Antonio Celano

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Recensione a: Franco Arminio, Oratorio bizantino (Ediesse 2011)

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Questa recensione è stata pubblicata su «Il Quotidiano della Basilicata» il 03 Aprile 2011.

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Tra passione e lirismo civile la resa del Sud alla globalizzazione

Dopo i paesologico-meteorologici Vento forte tra Lacedonia e Candela e Nevica e ho le prove, non abbiamo fatto in tempo a lasciare Franco Arminio alla mimesi ipocondriaca di Cartoline dai morti che finiamo già per ritrovarlo sorprendentemente sulle pagine ricche di passione e di lirismo civili del suo ultimo Oratorio bizantino (Ediesse, 2011, 160 pp., 10 euro) qui laicamente inteso come il luogo della parola di valore sacro e della riaggregazione comunitaria. In una terra bizantina ricca di complesse stratificazioni culturali che tuttavia convivono con le sottigliezze pedanti e le arroganze dell’odierna politica.

Tra questi libri, insomma, temi solo lontanamente apparentati, registri separati e distanti – si dirà. Ma è un errore. Perché la forza della scrittura di Franco Arminio non sta tanto nei temi o nei toni usati per dargli voce, bensì nell’unità di uno sguardo che fonde sempre ardore e mestizia. E – come ho già scritto in altra occasione – ciò mi pare si riveli particolarmente in un’intuizione che Arminio articola in Oratorio con le parole conclusive del capitolo intitolato Il Cavaliere e la morte: “In un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta raramente dalla vita”.

Non è accampata qui nessuna visione filosofica greco-classica della morte del genere di quelle attribuite, ad esempio, a Euripide nel Gorgia platonico. Piuttosto la più concreta constatazione di fase politica che oggi la morte non ghermisca più, improvvisa, singoli uomini, come quelli che abitavano i brevi di Cartoline, ma tutti soffochi in qualcosa di stagnante e pervasivo, qualcosa capace, ancora vivi, di farci guardare il mondo “come se fossimo già fuori da esso”.

È una deriva che riguarda la comunità, la sua morte perpetratasi attraverso la vittoria definitiva dell’individualismo sulla collettività. È accaduto che, con l’irrompere dei processi di modernizzazione, anche a sud si è “stupidamente preteso” di essere altro da ciò che eravamo. L’Irpinia, come il resto delle “terre dell’osso” appenninico, non ha perseguito un suo peculiare adattamento, bensì un definitivo dissolvere o, peggio, commerciare, la propria identità nel grande mercato globale – dice il sociologo Franco Cassano nella sua appassionata introduzione al libro. Certo, rispetto ad altre parti d’Italia, sembra che dall’esterno i cambiamenti siano stati minori “anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silenziosa, da una ‘modernità incivile’ che ne ha disinnescato l’anima, trasformando gli abitanti in profondità”.

Non possiamo aver sostituito – pare dirci Arminio – un mondo contadino di fatiche, miserie (anche umane) e grettezza con la società più facile ma altrettanto gretta e angusta del consumismo. Che pare aver mutato le comunità in un incoerente aggregato piccolo-borghese di individui intimamente estranei gli uni agli altri, chiusi nel proprio interesse esclusivo, timorosi del mondo esterno. “La questione più che economica è psicologica. Non abbiamo avuto mai tanti io alla ribalta, tanti capricci in lenimento. Il mondo è diventato una gigantesca scuola materna. Dopo un’adolescenza a oltranza molti diventano direttamente decrepiti”. E la povertà semmai è concepita nel crucciarsi “per la parabolica e il telefonino”, il successo nello scimmiottare “le posture metropolitane: cemento, decibel, gerghi mercantili, tossine”. E tuttavia non si tratta di vagheggiare il mito dell’antimodernità quanto, più correttamente, dotarsi di un “cuore meno provinciale, che sappia coniugare il computer e il pero selvatico”, vale a dire abbattere disagio e fatica senza che si svilisca la bellezza scabra di una terra.

Consci che, se smotta il disarticolato terreno civile sotteso, si frantuma anche il suo specchio, cede ai piani più alti l’edificio della politica che lo rappresenta. Persino (non stanno solo a dimostrarlo i brogli delle primarie partenopee) chi ha sempre millantato una presunta diversità morale. Come non essere d’accordo con Franco Arminio quando ironizza su certi segretari provinciali del PD? come non esserlo quando stigmatizza la vanesia vuotaggine politica e culturale di certi sindaci e di certi candidati locali? come, quando descrive una politica ridotta a vigliacco e ineffettuale chiacchiericcio di paese o, per altri versi, a compromesso, a carriera, ad affare economico?

Fin qui l’analisi. Lirica, si è detto, eppure moralmente austera, dura, impietosa. Se non fosse che, per Arminio, “l’unico modo di non portare il broncio alla propria epoca è attraversarla con furore”. Perché – ritornando sui primi passi di questo articolo – se la morte soffoca la vita, a maggior ragione evidenzia, di quest’ultima (in un suo senso dilatato di comune spazio abitativo, di luogo di espressione della nostra esistenza, di valorizzazione della sua qualità), la fragilità e il miracolo, il bisogno che sia costantemente sostenuta, protetta, potenziata. Bisogna dunque che (non solo) gli irpini smettano di sentirsi come affezionati alle proprie lamentose malattie, bisogna che fuggano fuori dal recinto, che si facciano scoppiare dentro la rivoluzione, che smettano di giocare all’interdizione dell’altrui iniziativa (“l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni”). Bisogna che smettano di spiare il mondo dalla televisione, che escano all’aria pungente, schiaffeggiante della realtà.

Difficile, eppure bisogna provarci, gli fa eco Cassano. Ed ecco dunque perché abbracciare proprio le lotte apparentemente “da falliti”, quelle buone per i poeti e gli artisti, quelle che i politici evitano per poi lucrarci su: la battaglia contro una discarica, le manifestazioni per un ospedale che si curi dei suoi cittadini senza che i cittadini debbano curarsi dell’ospedale (perché sia dotato di strumentazioni o addirittura per non lasciarlo delocalizzare altrove), l’organizzazione di un festival (Cairano 7X) che culturalmente sia capace di promuovere un nuovo umanesimo delle montagne, una speranza che una terra non sia considerata definitivamente dismessa, la fiducia che un paese possa, e come, ancora essere (che è il lavoro smitizzato dei “paesologi” contrapposto a quello dei “paesanologi”, i cantori nostalgici dei paesi che furono).

In quella generazione di scrittori meridionali (i Pascale, i Lagioia, gli Argentina, i Leogrande, i Saviano ecc.) che, a partire dal “Nuovo Rinascimento” degli anni Novanta, ha saputo fare “storia civile del Paese” e del sud (per usare una sintesi di Filippo La Porta), con “Oratorio bizantino”, Arminio esprime una sua specificità nel “tenere insieme la tensione poetica e quella politica, la contemplazione e il conflitto”. Il che rischia di consegnarlo a una sostanziale solitudine, ci sembra, rispetto a quella che potrebbe essere la potenziale ricettività delle comunità locali cui si rivolge, ormai davvero loricate di cinismo e indifferenza verso ogni politica che osi per tutti. Solitudine pure alimentata dal fatto che oggi i politici non riescono più nemmeno a ispirarsi a una qualsivoglia politica di programma, figuriamoci a dare il coraggioso plastico inveramento alla visionaria creatività degli artisti. Al limite, nel migliore dei casi, come per Vendola, sono loro stessi a farsi poeti, tuttavia a volte incassando, col giusto plauso, pure la diffidenza che merita la stonatura dell’eccesso.

Eppure non ci si può stancare – dice Cassano – “neanche di fronte ai riflussi e alle sconfitte, anche quando si rimane da soli, e gli altri si defilano, prima l’uno, poi l’altro, chi con una scusa, chi con l’altra”. E forse quello di Arminio rimarrà un sogno per il futuro, ma intanto la personale utopia che disegna ha comunque un utile carattere normativo per capire l’anomalia del presente del meridione e per incidervi. E già qualcuno si convince che, verso quella terra che ancora non c’è, sia venuto il momento di far rotta. Forse perché l’unica davvero abitabile.

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Written by antoniocelano

aprile 4, 2011 at 7:24 am