Antonio Celano

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Recensione a: Beppe Lopez, La scordanza (Marsilio, 2008)

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Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 245 (marzo 2009), p. 54-55.

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È stato scritto, tra le note stampate nel risvolto di copertina del volume di Beppe Lopez, che La scordanza accompagnerebbe il passaggio del protagonista Niudd’ «attraverso il Sessantotto da un Paese arcaico, innocente e autoritario, a un Paese moderno, in fase di smaniosa “liberazione individuale e collettiva”» fino alla profonda crisi morale, sociale e politica in cui cade la penisola a partire dagli anni ottanta. Il meccanismo narrativo di Lopez sarebbe quello non di «una storia individuale, intimistica, “borghese”», ma quello di offrire «una metafora del paese: dalla miseria al benessere, dall’analfabetismo alla cultura, dal dialetto all’italiano, dai cafùrchi alle antiche case restaurate, dal Sud piagnone e vittimista alla Roma potente e prepotente» («La Gazzetta del Mezzogiorno», 30.9.2008).

Sennonché  una metafora siffatta dovrebbe comunque tenere conto di vicende individuali o collettive vissute sullo sfondo dei principali avvenimenti storici o almeno influenzate dalle grandi passioni sociali e politiche del Novecento. Tanto che sempre il risvolto di copertina anticipa al lettore una prima parte del romanzo (intitolata «Andata») dedicata ai temi «dell’emancipazione, della speranza, delle utopie». Ma le vicende del gruppo familiare che si avviano (siamo a Bari negli anni venti) con l’unione tra la contadina Momen’ e il commerciante Antonio ’Ndramalonga restano piuttosto estranee alle principali vicissitudini del secolo anche in chiave locale (avvento del fascismo, guerra e ritorno della democrazia, lotte contadine e operaie, boom economico e avvio del consumismo di massa ecc.) per convergere attorno alle storie che stanno alla base della nascita e della formazione sentimentale e sessuale del giovane Niudd’. Il che declassa la metafora, una volta privata delle chiavi di comprensione dei meccanismi socio-politici che dovrebbero generarla, a una serie di fatti frammentariamente allusivi e dalla genesi poco intelligibile. Non è un caso che l’unica ricostruzione delle grandi aspettative di riscatto sociale incarnate nella figura di Di Vittorio può intervenire a romanzo ormai più che avviato (siamo a pagina 83) e in modo del tutto episodico e scollato dal restante andamento del racconto.

Certo resta la bella e dolorosa storia personale e familiare di Niudd’. E con La scordanza Lopez si dimostra, se mai ve ne fosse ancora bisogno, scrittore abile nel tessere trame, nel disegnare personaggi, nel dare vita a dialoghi assolutamente godibili. Ma proprio la decisione di prestarsi forse a toni più immediatamente affabulatori consegna gli avvenimenti a una dimensione sostanzialmente atemporale, pur non volendo negare nella maniera più assoluta un’ambientazione calata in un mondo povero, arcaico, dove è rappresentata un’innocenza spesso preda della durezza e dell’indifferenza dei rapporti umani. Scelta di un registro che finisce per ostacolare, peraltro, anche una trattazione più approfonditamente psicologica dei probabili «rodimenti interiori» e delle ambizioni di un protagonista che, a parte qualche accenno ai suoi sogni e alla sua gavetta nei giornali locali, ritroviamo nel ’75 quasi di colpo a Roma, ormai lanciato verso la carriera giornalistica.

È questa la parte che chiude la prima sezione dell’opera e che, invero seguendo sempre più il personale che il politico, anche tra accenni alla vita di redazione e a frequentazioni femministe, ci narra della liberazione sessuale vissuta dal protagonista (quel «fare cich-e-ciach dentro a letti diversi») che lo porterà a lasciare la moglie (emigrata per lui abbandonando brillanti prospettive professionali a Bari) dopo la nascita della figlia Saverin’.

Con la seconda parte del romanzo (il «Ritorno») giungiamo ai Duemila. Niudd’ torna definitivamente a Bari a bordo di una Errequattro rossa dopo aver venduto l’appartamento romano e letteralmente bruciato tutte le tracce del suo passato, della sua memoria. È ormai la storia di un uomo colpito da una tragedia familiare terribile che, affiorando mano a mano nel romanzo, gli renderà impossibile ogni altra fiducia nel futuro. È la metafora (questa sì) della crisi di un intellettuale colpito e disilluso dalla fine del processo di democratizzazione e di riscatto delle classi popolari in cui s’era identificato, simboleggiato dall’assassinio di Moro. Imbevutasi di scordanza, «l’Italia non ha più avuto la storia che voleva e si meritava».

Qui lo scarto con i toni della prima sezione si fa più pronunciato. Attraverso i ricordi e il monologo interiore, più stringente si fa il legame con i fatti socio-culturali dell’ultimo trentennio, la sofferenza e i rammarichi personali rincorrono quelli per la sconfitta politica, le primitive motivazioni progressiste-egualitarie riconvergono certo verso la ricerca di una diversità legata alle radici, ma anche verso spinte a tratti fortemente involutive.

Però accade che proprio l’eccessivo accumulo di ricordi e analisi non diluite per tempo nel romanzo provocano ora uno stile prolisso, a tratti diaristico o cronachistico, altre volte saggistico. Davvero a tratti si ha la sensazione di leggere due libri giustapposti che quasi richiedono altrettanti tipi di lettore. Né soccorre, soprattutto in questo frangente narrativo, la scelta del dialetto operata da Lopez per l’intera stesura del romanzo. Pur senza voler adottare i netti giudizi di Massimo Onofri sulla «retorica del sublime basso» c’è da chiedersi se e in che maniera il «dialetto» sia in grado di raccontare e spiegare i processi di modernizzazione del Paese senza soverchie goffaggini e inadeguatezze. Tanto che nei frangenti in cui Niudd’ rilegge i pochi appunti salvati dal rogo rievocando i passaggi politici più significativi dei settanta/ottanta (fin nella mimesi della terminologia politica e ideologica allora in uso), la coloritura dialettale si spegne infatti pressoché del tutto.

Il che dice quanto sia difficile raccontare in un unico affresco tutto il Novecento, tutta la sua frammentata complessità e le sue controverse continuità con un unico sguardo e con un unico linguaggio (dialetto, lingua nazionale, politichese che sia).

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Written by antoniocelano

marzo 11, 2010 at 2:36 PM