Antonio Celano

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La masseria di Giuseppe Bufalari e la modernizzazione del Sud – Intervista a Antonio Celano di Sara Calderoni su Fuori/Asse, novembre 2016, n.18

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La copertina del n. 18 di “Fuori/Asse” illustrata da Lucio Schiavon

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http://www.cooperativaletteraria.it/index.php/fuoriasse/115-fuoriasse-18/744-fuoriasse-18.html

 

Giuseppe Bufalari e il recupero de La masseria

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Questa recensione è stata pubblicata sul domenicale del «Quotidiano del Sud» l’8 maggio 2016.

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Il romanzo racconta l’impatto difficile con la modernità della società contadina lucana negli anni ’50. In occasione della ristampa del volume allo scrittore è stata conferita la cittadinanza onoraria di Calvello.

Questa storia dimostra come tutte le biblioteche – anche quelle paterne, anche quelle che pensi di conoscere ormai come le tue tasche – ti regalano sempre un dono sorprendente quando meno te l’aspetti. E così è stato per il romanzo del fiorentino Giuseppe Bufalari, per tanto tempo rimasto nascosto, sottile com’era in quell’edizione, in mezzo ad altri libri, e forse anche “guardato”, scorso, ma non “visto” o considerato ancora con la necessaria lucidità. Per me, infatti, “La masseria” era sempre stato il romanzo del calabrese Fortunato Seminara, scritto nel 1952, proprio poco prima che Bufalari, in veste di maestro elementare, scendesse nella Basilicata appena investita dai processi di modernizzazione innescati dalla Riforma agraria e dall’intervento della CasMez di De Gasperi e Saraceno. È il 1953: anno tra quelli che segnano il definitivo tramonto del latifondo, ma anche della società contadina meridionale a questo organica. L’anno, tra l’altro, della morte di Rocco Scotellaro a Portici.

Il libro è, però, scritto nel 1959, con l’autore in Maremma e quell’esperienza già alle spalle: sarà pubblicato l’anno dopo, per i tipi della milanese Lerici, tra minacce di denuncia per il disdoro gettato sugli abitanti di quella parte di Basilicata e le lagnanze sul titolo che un infastidito Seminara confiderà a Carlo Cassola.

Nel romanzo, il protagonista è inviato in Basilicata come assistente sociale per preparare la popolazione ai cambiamenti imminenti in quelle contrade. Lasciatosi alle spalle Calvello, dove i giovani aspettano positivamente la Riforma come possibilità di riscatto economico e sociale, si addentra nelle campagne più sperdute verso la masseria della famiglia Torraca. Il protagonista, pur convinto della necessità del cambiamento, ben presto si rende conto che il tempo per operare mutamenti nella mentalità dei contadini non può essere che lungo. Ma la Riforma è già alle porte della masseria con operai, macchine, ruspe, strade. Nessuno si è curato delle relazioni inviate dall’assistente sociale che scrive per informare del disastro che provocherebbe l’inizio immediato delle trasformazioni. In pochi mesi, con la costruzione di una diga, si formerà nei terreni della masseria un lago che la cancellerà. E fino all’ultimo i due mondi sembreranno quasi impermeabili, fino al violento impatto finale che derubrica definitivamente fatti degni di ben altre riflessioni a mera cronaca di ordine pubblico. Lo sgradito assistente è quindi sostituito e trasferito.

Dopo la sua pubblicazione “La masseria” è recensita, nel 1961, da Montale sul “Corriere della Sera”. Il libro conosce un inaspettato successo, tanto da guadagnarsi lunghi interventi, su quotidiani e periodici, dei maggiori critici dell’epoca: Baldacci, Ferretti, Marvardi, Pampaloni, Nogara… Non mancano le traduzioni: tedesca, spagnola e svedese, rispettivamente per i tipi di A. Muller Verlag (“Das tal des Zornes”), di Plaza e Janes (“La maseria”) e di Gebers Stockholm (“Bondgarden”). Infine, per varie ragioni, un lungo oblìo spezzato solo, nel 1972, da una riduzione scolastica curata da La Nuova Italia, peraltro successivamente disconosciuta dall’autore per i tagli eccessivi apportati al testo. Tiratura comunque preziosa se – come ha ben detto in un suo recente intervento sul libro l’editore calvellese Franco Villani – ha poi permesso di salvare complessivamente la memoria del romanzo (divenuto difficilmente reperibile nell’edizione originale) nelle case di molti lucani. E come pure avvenuto in quella di mio padre.

Fin qui la storia del romanzo, poi da me reperito nella sua versione integrale e riproposto alle stampe. Storia che è anche il sangue del suo autore, classe 1927, e tuttavia lucido e vitale, nonostante la recentissima scomparsa del figlio Vieri lo abbia profondamente colpito pur non piegandone, almeno apparentemente, la tempra. Frangente che non ha comunque scoraggiato il proposito della Giunta comunale di Calvello, guidata dal sindaco Mario Gallicchio, di riunirsi in Consiglio straordinario, il 14 aprile scorso, per conferire allo scrittore fiorentino la cittadinanza onoraria del Comune. Un intento a lungo preparato in coincidenza con la nuova pubblicazione del romanzo (2016, pp. 400, 17.00 €) da parte di una casa editrice – la Hacca di Matelica (MC), guidata dall’instancabile Francesca Chiappa – da sempre attenta a pochi, sia pur oculatissimi recuperi editoriali di qualità (anche per l’impegno del lucano Giuseppe Lupo).

Tuttavia non mi sarei impegnato per una nuova edizione del testo se il libro non avesse retto a quella prova di modernità sempre da esigere da un romanzo che oggi voglia farsi ristampare. E dunque lo sguardo dell’autore, il suo confronto tra il mondo di provenienza, quello cattolico e intellettuale di Firenze (fu allievo di Luzi e Bilenchi), così “ingombro di cose, fatto di giornali, di macchine, di chiacchiere” e il tempo antico di una masseria autosufficiente dove, già nel legno della croce appesa alla parete ingiallita dal fumo, Bufalari conta, uno a uno, tutti i tarli lasciati dal paganesimo. “La masseria” di Bufalari non si apre con lo sguardo aereo del “Cristo” di Levi, né quello dal basso verso l’alto dell’anarchico Taddei ai piedi della collina sulla quale è posta Bernalda. La vallata di Bufalari è un mondo che si apre stretto come la dura forca caudina cui sarà sottoposta la sua necessità di comporre, da un lato, il bisogno d’innovazione modernizzatrice, dall’altro il timore di poter perdere l’incanto di un mondo arcaico e profondo. Bufalari, così, scende al Sud con l’entusiasmo di chi vuol partecipare a rimettere sul giusto sentiero di civilizzazione una terra arretrata e superstiziosa ma, – come ebbe a scrivere con grande acutezza Baldacci –, giunto nelle sue campagne, dovendo avvertire i contadini dell’arrivo della “civiltà”, in realtà è messo nella condizione di dover avvertire i promotori della Riforma dell’esistenza di un’altra cultura, basata su un suo specifico equilibrio tra uomo e natura.

Insomma, pur facendo parte della schiera dei meridionalisti non meridionali, mi pare si possa dire che Bufalari si apparenti, sia per lo stile asciutto e terso sia per il definitivo fallimento dei propositi del protagonista, più alla generazione dell’Ottieri del “Donnarumma” che a quella di Levi.

Nella “Masseria” non è traccia di mitizzazione. L’autore sta ai fatti, accosta gli eventi, sia pur registrandoli con accorata partecipazione. Ha scritto bene Di Consoli che il fiorentino “guarda con simpatia a quel popolo… ma non cade nella trappola dell’alterità – come fosse, quel popolo “senza peccato e senza redenzione”, un popolo eletto di Dio, o del Dio assente dei ‘vinti’ della Storia”. Bufalari non ha difficoltà a registrare le superstizioni, le faide, soprattutto la feroce volontà di egemonia di una masseria e di una famiglia sull’altra, il “palpito di speranza” che attraversa il volto dei contadini alla notizia dell’altrui rovina. E tuttavia non fa sconti anche all’indifferenza di chi gli dice brutalmente che i contadini ormai sono il passato, che la modernità avanza troppo velocemente perché si possano realizzare dal “di dentro” i necessari mutamenti nella mentalità rurale. Bufalari scopre dunque che la modernità, pur creando nuovi acquisti (ai quali pochi riusciranno ad adattarsi), sempre esige perdite della stessa entità, non necessariamente attinenti alla sola sfera economica, ma anche a quella della dignità della vita.

“La masseria” ci ripropone, così, a suo modo, in un contesto culturale e politico mutato di segno, la materia divenuta ormai scandalosa di un meridionalismo bloccato alla conta di cosa sia andato storto con la Riforma agraria, la CasMez, l’industrializzazione, l’emigrazione, il sottogoverno, l’impiego pubblico di massa. Salvo renderci conto che il Sud, per il Nord, è diventato, nel frattempo, solo una zavorra.

Pdf icona«Il Quotidiano del Sud» di domenica 8 maggio 2016

La restituzione di un romanzo-reportage: La masseria di Giuseppe Bufalari

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Sono molto contento per l’uscita, in libreria, del libro La masseria, del fiorentino Giuseppe Bufalari (Hacca Edizioni, Matelica 2016, 395 pp., 17.00 €).

Il testo lo scoprii casualmente nella biblioteca di mio padre, stampato in una riduzione per le scuole risalente al 1972. Mi colpì il fatto che il titolo fosse uguale a un altro grande classico della letteratura meridionalistica, sia pure molto diverso per ambientazione storica e sviluppo delle vicende: quello scritto da Fortunato Seminara nel 1952.

La curiosità mi fece procurare una copia dell’opera di Bufalari (Lerici, 1960). Leggendola, ebbi subito chiara la percezione che si poteva porre fine all’oblio al quale, per quasi sessant’anni, era stata consegnata.

La ricerca di un editore ha avuto le sue tortuosità, ma mi sono venuti in aiuto molti amici che, alla fine, hanno permesso la riedizione del libro. Tra questi: Vieri, il figlio dell’autore (oggi ancora vivente) e Mario Gallicchio, Sindaco del Comune di Calvello (PZ), dove la storia è ambientata ai tempi della Riforma agraria.

Colgo l’occasione, infine, per ringraziare anche Francesca Chiappa che, con Hacca Edizioni (e la disponibilità di Giuseppe Lupo), ha creduto subito in questo progetto di recupero di un libro importante e ingiustamente dimenticato. Da parte mia, oltre alla riscoperta del testo, ho firmato la postfazione che l’accompagna (la prefazione è, invece, di Andrea Di Consoli, che non posso che lodare per la lucidità della sua lettura).

La masseria

 

Salone internazionale del libro di Torino (2010)

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Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Basilicata» il 23 Maggio 2010.

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Le pagine che salvano

Cos’è un albero capovolto? Cosa le sue radici e i rizomi che affondano come mani nella terra? Che si strutturano come assoni, dendriti, sinapsi del cervello? Sono il ricordo, la memoria, il tema di questa ventitreesima edizione del Salone internazionale del libro di Torino. Ma pure il legame profondo con l’anima di una terra e di un popolo. Nel nostro caso quello della Lucania, un ricordo che non si estingue e perdura nei suoi figli, anche quelli più lontani, anche quelli emigrati e che Torino e il Piemonte hanno voluto accogliere.

Questo pare volerci dire la presentazione del libro Circoscrizioni civili ed ecclesiastiche nella Basilicata di Carlo I d’Angiò di Mauro Di Benedetto propostaci dall’Associazione “Cultura e solidarietà senza confini” di Maria Celano (e presentato da Giorgio Filograna giovedì 13 maggio). Un volume che nasce infatti dalla volontà di conoscere certi aspetti della propria regione di origine che Di Benedetto individua nella grande crisi seguita alla fine di Federico II di Svevia. Uno studio sulle fonti del potere amministrativo degli Angiò che comunque, alla lunga, stabilizzarono un periodo di forte mutamento storico a cui la Basilicata, nei rivolgimenti che pure interessarono tutta la Penisola e che portarono lentamente alla nascita degli stati nazionali in Europa, non seppe farsi trovare preparata.

Il particolare tema del legame degli emigrati e dei suoi figli con la propria terra di origine è stato proposto anche dal Consiglio Regionale della Basilicata (presenti allo stand Rossana Nardozza, Antonio Ierardi, Carlo Petrone, Lorenzo Tartaglia e Pietro Simonetti), quest’anno presente con un’installazione snella, ma più funzionale e senza la presenza dei libri degli editori lucani. Il che ha posto fine a una contraddizione che si individua in una “concorrenza” di fondo tra prodotti editoriali e una oggettiva carente capacità di autonomia degli editori nei confronti del supporto del Consiglio che non potrà che avere effetti positivi se in seguito si vorrà riproporre il sodalizio degli scorsi anni su altre basi, necessariamente più chiare, meglio meditate e magari con qualche mezzo economico in più offerto in tal senso.

Un ultimo accenno va doverosamente fatto all’infaticabile attività di Giuseppe Lupo, professore alla Cattolica di Milano di origini lucane, presente in Fiera con una serie di presentazioni e appuntamenti.

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Luci e ombre dell’ex Fiera oggi Salone

Canta vittoria l’organizzazione del Salone internazionale del libro di Torino (13-17 maggio 2010), quest’anno tornato al nome originario una volta risolti i problemi burocratici che ne avevano imposto negli anni scorsi il cambio di nome in Fiera del libro. E snocciola percentuali importanti. Almeno secondo le proiezioni elaborate (prima di avere le cifre definitive) tra il diciassette e il venti per cento in più di affluenza. E tuttavia, per chi da più anni frequenta la manifestazione, ma anche per molti dei responsabili delle case editrici intervenutevi, le cifre proposte (anche quelle del volume di affari sviluppati) appaiono forse più contraddittorie. Innanzitutto a partire dalla constatazione che, in pratica, ogni anno si propone un incremento percentuale che, tradotto in cifre, porterebbe a stivare di visitatori – tanto da non poter permetterne più la deambulazione nonostante le capienti uscite – i tre padiglioni messi a disposizione dall’organizzazione. Ma va beh, “marketing oblige” e non vogliamo certo rovinare il fascino di una manifestazione in grado di proporre cifre comunque imponenti e scarsamente opinabili: intanto ben 11 le regioni presenti con un proprio stand (tra cui anche la Basilicata), 27 le sale incontro o dibattito per 1425 convegni con 2204 autori, 1400 gli espositori con proprio stand o stand collettivi, 75 gli espositori debuttanti (20 con stand autonome, 43 nello spazio incubatore, 12 nello spazio “Invasioni mediatiche”), spazi dedicati a nazioni quali Perù, Romania, Brasile, Slovacchia, Albania. Insomma una vera e propria festa del libro.

Quest’anno, ospite di riguardo del Salone, l’India. Stato-continente ricco di contraddizioni tra strutture arcaiche e spinte modernizzatrici fagocitanti e problematiche. Luogo dell’anima, della sua luce e della sua perdizione, capace da sempre di affascinare italiani come Guido Gozzano e rapire scrittori dell’esotismo di un Emilio Salgari, che pure mai là viaggiò, solo reinventandone il mito compulsando cartine e volumi di biblioteca. E poi l’India di Pasolini, quella dei diseredati della terra di Terzani, ma pure quella degli indiani: dal famosissimo Salman Rushdie alle nuove leve del romanzo come Kiran Desai, Tarun Neipal (il Saviano indiano), Vikas Swarup fino alla bellissima e piccante Shobhaa Dé.

Tra i temi più interessanti, quello del futuro del libro e della diffusione degli e-book, uno scontro sotto l’incalzare di una tecnologia sempre più sofisticata che propone aspetti importanti anche sotto il profilo dell’informazione e della memoria, il tema principe del Salone di quest’anno. “Siamo di fronte a tre parole” ha detto Umberto Eco, “che in realtà vogliono dire la stessa cosa: cultura, anima e memoria. L’anima è memoria: se perdi quest’ultima perdi anche te stesso, e la cultura è ciò che mette insieme l’anima e la memoria di una società”. La cultura, per Eco ha la fondamentale funzione di “conservare il ricordo, filtrare ciò che è importante da ciò che non lo è, ma anche lasciare in latenza memorie che vengono prima dimenticate e poi recuperate in un secondo momento”. Già Platone, ha poi aggiunto il filosofo Maurizio Ferraris, “metteva in guardia sul pericolo di affidarsi a una memoria esterna, la scrittura, tralasciando la pratica della memoria interna di ognuno di noi, più vera e affidabile”. Un problema che diventa dirompente con l’apparizione di internet e supporti che sempre più si affidano a risorse fragili come la corrente elettrica generata dalla scarsità del petrolio. All’antropologa Patrizia Viola non è restato che chiudere il cerchio, perché “anche se i supporti di registrazione fossero immortali avremmo comunque il problema dell’immensa proliferazione delle tracce che lasciamo… come faremmo a decidere cosa ricordare e cosa no?”. Come a dire che troppa memoria coinciderebbe con la sua pratica inutilità, che solo l’oblio può mitigare.

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