoli i controllori: salgono a percorso avviato, come sempre. Parlottano due minuti del più e del meno, come normali passeggeri. Poi attaccano al bordo delle giacche i cartellini. È la loro tecnica, efficace, usata, affinata come quella di un paio di camaleonti. La coppia non fa a tempo ad accorgersi della loro presenza che loro sono già lì, a chiederle il biglietto che non hanno.
L’uomo e la donna subiscono una repentina mutazione. I volti, che prima s’affrontavano, ora sono giustapposti, si distendono, diventano di colpo gioviali, accennano come a un inchino di fronte alle facce inespressive dei tipi, che insistono. Vorrebbero eccepire, farfugliano un paio di parole in italiano imparate chissà dove. Vorrebbero, insomma, non so come, rifiutarsi, ma quelli, ecco, quelli si fanno più fermi, li stringono da presso, esigono e poi emettono un suono che supera il rumore di fondo del mezzo, vibra più delle scosse dell’insieme delle parti metalliche, delle buche della strada, dei seggiolini dove siamo seduti: «prego, documenti». I due s’inchinano, no si piegano, ecco, si
flettono nel loro sorriso finto, ostentato, irritante. Oscillano. Paiono canne di bambù in preda a un vento improvviso, le loro voci come un fruscìo di foglie, gli occhi sgranati, due marionette da teatro imbellettate, da Opera di Pechino. Attorno. Girano attorno una dietro l’altro a passettini, e a passettini dietro di loro i controllori e dietro ancora, a passettini, gli sguardi della gente e finalmente la scena si apre a gesti acrobatici, ai salti, al gong, ai fiocchi delle spade roteanti, alle nacchere e ai piattini sempre più veloci, alle voci flautate, ai lamenti suadenti, i movimenti meccanici, le teste oblique, i mostri blu, i mostri semidivini che chiedono il biglietto, i due cinesi pazzi tra onde di tragedia, che proprio non si possono, non si possono sfuggire.

«Documenti, prego». E tutto si ferma. La farsa finita, il tempo sospeso, la mano che fruga, lenta, i vestiti. Mei Lan-Fang, il volto esacerbato, la bocca aperta, il respiro faticoso che estrae un portafogli. Mei Lan-Fang che si rammarica. Mei Lan-Fang che ha paura, le sue labbra sporcate di ciliegia. E questo tempo interminabile, pari alla cifra infinita che fa cinquanta euro, al tempo infinito che serve a vergare un verbale, al tempo infinito in cui un cervello, due, insomma, si lambiccano all’unisono infinitamente per inventare chissà quale scusa al momento del ritorno, in fabbrica, il capo chino, il capoccia che guarda storto. Oppure sono solo due furbi: ce l’hanno messa tutta per fregare l’Ataf, ma gli è andata male, cinesi di merda. L’autobus improvvisamente stormisce di opinioni da facile democrazia diretta, sul modello dei reality show. E poi la porta si riapre e i due scendono e con loro riprende il tempo e il colore smorto dei panni e romba l’autobus e sgassa e i cinesi, sì insomma, i due, che sono proprio i due cinesi che avevo visto salire (Mei Lan-Fang chi l’ha mai conosciuto?), i due che riprendono il solito colore giallo dei contadini costretti all’industria, costretti al suo ergastolo, a un riscatto che non pagheranno mai, si arrestano un attimo, si guardano in faccia e, mentre il mezzo gli chiude le porte sul muso, alzano il pugno, sì, la memoria per un istante a ravanare in un guazzabuglio di adeguate parole e poi, insomma, poi parte l’invettiva dell’uomo. Fa eco la donna e rincara, ma sempre con voce strozzata, inascoltata, inascoltabile. Sibilata vibrante protesta che l’autobus copre mentre sta sfilando via.

Scarica di file PDF del racconto

Written by antoniocelano

luglio 19, 2010 at 6:56 am