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Recensione a: Dora Albanese, Non dire madre (Hacca, 2009)
Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 252 (gennaio-febbraio 2010), p. 55.
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A dar retta al titolo, il tema del libro dell’esordiente materana Dora Albanese dovrebbe essere quello della madre. O delle madri. Perché in effetti, a partire dalle vicende di una ragazza madre in una comunità meridionale, la raccolta di racconti man mano svolge i legami di ogni madre alle proprie madri, nella costruzione di una famiglia sempre più estesa capace di far proprie via via le esperienze della nonna Anna, di una vecchia che si aiuta per caso a traversare la strada, di un uomo che vuol diventare donna, di una figlia che vive a Parigi, del rapporto mistico e misterioso con una terra pure essa madre carnale. Percorsi individuali che pure sanno farsi, nella scrittura dell’autrice, costruzione e memoria di una biografia collettiva.
In realtà il tema forte sotteso alle brevi narrazioni di Dora Albanese è appena più a monte. È il cordone ombelicale: viscerale legame che avvince tutte le protagoniste –come fossero una sola– alle genitrici, alla loro terra d’origine o d’approdo, alla comunità, ai padri, ai loro compagni e mariti, ai figli, alle reti di relazione intessute. E il dilemma resta sempre lo stesso: continuare a pompare ossigeno e vita attraverso quel cordone oppure definitivamente reciderlo. In ogni caso sempre facendo una scelta coraggiosa di autonomia («Io però, a un certo punto, mi sono imposta di non dire più madre, di non cercare mai più l’aiuto di mia madre; perché una figlia che diventa madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità per dare spazio al suo bisogno di riscatto») o di assunzione di responsabilità che obbliga a uscire fuori da se stessi nel comprendersi come parte di un tutto che, alla fine, implica sempre una crescita e un certo quotidiano eroismo («Ho deciso di perdonarlo, perché gli sbagli non li ha fatti solo lui. E poi tutti oramai si arrendono al primo problema, tutti gettano la spugna, ma la coppia è una cosa seria, una vera scommessa. Stare insieme è soprattutto riuscire a perdonare, finché è possibile, tutte le mancanze»).
Argomenti, questi, non disgiunti dallo sguardo nuovo e individuale con cui le donne della scrittrice materana colgono il mondo, meno lacerate come sono dal confronto –pendolare e non gerarchizzato– tra il «profumo della legna bruciata» del paese e una Roma luogo di emigrazione, ma pure patria elettiva. Per cui alla fine ci si può sentire più estranei (quasi che si fosse migrati da fermo) in presenza delle famiglie di origine –nel frattempo passate dalla cultura contadina a una dimensione compiutamente piccoloborghese– e più aperti rispetto a un recupero senza patemi della tradizione. Oppure più adattati e liberi a Roma. È uno sguardo, insomma, che finisce per essere positivamente meticcio, periferico e ancora una volta autonomo anche rispetto al puro legame geografico.
Anche così –anzi a volte proprio per questo– non mancano poi durezze nelle occasioni e nelle scelte di vita, non mancano le malattie, i dolori del parto, gli amori consunti, le ferite subite dai padri, la decadenza fisica della vecchiaia, un corpo giovane che pare già adulto e provato. Ma tutto ciò indica solo che il luogo privilegiato dall’analisi culturale è passato dai corrugamenti orografici a quelli del corpo. Corpo come spazio le cui manifestazioni morali sono sempre prima leggibili come disagio fisico.
Ma il malessere, persino lo sfacelo del corpo non è mai definitivo in Dora Albanese: non è la morte, non ne è l’annuncio, bensì ciò che precede la vita. Non è decomposizione, sono i tremori irriflessi, i capelli unti, gli sgradevoli sudori della pelle, un vecchio callo raschiato via fino al vivo della carne. Sono gli involucri del serpente che ha imparato a lasciarsi dietro le stagioni.
Non è un caso che a un certo punto l’autrice parli del duende. Per García Lorca nel ballo, nel canto, nella scrittura, il duende non è una tecnica, non è un pensiero –almeno non solo– ma è un lottare la vita, è uno stile, il sangue. Il duende affonda le sue radici in un limo nero e misterioso, è spirito occulto, ma è anche –per concludere– «il costante battesimo delle cose create, una freschezza inedita». Il duende è, insomma, una forza che procede dal buio alla luce. Meglio, è una luce che procede nel buio. È per questo che dal dolore di Dora Albanese si riemerge continuamente «riacciuffando la vita» dalla notte, la memoria dalla morte. E, per questo, è un dolore di cui si può necessariamente dire solo dopo che è stato attraversato, che resta cicatrice benefica nella memoria personale o condivisa, che nella scrittura un poco decanta pur senza definitivi distacchi emotivi. Il tutto narrato, come bene spiega la nota introduttiva in bandella, con «una lingua sospesa tra oralità e letterarietà, continuamente scossa da innalzamenti lirici e da velocizzazioni quasi automatiche».
Recensione a: Cristiano Ferrarese, 1976 (Hacca, 2008)
Questa recensione è stata pubblicata su «L’Immaginazione», n. 246 (aprile-maggio 2009), p. 47.
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«… è necessario essere altri rispetto al mondo del quotidiano…». È in questa programmaticità che si coglie la cifra di 1976, secondo volume della «Trilogia dei matti», esordio narrativo di Cristiano Ferrarese. Non perché i pazzi –come scrive molto opportunamente al riguardo Andrea Di Consoli–, secondo un abusato luogo comune dell’antipsichiatria, siano rivoluzionari, quanto perché i loro sguardi, deformanti e incrostati di sofferenza, sono al contempo un luogo e un punto di vista irriducibili. Insomma la follia, i manicomi e ogni altro luogo di contenzione come momenti particolarmente adatti a metaforizzare una realtà come quella che precedette il ’77 in Italia. Un luogo spoglio e privo di colore che Ferrarese rende in una sola pennellata dai toni eliotiani: «una terra desolata e desolante dove si ride e si piange e non si riesce più a distinguere il buio dalla luce…», lasciando irrompere un sistema binario dove si trasmutano non solo lo spazio e il tempo –per cui non si sa bene se V., l’eroina della narrazione, ci parli di quegli anni o dei nostri–, ma pure i ruoli e i confini della realtà e dell’allucinazione. Dunque i deliri e le visioni di sangue della voce narrante, ma anche l’Austerity del «moriremo democristiani», il Sudamerica crudo di Videla, l’arresto di Curcio e il «suicidio» della Meinhof, la bomba a Brescia e lo scandalo Lockheed, una natura stuprata dalla diossina e a sua volta terribile vendicatrice di se stessa in Friuli. Come a dire: il delirio è la realtà, la realtà è il delirio; il potere della follia e la follia del potere.
Nel frattempo, 1976 realizza pure un salto di maturazione rispetto al suo antefatto 1967, dalle atmosfere più cupamente incubiche e mistiche, violente e gotiche. Non che in 1976 manchino anche di questi risvolti, soprattutto le tinte mistiche, ma qui risultano più sublimate e meglio articolate, meno pesanti. E l’immediata mimesi della violenza schizoide si vira ora in una rabbia di passione civile e politica «in nome di tutti i refrattari ad ogni potere bieco e opportunista», di cui V. si imbeve, facendosene piena interprete.
Ma, allora, chi è V.? è una ragazza doppiamente reclusa, costretta sulla sedia a rotelle e rinchiusa in un carcere (ma potrebbe essere un manicomio, oppure un convento nato dalla penna settecentesca di un libertino francese o ancora solo un parto della sua mente). A volte, con l’aiuto di un vecchio (il padre, il potere, un poliziotto, una nemesi, nessuno?) si ritrova a farsi spingere invece in un hangar enorme e vuoto, pure questo un luogo desolato dove di solito ciò che può volare è posto forzatamente a riposo. Qui, pervasa dalla visione del fratello (C., lo schizofrenico protagonista di 1967), ossessionata da violenti deliri di morte e di sesso con il padre e con una poliziotta legata al fratello (e di qui tutta una serie di connettivi déjà-vu con il volume precedente di Ferrarese), V. graffita col sangue immagini liberanti, dall’ispirazione cineticamente convulsiva alla Bacon.
Chi è dunque V.? una matta certo, dalla vita povera e inferma, ma anche una profetessa, una Cassandra. Meglio. Una versione femminile di Laocoonte, perfettamente lucida nella denuncia di un potere di volta in volta monolitico o proteiforme, repressivo o narcotico, e perciò continuamente dilaniata dai denti e ingoiata dalle teste del serpente dell’Isola di Tenedo. V. è una moderna Teresa D’Ávila, una mistica ai tempi della Controriforma, una corda continuamente tesa tra il fango e la levitazione, tra le esperienze soprannaturali e il diabolico. Un’invasata di Dio, un’estatica dedita all’isolamento e alle flagellazioni, rapita dalle fantasie autoerotiche col divino. Tuttavia una mistica pericolosa perché non contemplativa, ma missionaria, in grado di diffondere un verbo di profonda libertà. Una santa delirante capace però di guardare lucidamente in faccia il mondo e di individuarne le radici infette.
Rispetto a 1967 anche il modo di narrare in parte evolve, in alcuni punti frammentandosi maggiormente, rendendosi ancora più singhiozzante, per poi coagularsi improvvisamente in pezzi più estesi, spesso di denuncia e d’invettiva. Il che sembra molto ben adattarsi alla narrazione stessa, a renderne i ritmi e la sostanza. Molto si è detto, infine, sull’ascendenza céliniana dell’abbondante presenza di puntini sospensivi nella scrittura di Ferrarese, tuttavia qui forse solo un tic maniacale e ossessivo delle dita, un fastidioso ma necessario rumore di fondo creato dai chiodi o da una cucitrice ossessivamente impegnata a saldare alla meno peggio brandelli di realtà viva, ma tenuti assieme come un mostruoso Frankenstein.
Recensione a: Andrea Carraro, Il gioco della verità (Hacca, 2009)
Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 21 Aprile 2009.
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Per Andrea Carraro la verità è un gioco crudele
Ritorna in libreria l’autore del Branco
Dopo romanzi dello spessore del Branco, Non c’è più tempo, Il sorcio, lo scrittore romano Andrea Carraro torna ai racconti con Il gioco della verità (Hacca) sebbene con un passo molto più breve rispetto a quelli che avevano caratterizzato la raccolta intitolata La lucertola (2001).
Come valutare in Carraro questa nuova e accresciuta frammentazione dell’unità e della maturità della forma romanzo? un momento di stanchezza dell’autore, una fase di declino giunto alla fine di un periodo particolarmente ispirato? Niente di tutto questo. In queste pagine è come se la scrittura di Carraro si ingegnasse a moltiplicare tendenzialmente all’infinito una collezione di cammei dalla scrittura scabra e poco rassicurante. Un universo di brevi storie d’ambientazione piccolo-borghese che, accumulandosi, non disinnescano, anzi moltiplicano – trasformandosi in un fastidioso sciame – la minaccia che sentiamo nel leggere il loro male di vivere. Fino a creare, con i due racconti «La nonna morta» e «Il biglietto», un sistema parallelo, un paio di storie che differiscono tra loro solo per pochi particolari, quasi fossero state generate da un incubo fatto più volte.
I personaggi che abitano il mondo di Carraro sono quasi tutti preda di una particolare malattia, una patologia della forza di volontà, un tarlo che aggredisce la possibilità che la coscienza riesca a incidere sulle abitudini coattive, sulla capacità di reprimere positivamente le pulsioni. Insomma l’abulia nelle storie di Carraro è una patologia dello sforzo: c’è sempre nell’uomo un troppo marcato distacco, una zona vuota e scoraggiante tra il riflettere sul da farsi e il dare all’azione la forma di una decisione, di una qualsiasi convinzione. Il che non manca di trascinare i protagonisti alla deriva personale, in una sottile quanto irriducibile nevrosi, in esplosioni di rabbia esausta ma, proprio per questo, più distruttiva e inutile.
Come nel racconto «Il berretto» possiamo viaggiare in autobus notando la testa di un uomo che batte violentemente sul finestrino a ogni sussulto per poi accasciarsi sulle gambe dei viaggiatori e, insieme a questi ultimi, scendere alla fermata con addosso un peso indefinito. Possiamo tornare al lavoro perseguitati dal gioco crudele della coscienza che sa la verità (non tanto quella che l’uomo sia morto, quanto quella che non si è fatto nulla per avvertire o far qualcosa), ma cercando di continuare a scollarci narcisisticamente da quanto accaduto pensando che domani è un altro giorno. Pur sapendo che morire toccherà anche a noi.
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