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Giuseppe Bufalari e il recupero de La masseria
Questa recensione è stata pubblicata sul domenicale del «Quotidiano del Sud» l’8 maggio 2016.
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Il romanzo racconta l’impatto difficile con la modernità della società contadina lucana negli anni ’50. In occasione della ristampa del volume allo scrittore è stata conferita la cittadinanza onoraria di Calvello.
Questa storia dimostra come tutte le biblioteche – anche quelle paterne, anche quelle che pensi di conoscere ormai come le tue tasche – ti regalano sempre un dono sorprendente quando meno te l’aspetti. E così è stato per il romanzo del fiorentino Giuseppe Bufalari, per tanto tempo rimasto nascosto, sottile com’era in quell’edizione, in mezzo ad altri libri, e forse anche “guardato”, scorso, ma non “visto” o considerato ancora con la necessaria lucidità. Per me, infatti, “La masseria” era sempre stato il romanzo del calabrese Fortunato Seminara, scritto nel 1952, proprio poco prima che Bufalari, in veste di maestro elementare, scendesse nella Basilicata appena investita dai processi di modernizzazione innescati dalla Riforma agraria e dall’intervento della CasMez di De Gasperi e Saraceno. È il 1953: anno tra quelli che segnano il definitivo tramonto del latifondo, ma anche della società contadina meridionale a questo organica. L’anno, tra l’altro, della morte di Rocco Scotellaro a Portici.
Il libro è, però, scritto nel 1959, con l’autore in Maremma e quell’esperienza già alle spalle: sarà pubblicato l’anno dopo, per i tipi della milanese Lerici, tra minacce di denuncia per il disdoro gettato sugli abitanti di quella parte di Basilicata e le lagnanze sul titolo che un infastidito Seminara confiderà a Carlo Cassola.
Nel romanzo, il protagonista è inviato in Basilicata come assistente sociale per preparare la popolazione ai cambiamenti imminenti in quelle contrade. Lasciatosi alle spalle Calvello, dove i giovani aspettano positivamente la Riforma come possibilità di riscatto economico e sociale, si addentra nelle campagne più sperdute verso la masseria della famiglia Torraca. Il protagonista, pur convinto della necessità del cambiamento, ben presto si rende conto che il tempo per operare mutamenti nella mentalità dei contadini non può essere che lungo. Ma la Riforma è già alle porte della masseria con operai, macchine, ruspe, strade. Nessuno si è curato delle relazioni inviate dall’assistente sociale che scrive per informare del disastro che provocherebbe l’inizio immediato delle trasformazioni. In pochi mesi, con la costruzione di una diga, si formerà nei terreni della masseria un lago che la cancellerà. E fino all’ultimo i due mondi sembreranno quasi impermeabili, fino al violento impatto finale che derubrica definitivamente fatti degni di ben altre riflessioni a mera cronaca di ordine pubblico. Lo sgradito assistente è quindi sostituito e trasferito.
Dopo la sua pubblicazione “La masseria” è recensita, nel 1961, da Montale sul “Corriere della Sera”. Il libro conosce un inaspettato successo, tanto da guadagnarsi lunghi interventi, su quotidiani e periodici, dei maggiori critici dell’epoca: Baldacci, Ferretti, Marvardi, Pampaloni, Nogara… Non mancano le traduzioni: tedesca, spagnola e svedese, rispettivamente per i tipi di A. Muller Verlag (“Das tal des Zornes”), di Plaza e Janes (“La maseria”) e di Gebers Stockholm (“Bondgarden”). Infine, per varie ragioni, un lungo oblìo spezzato solo, nel 1972, da una riduzione scolastica curata da La Nuova Italia, peraltro successivamente disconosciuta dall’autore per i tagli eccessivi apportati al testo. Tiratura comunque preziosa se – come ha ben detto in un suo recente intervento sul libro l’editore calvellese Franco Villani – ha poi permesso di salvare complessivamente la memoria del romanzo (divenuto difficilmente reperibile nell’edizione originale) nelle case di molti lucani. E come pure avvenuto in quella di mio padre.
Fin qui la storia del romanzo, poi da me reperito nella sua versione integrale e riproposto alle stampe. Storia che è anche il sangue del suo autore, classe 1927, e tuttavia lucido e vitale, nonostante la recentissima scomparsa del figlio Vieri lo abbia profondamente colpito pur non piegandone, almeno apparentemente, la tempra. Frangente che non ha comunque scoraggiato il proposito della Giunta comunale di Calvello, guidata dal sindaco Mario Gallicchio, di riunirsi in Consiglio straordinario, il 14 aprile scorso, per conferire allo scrittore fiorentino la cittadinanza onoraria del Comune. Un intento a lungo preparato in coincidenza con la nuova pubblicazione del romanzo (2016, pp. 400, 17.00 €) da parte di una casa editrice – la Hacca di Matelica (MC), guidata dall’instancabile Francesca Chiappa – da sempre attenta a pochi, sia pur oculatissimi recuperi editoriali di qualità (anche per l’impegno del lucano Giuseppe Lupo).
Tuttavia non mi sarei impegnato per una nuova edizione del testo se il libro non avesse retto a quella prova di modernità sempre da esigere da un romanzo che oggi voglia farsi ristampare. E dunque lo sguardo dell’autore, il suo confronto tra il mondo di provenienza, quello cattolico e intellettuale di Firenze (fu allievo di Luzi e Bilenchi), così “ingombro di cose, fatto di giornali, di macchine, di chiacchiere” e il tempo antico di una masseria autosufficiente dove, già nel legno della croce appesa alla parete ingiallita dal fumo, Bufalari conta, uno a uno, tutti i tarli lasciati dal paganesimo. “La masseria” di Bufalari non si apre con lo sguardo aereo del “Cristo” di Levi, né quello dal basso verso l’alto dell’anarchico Taddei ai piedi della collina sulla quale è posta Bernalda. La vallata di Bufalari è un mondo che si apre stretto come la dura forca caudina cui sarà sottoposta la sua necessità di comporre, da un lato, il bisogno d’innovazione modernizzatrice, dall’altro il timore di poter perdere l’incanto di un mondo arcaico e profondo. Bufalari, così, scende al Sud con l’entusiasmo di chi vuol partecipare a rimettere sul giusto sentiero di civilizzazione una terra arretrata e superstiziosa ma, – come ebbe a scrivere con grande acutezza Baldacci –, giunto nelle sue campagne, dovendo avvertire i contadini dell’arrivo della “civiltà”, in realtà è messo nella condizione di dover avvertire i promotori della Riforma dell’esistenza di un’altra cultura, basata su un suo specifico equilibrio tra uomo e natura.
Insomma, pur facendo parte della schiera dei meridionalisti non meridionali, mi pare si possa dire che Bufalari si apparenti, sia per lo stile asciutto e terso sia per il definitivo fallimento dei propositi del protagonista, più alla generazione dell’Ottieri del “Donnarumma” che a quella di Levi.
Nella “Masseria” non è traccia di mitizzazione. L’autore sta ai fatti, accosta gli eventi, sia pur registrandoli con accorata partecipazione. Ha scritto bene Di Consoli che il fiorentino “guarda con simpatia a quel popolo… ma non cade nella trappola dell’alterità – come fosse, quel popolo “senza peccato e senza redenzione”, un popolo eletto di Dio, o del Dio assente dei ‘vinti’ della Storia”. Bufalari non ha difficoltà a registrare le superstizioni, le faide, soprattutto la feroce volontà di egemonia di una masseria e di una famiglia sull’altra, il “palpito di speranza” che attraversa il volto dei contadini alla notizia dell’altrui rovina. E tuttavia non fa sconti anche all’indifferenza di chi gli dice brutalmente che i contadini ormai sono il passato, che la modernità avanza troppo velocemente perché si possano realizzare dal “di dentro” i necessari mutamenti nella mentalità rurale. Bufalari scopre dunque che la modernità, pur creando nuovi acquisti (ai quali pochi riusciranno ad adattarsi), sempre esige perdite della stessa entità, non necessariamente attinenti alla sola sfera economica, ma anche a quella della dignità della vita.
“La masseria” ci ripropone, così, a suo modo, in un contesto culturale e politico mutato di segno, la materia divenuta ormai scandalosa di un meridionalismo bloccato alla conta di cosa sia andato storto con la Riforma agraria, la CasMez, l’industrializzazione, l’emigrazione, il sottogoverno, l’impiego pubblico di massa. Salvo renderci conto che il Sud, per il Nord, è diventato, nel frattempo, solo una zavorra.
La Notte Europea dei Ricercatori è Made in Lucania
Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano del Sud – Edizione Basilicata», domenica 12 ottobre 2014.
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Lucani che si confermano. Vale a dire Francesco Larocca, lagonegrese, oggi docente di scienze dell’Istituto Salesiano Villa Sora a Frascati (Roma) e vicepreside di quel Liceo Scientifico; soprattutto instancabile mediatore culturale: una figura, quest’ultima, di cui oggi in Italia c’è disperato bisogno. Iniziò, nel febbraio 2012, con l’acquisto di quattro telescopi, attorno al quale aggregò il gruppo di astrofili “Segui la Stella”. Un’associazione che oggi alterna anche incontri con personalità del mondo scientifico e sessioni d’osservazione dello spazio.
Così, anche quest’anno, l’istituto è stata autorevole sede della “Notte dei Ricercatori” e partner di “Frascati Scienza”, un’organizzazione costituita da tremila scienziati, otto istituti e ben tre università. A cominciare dal 25 settembre, per finire il 27, offrendo un programma davvero ricchissimo, mossosi tra sessioni di osservazioni dello spazio tenute da Gianluca Masi, del locale osservatorio “La Torretta”, mostre fotografiche su “Il lavoro dell’uomo e la natura” (foto e allestimento realizzati dai fratelli Angelo e Francesco Larocca), percorsi didattici, sbandieratori teatrali di Borgo Spante e, più in evidenza, conferenze. Queste ultime a partire da quella di Roberto Somma (dirigente di Thales Alenia Space Italia) sull’osservazione della Terra dallo spazio come strumento a supporto della sostenibilità del Pianeta; per continuare con quella accattivante del biologo marino Luciano Bernardo, che ha parlato dell’importanza dell’osservazione diretta nella sua disciplina, a partire dai tesori lasciati a riva dalle onde; fino a quella sui “Nuclei fondanti dell’apprendimento significativo”, lectio dello psicoterapeuta dell’Università di Tor Vergata Filippo Pergola.
A chiudere, il 27 settembre, le giornate – ormai lo si sarà compreso, virate sui temi dell’ecologia come scienza e sulla correlata sostenibilità planetaria – Salvatore Curcuruto, dirigente dell’ISPRA, sulle nuove tecnologie di illuminazione urbana LED e il loro impatto ambientale.
Tuttavia, anche quest’anno, mattatore dell’incontro, il 26 settembre, è stato senza dubbio Davide Giacalone (opinionista per RTL e di “Libero”) che, in anteprima sull’uscita in libreria a ottobre, ha presentato la sua ultima fatica “Senza paura. Per non perdere il bello di un mondo migliore” stampata per i tipi della Rubbettino (pagg. 296, 15.00 €). Tanto in anticipo, grazie alla tempestività di Larocca, da essere presentato allo stesso autore prima che l’editore riuscisse a fargliene avere copia.
Il libro, nato un po’ per caso a partire da considerazioni empiriche sulle conseguenze psicologiche della crisi economica ancora in atto sugli italiani, parte dalla ragionevole constatazione che “Scansati i tempi paurosi” del passato “ne abbiamo creati di impauriti” di cui la radice è “l’aspettativa che le cose possano andare peggio di come sono andate e di come vanno”, soprattutto per i figli. Una paura tale da cogliere, perché osservatore necessariamente coinvolto, anche il nostro autore sia pure, però, in un senso totalmente positivo se essa “salva la vita” facendoti “avvertire il pericolo, mentre la perde e rovina se induce a un tremore paralizzante” o trasformandosi in rabbia sociale. Di fronte a ciò, secondo Giacalone, bisognerebbe fermarsi a ragionare per essere più consapevoli.
Tuttavia, mentre la conferenza di presentazione a Villa Sora ha girato intorno a tematiche parecchio spinose, pure dal punto di vista del diritto, ma più circoscritte (ogm, eterologa ecc.) e in difesa della scienza dal pregiudizio e dall’accusa di nutrire appetiti faustiani sul nostro mondo, in realtà le pagine del libro aprono a problematiche ben più ampie, dall’economia e dalle politiche fiscali fino alla famiglia e al “declino del maschio”, dal problema immigrazione ai fondamentalismi (ben presenti anche in occidente) alla sovranità europea. Per esortarci ad aver la fibra di andare, seguendo una via pragmatica di ritorno alla realtà e di consapevolezza delle difficoltà, oltre i vuoti ottimismi o i facili, persino interessati, pessimismi. Certi che di fronte agli sconquassi della crisi che andiamo attraversando: “non ci aspetta il cilicio, per redimerci dal peccato, non è auspicabile alcuna stagione penitenziale. Ma neanche ci aspetta un’interminabile ‘happy hour’, nell’incoscienza dell’inutilità. E fortunatamente, perché la pausa, senza il precedente e successivo impegno produttivo, finisce con il somigliare orrendamente al vuoto”. Insomma, commentando Croce, scegliendo uomini sì onesti e integri, ma pure preferendoli “per capacità e forza realizzativa, altrimenti la vita collettiva si corrompe nella stagnazione e degenera nel declino. Che, se anche onesto, è ben gramo destino”.