Antonio Celano

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4. Wut!

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Non credo che la natura di questa parte della Norvegia possa dirsi “sulfurea”, “torturata” o “violenta”, come invece quella islandese. Ma, certo, in molti tratti capace anch’essa di mostrarsi “aspra”, o “tormentata”. Sanno dirlo le frane, per esempio: quegli ammassi di pietre dove poco riesce a risollevarsi la vegetazione, o le incombenti pareti dei fiordi dove si generano: mai lisce, mai placide, scolpite alla brutta – solcate da lunghe, filiformi cascate estive – laddove tutto appare fisso eppure in forse fino a farmi temere che, tra i lunghi denti dei graniti, si annidi il fragile armistizio di un’apocalisse.
E questa opera di mare e di gelo dissolto sa a un tratto sorprendermi se, entrando nel Geirangerfjord, alla mia dritta mi osserva un volto guerriero. Che subito cerco di spiegarmi con due piloni staccatisi sotto un toro di roccia, poi con la Gestalt e con le manie antropomorfe a cui ogni uomo, alla fine, s’inchioda come al becco di sangue di un gabbiano. Eppure, la nave, avanzando, non riesce a glissare consegnando un’altra parvenza a quel volto, assolvendolo dal dover significar qualcosa. Il volto resiste, fermo: il suo sguardo nel mio. E mi sento, a un tratto, come di fronte a un Argonath scolpito solo dal caso naturale. Certo senza braccia che possano ammonire un’entrata improvvida, senza ascia, senza corona; eppure corrucciato, austero, gigantesco e grigio, come apparve agli occhi di Aragorn. Mi rallegro, quasi, che la sua spinta si sia spenta nella roccia, forse anche placata dai lisci capelli delle Sette Sorelle d’acqua che scorrono a mare. Ma per quanto?
In seguito, altri volti guerrieri, ma più sfuggenti e accorti, si sono defilati intorno all’Hyvlatonnå (Preikestolen) di Lysefjord.
Come per la Stavkirke di Fantoft, in Norvegia c’è qualcosa nelle cose: una storia geologica o umana, non importa, che vuole uscir fuori, che vuole liberarsi. Un tormento primordiale, irriducibile a tutte le strutture costruite sopra dal tempo. Qualcosa di irrazionale – le fiamme dei draghi – ma anche di improvviso. Selvaggio, ecco. Feroce.
Ne ho la prova giorni più tardi, in un luogo più a Sud, dove, per giunta, non dovrei più aspettarmi niente. Eppure.
Sono sulla Gotaplatsen di Göteborg, ormai in Svezia. Osservo il dio Nettuno di Carl Milles, fontana figlia dello stile “Accademico moderno”, ricca di soggetti mitologici classici quanto più lontani da qualsiasi Pantheon scandinavo. A differenza di altre opere di Milles, solitamente slanciate su colonne, Poseidone sorge in un gioco vitalistico di acque, circondato da piccole sirene festose e pesci guizzanti, tipiche dello stile di questo scultore.
Intento a far foto, arrivo di lato ai piedi della fontana e il mio sorriso si infrange sulla testa di una creatura marina, una tartaruga – non so – ma feroce di denti, gli occhi strabuzzati, che sfonda la base della scultura addentando un pesce nell’ultimo guizzo possibile di morte o di salvezza.
“Wut”, lo chiamavano gli antichi popoli germani e chissà se anche i primitivi abitanti di queste terre, i Geati, i Goti discesi dalle antiche tribù dei Götar. Wut: la furia, il gesto istintivo, rabbioso, collerico di vendetta o di guerra. Insomma, il “ferocem” latino, la “fera”, la belva, il “ferus” più selvaggio e, forse, anche il “ferre”, cioè l’abbandonarsi, il precipitare, sebbene in una delle sue accezioni più pure e inquietanti. Qualcosa di irriducibile, un’onda sfiguratamente spenceriana, che dagli uomini ho visto risalire – è stato un attimo! – verso ere ormai fossili…

 

Antonio Celano (agosto 2019)

 

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