Antonio Celano

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Recensione a: Emanuele Ponturo, L’odio. Una storia di amore (Fermento 2011)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Blog di Stilos» il 26 Ottobre 2011.

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Ci sono storie singolari, che si occultano a un primo sguardo. Ci sono romanzi che, sotto la facilità di scrittura e l’apparente prevedibilità dei percorsi narrativi, rimandano invece a strutture e concetti più complessi. È il caso della favola nera L’odio. Una storia d’amore, dell’esordiente Emanuele Ponturo (Fermento, 120 pp., 13,00 euro). Un titolo che è già una traccia sulla via degli inestricabili legami tra opposti e laceranti sentimenti che animano i suoi adolescenti protagonisti. Meccanismi che l’autore conosce bene esercitando come penalista in processi che riguardano la devianza minorile, traducendoli a volte in storie disincagliate dal tedio delle carte processuali in una Roma periferica, con una sua prosaica vitalità, sebbene oggi forse più anonima.

In un locale notturno della Magliana lavora Monica, studentessa e sognatrice, un amore tradito alle spalle e molta voglia di ricominciare con qualcosa di diverso dagli abbordaggi tutti uguali che si susseguono tra i tavoli e il banco della birra. Un’aspettativa tale che, quando inizia a ricevere lettere lasciatele sotto i bicchieri vuoti – prima poesie, poi conturbanti racconti fiabeschi, frammenti di una vecchia storia dolorosa mescolata a visioni della ragazza – Monica resta subito affascinata e turbata dalla personalità dell’anonimo scrittore.

Dietro le lettere c’è Stefano, un ragazzo tornato nel suo quartiere d’origine dopo un periodo passato all’estero, tra lavori umili e altri poco rassicuranti, a seguito dell’espulsione dalla scuola. Causa ne è (oltre l’insufficiente rendimento, il forte isolamento personale e lo scarso adattamento ai gruppi che frequenta) l’amore ossessivo e assillante per Barbara, la sorella più grande di un suo amico, tra l’altro di livello sociale più elevato. Androgina, occhi da cerbiatta, gatta, provocante ma più volte scostante con Stefano, che spesso deride, Barbara vive un carattere piuttosto strumentale anche con i ragazzi della sua età. Stefano la spia con il suo ragazzo, comincia a nutrire fantasie sostitutive (del fratello di lei) a sfondo incestuoso e paranoico, entra in competizione per attirare la sua attenzione. Fino all’errore di portarla nel cesso dei maschi con un coltello comperato per tagliare il fumo. Scoperti, Barbara non esita per salvarsi ad accusare il ragazzo di averla minacciata sessualmente, poi trasferendosi con l’intera famiglia.

È dunque un cuore indurito, un topo trasformatosi in lupo quello che torna sul luogo dei propri tormenti, con addosso le proprie storie lasciate in sospeso, le allucinazione ancora vive. Ed è in Monica/Barbara, gli stessi capelli raccolti, lo stesso fare scostante verso gli avventori del bar, che inizia a vedere il proprio Cappuccetto rosso da trascinare nel suo ambiente fatto di boschi, in cima ai monti, nel bianco della neve (in un casa che gli ricorda una vacanza trascorsa con Barbara).

Fin qui la storia, a un passo dall’epilogo. E tuttavia, a rendere particolare il libro non può certo essere una morale fiabesca senza lieto fine alla Perrault. Né può pretendere originalità un romanzo rivisitazione di Cappuccetto rosso teso a insegnare «alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n’è dappertutto […] che hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere».

Ciò che colpisce, invece, è lo sguardo visionario e delirante. Uno sguardo che non si arresta agli incubi notturni di Stefano, né a quanto delle lettere affascina Monica, ma finisce per dilagare dando un senso altro a tutta la sua storia (ricalcando, ma in senso inverso, le orme che pure seguirono i padri della psicoanalisi Freud, Jung, Fromm ecc.). Ci sono, infatti, colori e riti magici nei sogni del protagonista: il bianco, colore luminoso e dominante in tutta la storia, il verde, il celeste, l’azzurro. Bagliori delle nevi, sfumature dei boschi e delle acque in altura. Qualcosa di panico e sacro. E poi, nei suoi ricordi, ancora montagne, piscine, laghi, piante.

Ci sono favole raccontate nelle sue lettere. Miti. Ed è proprio in uno di questi fogli che ripone la chiave per comprendere un secondo livello, più nascosto, al quale il libro improvvisamente si apre, pur continuando a seguire, in superficie, il suo feroce sviluppo senza sussulti. Infatti, pur non citandole il riferimento preciso, Stefano narra a Monica il mito di Atteone, trasformato in cervo dalla crudele e intangibile Diana e fatto sbranare dai suoi cani per aver guardato la dea nuda intenta a lavarsi a una fonte. E cani, gatti, cervi si nascondono davvero un po’ dappertutto nel testo (come l’aggressivo custode del condominio «Cagnone», psicopompo dalle sembianze umane), così come molte piante (il pino, ad esempio, il dattero), oggetti (palchi sacri, traducibili in regali corone, anelli argentei) e rimandi a divinità orientali: tutti ricollegabili al complesso e selvaggio mito di Diana.

Insomma, è come se per una parte del libro si vivesse nel clima di lucore silvestre profuso dalla dea, nel suo dominio presidiato dalla crudeltà venatoria dell’inconquistabile Barbara, Stefano predatore-preda in un mondo nemico, pieno di forze minacciose. E non è un caso che, paradossalmente, Ponturo narri tutto questo con uno stile che lascia davvero poco spazio alle atmosfere angoscianti tipiche del noir. Pare al contrario ricavare le figure e la storia dalla luce, dal bianco. Un colore chiave del culto di Artemide, virginale, casto eppure vitale, ma anche, come noto, un colore della morte in cui è capace di ribaltarsi improvviso. E dunque se il livello teriologico, in Ponturo, ci rivela uno sguardo francamente etologico sull’uomo e sui rapporti umani (dove anche le fantasie incestuose del protagonista richiamano a una regressione di ciò che Levi-Strauss individuò come il primo confine tra natura e cultura, il primo tentativo di spezzare l’isolamento dal mondo nella creazione di una possibilità sociale), la forza narrativa del mito scopre e dà forma, invece, alla natura ambivalente delle umane emozioni, la latenza di una violenza sottile, sempre potenzialmente in grado di trovare l’oscuro passaggio che lega, in noi e tra noi, l’amore all’odio, la vittima al carnefice.

E del resto la luce, le fantasie incestuose accennate e il ritorno di Stefano nelle vesti del lupo vendicatore sul luogo della sua sconfitta, non fanno che riferirsi, come per Diana, ad antichi miti trapiantatisi saldamente tra le antiche genti del Lazio. In questo caso la fratellanza tra il cervo bianco e il lupo e il gemellaggio tra Diana e Apollo (cui erano consacrati i lupi nel loro ruolo solare). Anche qui non senza che i sentimenti positivi si tramutino in oscuri, in un ambiente dalle forze ribaltate, dove è il lupo a prevalere stavolta nell’ambiente a lui confacente e Diana a soccombere, mentre l’inverno avanza e la natura dorme.

È stato scritto che l’uccisione finale della malcapitata Monica in una incubica casa di montagna (che sembra essere una perfetta anticamera dell’inferno) sia un finale scontato. E può essere (ma in definitiva lo sarebbe stato pure l’happy end). Ma lo stupro di Stefano, lo sfregio della sua sconfitta liberata in una rabbia e una frustrazione sempre a stento contenute, non abbandona la vittima nel buio della casa o nel bosco. Monica muore al mattino; è sepolta nella neve, nel bianco. E se sul piano umano la condanna del fango resta incancellabile, pure c’è qualcosa di catartico nel gesto. Il lupo pare possa avere una possibilità di uscita dal buio della caverna e la neve, che è morte (tutto ciò che è più in alto in Ponturo pare segnalare questa condizione), avere la possibilità di sciogliersi ancora, di tornare a indicare la vita, la luce, una chance di rinascita della coscienza, una rigenerazione. «Il lupo è libero», conclude Ponturo: probabilmente di uccidere ancora, ma forse per la prima volta anche di salvarsi tornando, come nel ciclo delle stagioni, placato l’inverno, dall’odio all’amore.

Written by antoniocelano

ottobre 26, 2011 at 8:24 am