Antonio Celano

Archive for the ‘Scritture & pensieri’ Category

Recensione a: Giuseppe Aloe, La logica del desiderio (Giulio Perrone Editore, 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Scritture & Pensieri» il 19 giugno 2011.

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Conquistato e travolto dal fascino di una donna tra desiderio e angoscia

L’ultimo romanzo di Giuseppe Aloe, La logica del desiderio (Giulio Perrone Editore, 2011, 212 pp.), è un’éducation sentimentale sensibile al tempo psicologico e più intimo della voce narrante. Una vita collocata a ridosso di confini geografici e dell’anima ugualmente indefiniti, e perciò continuamente sofferenti di spaesamenti linguistici, cognitivi, affettivi. Scelte confermate dall’uso coinvolto di una narrazione in prima persona, densa e materica, sia pure filtrata attraverso i toni di una memoria dei fatti già decantata.

Il lettore incontra dunque il giovane protagonista, romanziere e filosofo in erba, immerso in un tempo “senza spessore, né profondità”, autosufficiente: letture, scrittura, un rapporto con il padre vedovo mosso appena da naturali confronti generazionali. Pure, ben altro tempo lo aspetta quando l’incontro con la fascinosa Vespa (una donna o una pericolosa malattia dell’anima?), per la prima volta, pungerà la sua carne con il veleno del turbamento e di un desiderio urgente e ossessivo che finisce per corrugare di sé anche la narrazione. Una risacca di onde lunghe, di tempi distanti che ora ripassano incessanti e lenti, sfiorandosi e frangendosi nella memoria. Che è una breve stagione d’estasi subito seguita da un mortificante, mai definitivo abbandono da parte dell’irrequieta amica, dalla presenza disturbante e burrascosa del marito e di altri amanti, dalla morte del padre dopo una penosa malattia che lo spegnerà lentamente. E dunque paura e angoscia e un fardello di morte che è, blochianamente inteso (in uno dei passaggi più alti del romanzo), “salasso della speranza”, sfinimento del desiderio e liberazione di un dolore senza limiti.

Un destino che per vie diverse travolgerà momentaneamente la donna e consumerà la luce del suo giovane amante, almeno fino all’apparizione della purezza e dell’amore di Agneta. Il ritorno a un tempo più lineare, ma pur sempre inquieto di una Vespa sottotraccia, minacciosa della sua ombra che non manca, ancora una volta, di allucinare e quasi di uccidere, questa volta fisicamente, il protagonista in un incidente. Perlomeno fino al riemergere, sotto un cielo nevoso, ovattato, eppure paradossalmente cristallino, della speranza di Agneta. Una nuova nascita o la guarigione da una penosa e logorante malattia se il desiderio – lo si capisce sulla propria pelle – ha per unica logica quella della sua spasmodica, informe illogicità.

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Written by antoniocelano

giugno 19, 2011 at 7:10 PM

Recensione a: Paolo Zardi, Antropometria (Neo., 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Scritture & Pensieri» il 24 Febbraio 2011.

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Antropometria, il vivere contemporaneo di Paolo Zardi

Resta in gran parte nello stile la forza che anima la raccolta di racconti “Antropometria” del patavino Paolo Zardi, trentenne ingegnere con il vizio della scrittura. Uno stile fatto di un ritmo preciso e intenso, sostenuto da dialoghi (seri o ironici) sempre molto convincenti, anche nel tono. Uno stile riconoscibile che è già il tratto di uno scrittore maturo, che si stenta a riconoscere invece per l’esordiente che è.

L’antropometria – lo si dice anche nel libro – è la misurazione essenzialmente quantitativa dell’uomo e delle sue componenti, ma pure, per Zardi, “di esistenze, di relazioni di micro mondi dentro cui ogni suo racconto si muove per coglierne le fratture, i cambiamenti, le trasformazioni inattese”. E in realtà i suoi racconti sono come meccanismi molto ben congegnati all’interno dei quali deflagrano improvvisi (ecco il termine più giusto) i fatti e le svolte della vita. Mai rassicuranti. I protagonisti delle storie possono somigliare, così – e non sempre in senso lato – a quegli strani manichini usati per i “crash test” mentre di loro si misurano gli urti e le ferite sul corpo e nell’anima. Colpi che sono destinati a trasmettersi dritti allo stomaco del lettore, disperanti, come nel racconto d’apertura “Sei minuti” oppure in “Futuro anteriore” o “Ai tempi del nulla”.

Proprio perciò, nella scrittura di Paolo Zardi, si annida un potenziale pericolo. Perché, in realtà, l’antropometria vale ben poco qualora non serva a costruire un’antropologia. Così come i colpi inferti, e certe atmosfere poco rassicuranti, qualora restino fini al meccanismo narrativo, incapaci di uscire da una reiterazione alla quale il lettore stesso in breve potrebbe assuefarsi. Però non parleremmo di Zardi se altre vie d’uscita non fossero già ben praticabili nella sua scrittura. È per questo che della raccolta si preferiscono le pagine, ad esempio, di “La lotta” o “L’urlo”. Racconti che, disposti i dati grezzi di un tema, sono capaci di alzare lo sguardo oltre il compiacimento tecnico verso una lucida visione (che piaccia o no, non è questo il punto) del nostro vivere contemporaneo. In una lezione che possa incidersi nella mente e nella carne del lettore come dopo un incidente d’auto al quale si è miracolosamente scampati.

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Written by antoniocelano

febbraio 25, 2011 at 8:53 am

Intervista a Maurizio De Giovanni

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Questo articolo è stato pubblicato su «Scritture & Pensieri» il  17 Ottobre 2010.

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Napoli nella pelle

Noir mediterraneo – Maurizio De Giovanni racconta il “suo” commissario Ricciardi

Classe 1958, napoletano, Maurizio De Giovanni è arrivato tardi alla scrittura e presto al successo di pubblico e di critica. Con un personaggio dolente quanto ispirato, il commissario Ricciardi, che, nel volume Il giorno dei morti (ed. Fandango), affronta l’ultimo episodio di una saga dedicata alle quattro stagioni. Quest’ultima indagine (ma altre seguiranno) si svolge in una Napoli che il 26 ottobre dell’anno IX dell’Era Fascista troviamo aggredita da una pioggia inesauribile che le “le toglie il sorriso”. Acqua che fa paura, che non lava, che deruba un bambino della sua spensieratezza e del suo futuro.

Nel suo ultimo romanzo Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi (Fandango), la città sembra avere una presenza diversa rispetto ai suoi lavori precedenti.
Sì, è vero. Del resto la città non è una semplice contestualizzazione degli eventi, ma uno sfondo dinamico. E ho sempre ribadito come Napoli sia una città estremamente stratificata. Una realtà che si nota, ad esempio, anche attraverso i mille cliché anche contrastanti, paradossalmente tutti veri, ma pure tutti coesistenti, tutti accumulatisi in secoli di vita cittadina. Non è un caso che Napoli sia un luogo che lungo la sua storia conti nessun assedio, perché qui tutti i conquistatori, tutti gli eserciti invasori sono sempre stati accolti a braccia aperte, senza opposizione.

E come convive con questa città il commissario Ricciardi?
«Il commissario Ricciardi è un uomo che vive una condizione di solitudine, in qualche maniera scollato dalla città, ma in realtà vivendola e vedendola molto più profondamente del resto dei suoi abitanti. Ricciardi ha un dono-condanna, la singolare capacità di cogliere l’ ultimo pensiero dei morti, che non è altro che la percezione di una sincronicità. E infatti è l’unico che vive e attraversa una mancanza di cesura tra passato e presente, di un superamento storico dei fatti».

Napoli. De Silva non la nomina mai, ma poi la città è come se premesse dentro ogni sua singola frase. Lei la sposta in un’altra epoca ma, nel rapporto con il suo protagonista, si rivela poi di un’attualità estrema. Di Napoli si può parlare solo così?
«Napoli si può affrontare con rabbia, con amore o con passione, ma la verità è che resta sempre un argomento che non si può esaurire. Purtroppo è poi anche una città sommatoria di individui, incapace di esprimersi all’ unisono, di dire “noi siamo cittadini”. E questo pur avendo la cultura e tutte le carte in regola per potersi realizzare in un destino comune e positivo».

Ritrova elementi comuni a Napoli nelle altre città del Mediterraneo?
«Gli elementi comuni sono tantissimi, io stesso ne ritrovo una quantità con Genova, ad esempio. Ma oltre che di Mediterraneo si dovrebbe parlare di partecipazione a una comunità orizzontale con tutto il meridione del mondo. Basti pensare ai legami con l’America Latina, ad esempio».

Torniamo al romanzo. L’indagine questa volta gira attorno a una vittima che è un bambino. Il Noir partenopeo ha una particolare sensibilità verso questa realtà?
«Il piccolo Matteo, ”Tettè” , è un bambino povero, denutrito, lacero. Prima e dopo la guerra Napoli è diventata famosa per la presenza massiccia dei bambini tra i suoi vicoli e nei quartieri. Era ed è un’infanzia coinvolta nel crimine. I bambini sono usati come spacciatori, corrieri della droga. Un problema pressante e persistente. Nel mio ultimo romanzo è una tensione che il protagonista vive particolarmente».

Di Ricciardi ha detto che «è un uomo che non riesce a non guardare il male». In realtà nel Noir è sempre presente una profonda tensione a conoscere il male. Secondo lei come se ne può scriverne senza giudicarlo moralisticamente o senza rimanerne compromessi?
«Oggi il vero erede del romanzo sociale è il Noir. E non puoi riuscire a vedere il male attraverso il bene ma, al contrario, puoi recuperare una visione del bene attraverso il male. Per il resto per parlare del male io non adotto una scrittura asettica, ma mi sento coinvolto e partecipe nella sua descrizione. Tuttavia ho rispetto per la vittima di un delitto, non mi attardo in descrizioni splatter e non indulgo in atteggiamenti giallistici perché non sopporto l’omicidio come occasione di racconto. Faccio invece esercizio di pietà, di pudore, di rispetto e comprensione del dolore.

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Written by antoniocelano

ottobre 19, 2010 at 2:34 PM

Recensione a: Andrea Di Consoli, La commorienza (Marsilio, 2010)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Scritture & pensieri» il 22 Agosto 2010.

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Andrea Di Consoli riporta alla luce un caso archiviato

“Io non ho scritto un romanzo giudiziario, né ho fatto un reportage narrativo, tanto di moda in Italia in questi ultimi anni. Molto più semplicemente, ho voluto fare un’inchiesta giornalistica, interrogando le carte processuali e alcune persone ‘informate sui fatti’” dichiara Di Consoli nelle prime pagine del suo La commorienza (Marsilio, 2010). Indagine iniziata sulle colonne del “Quotidiano della Basilicata” e dedicata alla morte misteriosa dei “fidanzatini” Marirosa Andreotta e Luca Orioli, avvenuta la notte del 23 marzo 1988 a Policoro, in provincia di Matera.

Una seria impostazione che ha consentito a Di Consoli di non cadere in una serie di fatali trappole e di rapportare al contesto di riferimento ogni singolo elemento di una storia che, dopo innumerevoli perizie tecniche – tutte svoltesi in un clima pesantemente segnato da una quantità di incredibili contraddizioni, imperizie e ridicole sciatterie inquirenti – resta ancora rubricata ufficialmente alla voce “incidente”. Uno scandalo, una vera e propria fregola di archiviazione sviluppatasi in un clima di pigrizia e disonestà intellettuale, di bigottismi paesani preoccupati di dover “aggiustare le cose” nel silenzio, di urti tra forze inquirenti e locali poteri politici, di depistaggi interessati. Attori che hanno finito per strappare la scena ai fatti per sostituirli, complice l’immancabile giornalista scandalistico di turno, con presunti “segreti” (i loschi “festini” a base di coca, orge e potenti del posto) in cui le vittime si sarebbero non si sa come coinvolte e che ne avrebbero “consigliato”, fuori tempo massimo, l’eliminazione.

Una deriva paranoica che non ha trascinato con sé Di Consoli, sempre saldo nella convinzione di dover indagare non sulla vita di Marirosa e Luca, ma su chi li ha uccisi, scoprendo velo dopo velo la più probabile verità di un delitto passionale, tanto più mal eseguito quanto impunito grazie a una serie incredibile di circostanze. Un disvelamento che non poteva che avvincerci con l’appassionata riflessione attorno a cui si coagula l’inchiesta, che è la perdita dell’innocenza, lo spezzarsi delle potenzialità della vita a causa di un male molto più banale di quanto si sia disposti a dipingerlo.

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Written by antoniocelano

agosto 24, 2010 at 1:05 PM