Antonio Celano

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Recensione a: Roberta Lepri, La ballata della Mama Nera (Avagliano, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 26 Luglio 2010.

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Il mondo invisibile accanto a noi

Gli zingari, si sa, rubano. Ed è opinione diffusa che, rubare per rubare, si dedichino parecchio anche ai bambini. Per il suo romanzo “La ballata della Mama Nera” (Avagliano, 2010) la grossetana Roberta Lepri sceglie dunque un tema complesso, irto di luoghi comuni dove è facile cacciarsi. Terreno che però affronta con piglio sicuro, anche forte ormai dell’esperienza di tre romanzi e di una capacità di narrazione ormai solida (e un paio di imprecisioni temporali non incidono sulle sorti del romanzo). La capacità, anzi, di saper porgere senza intoppi e pesantezze la storia tenendone sempre strette le briglie è il pregio più visibile del libro che riesce, così, a svolgersi con una trama coerente e personaggi sempre credibili.

Ughino vive in una famiglia che ha fatto i conti con qualche naufragio di troppo nel gran mare delle speranze. Il piccolo, un bimbo emotivo e sensibile, non può dunque che idealizzare la famiglia della sua amica Sara Signorini: padre brillante chirurgo, madre assistente sociale, nucleo familiare praticamente perfetto. Il padre di Ughino, Gino Cellini, poliziotto manesco e poco brillante è intanto chiamato a indagare sul rapimento di un bambino, Marcellino, che si scopre essere stato ucciso e sepolto vicino a un campo nomadi. A capo della piccola comunità zingara, la veggente Mama nera, e tre donne che sembrano primordiali Eva provenienti dalle altrettanto riconosciute culle dell’umanità: il gelido Nord, L’Est euroasiatico e un Sud africano o amerindo.

Qui Gino Cellini già compie, con la scarsa elasticità dell’occidentale stanziale, un primo errore: confondere il piccolo assassinato con suo figlio in un pericoloso gioco di immedesimazione che si salda con la figura fosca, indecifrabile e dunque minacciosa dei nomadi. A nulla serve l’ovvia constatazione della Mama: “I figli ci avanzano i nostri. Se ne vogliamo degli altri ce li facciamo…” perché ci si mette pure lo zingaro Manuel a pedinare misteriosamente Ughino ogni qualvolta frequenti i Signorini, spaventandolo a morte e confermando Cellini nelle sue congetture.

La catastrofe (nel suo senso originario di “ribaltamento”) scoppia proprio quando Ughino confessa la sua terribile paura all’amica Sara, la quale si sente in dovere di rivelare a sua volta un segreto, ben più inquietante, celato a casa sua. Tutto a questo punto precipita: Manuel rapisce Ughino che è salvato, ma in realtà nuovamente rapito dai Signorini. Un gioco impazzito di pedine su una scacchiera più grande che alla fine si rivela nello scontro, attorno a una losca “donazione” di organi, tra una cosca mafiosa e la polizia dello scaltro commissario Spitzer, capo di Cellini. Quest’ultimo è messo di fronte, così, ai pregiudizi che gli hanno impedito di guardare al di là del proprio naso.

Insomma, pare dirci Roberta Lepri, cosa abbiamo contro gli zingari – che pure, è vero, rubano – quando l’orrore continuamente irrompe dall’interno della nostra società? Però con il pericolo di scagionare indirettamente i ricchi Signorini trafficanti d’organi se la colpa è poi di una potente criminalità che ve li costringe (e la pagina dove il “fascino del male” si fa incontro al chirurgo valeva la pena di essere indagata meglio e forse seguendo altre strade). Pericolo da cui, però, la Lepri riesce comunque a metterci in guardia, in qualche modo segnalandoci che tutti possiamo diventare ingranaggio di un sistema (mafia o altro) quando rinunciamo a lottargli contro in prima persona, magari non accorgendoci per tempo della rete compromettente in cui rischiamo di cadere.

Contraria la figura dello zingaro Manuel che, collaborando con la polizia (d’accordo con Spitzer rapisce Ughino a fin di bene) è costretto, per questa sua compromissione, a essere espulso dalla comunità di appartenenza e a “dissolversi” in quella dei “gagè”, realizzando così il costo della definitiva lacerazione tra coscienza individuale e irriducibile identità nomade. Il che mette la Lepri nella posizione di essere un’idealista pur senza idealizzazioni. Tanto da risultarci larvatamente anche un po’ pessimista, se il lieto fine – una possibilità di nascente convivenza civile – cui non rinuncia, sappiamo essere una convivenza per ora relegabile quasi del tutto solo a un libro.

Non ci rimane, allora, oltre alla Mama (che reintegra nella comunità Manuel in virtù della sua superiore comprensione delle cose), che affidarci a una figura come quella del commissario Spitzer, che si basa su solide indagini, e poco s’abbandona a sacrificare sull’altare dei luoghi comuni. Così come ci piace pensare abbia scorso i dati ufficiali sui rapimenti di bambini raccolti dagli organi di polizia e da studiosi del problema, cifre in cui gli zingari (confusi con chi?), nonostante l’opinione comune, non compaiono mai.

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Written by antoniocelano

luglio 26, 2010 at 12:32 PM