Antonio Celano

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Lettera per Rosa

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La notizia della tua morte in un incidente d’auto mi raggiunse in un giorno di qualche anno fa. Un giorno come tanti, un giorno che non appunteresti mai sul calendario perché lo stai vivendo come tutti gli altri, in ufficio. Pure, la tua fine, è stata per tutti noi eccessiva come i tuoi momenti di felicità, come le tue ansie, la natura del tuo stesso spirito che era fatto per uscire fuori, costruirsi fuori, con gli altri.

E così, man mano che con mia moglie ci avvicinavamo a Cairo Montenotte, tutto partecipava della tua scomparsa. Le strade si facevano strette, difficili, irrazionali, ricavate in angosciosa scacchiera da grigie abitazioni e sciatte fabbrichette dall’aria dismessa. «Cairo». «Montenotte». Mai ho trovato un accostamento più manicheo, stridente, di elementi geografici. Un’utopia esotica e una sagoma nera, la luce al suo zenit e un buco nero capace di inghiottirla. Un mondo ostile perché assente, da dimenticare solo col lavoro o da accendere trovando un amore capace di ridare un colore, un senso al grigiore architettonico. Poteva aiutarti anche quella tua irresistibile, insopportabile voglia di confusione.

Tu non eri emigrata, eri solo fuggita in uno dei tanti posti sbagliati che potevano sceglierti dopo la tua decisione di trasferirti. Volevi solo avere la possibilità di confrontarti con le persone, rapportarti era la tua misura, oppure anche stordire la vita in mondi altri dove l’arrivo coincide con la massima lontananza dal proprio mondo. Perché, vedi, i nostri paesi non sono adatti a contenere le ansie, i sorrisi e gli spigoli di ragazze come te. Ai nostri paesi non piacciono le increspature: sono pericolose, perché vengono troppo da dentro, si manifestano con spontaneità. Tuttavia, al di là della sopportazione di questo obbligato metro, non eri altro che l’azione del tormento e tu le scarpe strette le avresti sentite dovunque…

Cairo, dicevo, ma anche Cengio, simbolo quanti altri mai di una natura stuprata e avvilita. Tutto partecipava della tua morte, appunto. Passando accanto al Bormida gelato come un movimento rappreso, una lavatrice ferma in mezzo al guado. Mi chiedo chi l’abbia buttata lì, mi chiedo quanto sia spesso il ghiaccio, quanto morta la terra, quanto gelida tu, il tuo viso di cera lievemente ingiallita. Un alito freddo, implacabile, sembra abbia soffiato dappertutto. Una morsa che prende prima alle dita, passiamo buona parte del tempo a battere le mani alla notte e al nulla. Neve dai bagliori vitrei, lividi lampioni al neon, un po’ di ghiaia irregolare sul bordo dell’asfalto calcinato.

Tuo padre si è preoccupato di noi, del nostro alloggio, di tutto. Ci racconta con forza insospettata di te, dei tuoi ultimi saluti, dello schianto… per un attimo penso che gli abbiamo portato solo, come si dice, «fastidio». Ma poi mi accorgo che dentro è solo un fantasma che cerca di distogliere lo sguardo dal baratro, che cerca di non restare una statua di sale, che combatte con il suo essere stato padre. In seguito, stento a riconoscere, per un attimo, tua sorella: mi spiazza, il dolore le ha dipinto la tua maschera in faccia, si aggira con le tue sembianze, ti veste, ti calza, mi impietrisce, mi lascio abbracciare, sarò apparso imbarazzato… Tua madre il giorno dopo ti guarda, ti interpreta, in un secondo ridà alle tue forme irrigidite movimento. Solo una madre può farlo. Come una medium in trance legge le tue ossa gettate alla rinfusa sul tavolo. Dà il responso: «È arrabbiata». Ma in fondo è arrabbiata lei, arrabbiata a morte, perché, insomma, le si sei polverizzata tra le mani scaraventandola a mille chilometri di distanza senza nemmeno lasciarle il tempo di sceglierti un vestito acconcio in armadio, senza nemmeno il tempo di trovare un pensiero meno articolato sulle note del dolore, perché una figlia non può morire così, di punto in bianco, come una telefonata che ti toglie il respiro…

Inizio a prendere appunti sulla tua morte quasi un anno dopo, a Galdo di Lauria, durante una serata danzante di beneficenza, in una situazione apparentemente paradossale. Scrivo su un pezzo di cartoncino durante un’occasione che, penso, non avresti perso se fossi ancora stata qui. A me non piace molto, a te, invece, piaceva ballare, scatenarti, ridere, poi sederti, chiacchierare o scherzare. Ricominciare dopo un sorriso o un momento in cui lo sguardo è rimasto assorto, giochicchiando con una mollica di pane tra le dita. Ti ricordo al mio matrimonio saltare allegramente sulle note di «Siamo i Vatussi», un motivo per te, non ti ci vedevo, infatti, a ballare i «lenti» anche se, poi, avrai ballato anche quelli. Pure, penso con un certo rammarico, che l’unica fotografia che ti scattarono in quell’attimo venne male. L’asta di un telone ti copre gran parte del viso e non aiuta il ricordo. O forse, quella ripresa non è che la metafora della mia incapacità di capirti fino in fondo.

Quel giorno che con le auto salivamo tutti al Sirino per la festa e tu tenevi ostinatamente il viso fuori del finestrino, rischiando di farti sbranare la faccia dai rovi sporgenti sulla via, io come gli altri ti ritenni, al momento, sopra le righe. Con la lontananza sopravvenuta in seguito, non mi hai lasciato la possibilità di raccontarti cosa di te apprezzavo, che è proprio quella tua libertà istintiva, afferrata senza condizioni, che con il tempo mi ha rivelato, come la decantazione di un vino, un mio certo fondo limaccioso di convenzionalità.

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Pubblicato su «Il Sirino».

Written by antoniocelano

febbraio 4, 2012 at 2:11 PM

Pubblicato su Lettera per Rosa